CARACCIOLO, Marino
Del ramo dei Pisquizi della nobile famiglia napoletana, figlio di Francesco detto Poeta, e di Covella Sardo, fu fratello minore di ser Gianni, favorito di Giovanna II d'Angiò. Appunto per assecondare i disegni diplomatici del celebre congiunto, che nel 1418 cercava di assicurarsi una tregua politica con Muzio Attendolo Sforza, il C. sposò in quell'anno l'allora tredicenne Chiara, nipote del condottiero, la quale gli dette sette figli, Pirro, Giacomo, Caterina, Giovanni Giacomo, Covella, Rinaldo e Camillo.
Il 28 ott. 1419, secondo il Tummulillis, avrebbe presenziato, già col titolo di conte di Sant'Angelo dei Lombardi, insieme con il fratello e con i principali signori del Regno, all'incoronazione di Giovanna II, se il suo nome non è stato confuso con quello di Giovannello Zurlo, l'allora conte di Sant'Angelo, o del figlio di lui, Marino. Egli, infatti, ricevette in dono quella contea l'11 genn. 1427 da ser Gianni, il quale l'aveva acquistata dal demanio regio, dopo che nel luglio dell'anno precedente i beni ed i feudi della famiglia Zurlo erano stati confiscati. La sovrana gliela confermò, assieme al diritto di fregiarsi del titolo di conte, il 10 dicembre dello stesso anno. Il 26 luglio precedente il fratello gli aveva fatto dono anche di due importanti località della Capitanata, Cerignola ed Orta Nova.
Pochi anni più tardi, nel quadro dell'azione di sostegno svolta dalla re, in favore del nuovo papa, Eugenio IV, contro i Colonna, che, morto Martino V il 19 febbr. 1431, andavano rapidamente perdendo i vasti possedimenti ed i notevoli vantaggi acquistati nel Regno, il C. fu inviato da Giovanna II in soccorso del papa, al comando di mille cavalli e di altrettanti fanti, con il compito immediato di ricondurre all'obbedienza regia alcune località poste in Terra di Lavoro e nel Molise, probabilmente feudi dei Colonna o loro simpatizzanti.
Tragicamente e repentinamente conclusasi la vita di ser Gianni, con il suo assassinio avvenuto il 19 ag. 1432, il C. sottostò alla sorte degli altri amici e parenti del gran siniscalco venendo imprigionato e subendo la confisca dei beni. La sua attività rimase in seguito nell'ombra, mentre, sopravvenuta anche la morte di Giovanna II, si svolgeva con alterne vicende la lotta fra Renato d'Angiò ed Alfonso d'Aragona per la successione nel Regno, fino a che nel 1441 egli prese partito per l'Aragonese, ottenendo da lui per la sua adesione la restituzione della contea di Sant'Angelo, di Cerignola e la condotta di tredici lance nell'esercito regio. Egli si trovò così dalla parte del vincitore quando nel giugno del 1442 Alfonso, battendo definitivamente l'Angiò, conquistò Napoli. Il 9 ottobre dello stesso anno il re, in riconoscimento della fedeltà da lui dimostratagli e dell'aiuto prestato al trionfo della causa aragonese, gli donò una pensione di 200 ducati annui. Il 22 febbraio dell'anno successivo, insieme agli altri baroni napoletani, egli partecipò alla fastosa cerimonia che esaltò l'ingresso del sovrano nella capitale del suo ormai incontrastato dominio. Due giorni dopo si teneva il primo Parlamento generale convocato da Alfonso d'Aragona nella sala capitolare del convento di S. Lorenzo in Napoli, il quale, con l'approvazione della riforma della Vicaria e la innovazione della tassa sui fuochi, prese importanti decisioni di carattere giudiziario e fiscale. Ad esso partecipò anche il Caracciolo.
Morto il 23 febbr. 1447 Eugenio IV, e manifestatisi a Roma i tumulti alimentati dall'antico antagonismo fra gli Orsini ed i Colonna e le agitazioni suscitate dalle illusioni e dagli entusiasmi di Stefano Porcari, il re di Napoli si erse a difensore e garante della libertà e della sicurezza del Sacro Collegio ed inviò ai cardinali quattro ambasciatori, il C., Giov. Antonio Orsini, Garzia Cavaniglia e Caraffello Carafa, per esortarli, rassicurati dalla sua volontà di tutelare la loro autonomia, a procedere all'elezione del nuovo pontefice. Eletto a Tivoli il 6 marzo Niccolò V, il C. fa di nuovo incaricato da Alfonso di recarsi a Roma, questa volta insieme con Onorato Caetani, Guillen Ramón de Moncada e Carlo di Campobasso, per presentare al papa le felicitazioni e l'atto di obbedienza del sovrano.
Dopo aver ottenuto nel 1448 dal re la facoltà di dividere i suoi beni fra i figli ed aver partecipato l'anno successivo al Parlamento generale, in cui fu decisa l'abolizione dell'odiata tassa sui fuochi, nel 1450 il C. ricevette numerosi riconoscimenti. Divenne, cioè, maresciallo del Regno e membro dell'appena costituito Consiglio di S. Chiara, con la pensione annua di 1.000 ducati. Ottenne poi a più riprese in favore del figlio Pirro l'intervento presso il papa di Alfonso d'Aragona, che nel 1450 intercedette perché gli fosse concesso il vescovato di Melfi; il 20 luglio 1451 lo raccomandò per fargli ottenere la commenda del priorato di Capua ed il 10 dic. 1452 sollecitò l'invio della bolla relativa alla avvenuta elezione ad arcivescovo di Cosenza del religioso.
Nell'autunno del 1453 egli svolse un importante, anche se sterile, incarico diplomatico. Sotto la pressione psicologica della caduta di Costantinopoli (29 maggio) Niccolò V aveva convocato a Roma un congresso che doveva operare perché si giungesse alla fine della guerra, che opponeva le due grandi coalizioni costituite da Francesco Sforza, signore di Milano dal 1450, insieme con Firenze con Carlo VII, re di Francia, con Genova e col marchese di Mantova, da una parte, e dalla Repubblica veneta, affiancata dal duca di Savoia, dal marchese del Monferrato e da Siena, dall'altra. Il C. fu inviato a Roma insieme con Michele Riccio. La riunione degli inviati delle potenze italiane, come si sa, anche a causa dell'ufficialità dei colloqui, non sortì alcun effetto positivo, né si conosce esattamente il peso degli interventi dei due oratori napoletani, in quanto i loro dispacci sono andati perduti. Conclusa il 9 apr. 1454 la pace di Lodi fra i due principali Stati belligeranti, Milano e Venezia, all'inizio dell'anno successivo il C. fu inviato a Roma per trattare con il papa la lega venticinquennale, che si disse italica, stipulata il 2 marzo fra Venezia, Milano, Firenze, Roma e Napoli.
I nuovi rapporti di amicizia fra lo Sforza, fino ad allora rimasto sempre legato alla causa angioina, ed Alfonso, furono ulteriormente rafforzati, nel 1455, dalla conclusione di un doppio fidanzamento, quello di Ippolita Sforza con Alfonso d'Aragona, nipote del re, e di Eleonora d'Aragona con Sforza Maria Sforza, figlio del signore di Milano. In quell'anno, appunto per la preparazione e la conclusione di questi parentati, il C. si recò a Milano, ancora una volta con Michele Riccio. Alla morte di Alfonso d'Aragona (27 giugno 1458), il C. si schierò dalla parte dei fautori di Ferrante e fu certamente uno dei suoi più decisi partigiani, visto che fu designato insieme con Carlo di Campobasso dagli altri baroni favorevoli al figlio illeggittimo del defunto re, per recarsi a Roma per indurre Callisto III ad accettare Ferrante quale successore nel Regno. Essi non portarono a termine la loro missione, poiché il papa, prima che potessero parlargli, si ammalò gravemente, si disse per il dolore provato per l'appoggio di Francesco Sforza a Ferrante, e morì ai primi di agosto. I due gentiluomini da delegati dei baroni si trasformarono allora in ambasciatori regi, ricevendo le lettere di procura che Ferrante inviò loro per compiere un'oblazione in onore del papa defunto. Anche se, con il nuovo pontefice, Pio II, tutto teso ad ottenere che gli Stati italiani e stranieri si impegnassero a realizzare la crociata, Ferrante acquistò un sostenitore, fu subito chiara la decisione di Giovanni d'Angiò di opporglisi e di far valere i diritti vantati dal padre sul Regno. Mentre questi, sollecitato dal principe di Taranto e da quello di Rossano, preparava l'impresa, il C. rimaneva al fianco del re e riceveva il comando di una compagnia nell'esercito aragonese in Puglia, ottenendo inoltre l'11 dicembre la metà dei beni confiscati a Luigi Arena. Iniziata nell'ottobre del 1459 la spedizione angioina, il C. rimase in Capitanata, rappresentandovi lealmente l'autorità regia, fino a che all'inizio del 1460 chiese di essere esonerato dalla sua carica di viceré in quella regione e Ferrante gli concesse in sostituzione, con parole di stima e di riconoscenza, il vicereame del Principato Ultra e Valle Beneventana. I rapporti del barone napoletano con il re sembrano attraversare in questo periodo una fase critica. In coincidenza forse con la sconfitta di Sarno (7 luglio), il C. sarebbe passato dalla parte angioina, se è vero quanto afferma il Toppi. Nel 1463, comunque, quando ormai si delineava l'insuccesso del tentativo di Giovanni d'Angiò, il C. era di nuovo nelle grazie del re, che lo insignì dell'Ordine dell'Ermellino.
All'inizio del 1467 egli compì la sua ultima missione diplomatica. Firmata il 4 gennaio, con l'assenso di Paolo II, la lega fra Napoli, Firenze e Milano, diretta piuttosto evidentemente contro Venezia, Ferrante d'Aragona inviò il C. a Ferrara, ufficialmente per recare dei cani a Borso d'Este, ma in realtà per rassicurarlo sulla natura non offensiva della lega. Il 26 febbraio il re, su istanza della moglie e della figlia di lui, invitò il C., che soggiornava nella città estense almeno dal 18 gennaio, a ritornare a Napoli. Benché potesse sembrare che il richiamo in patria dell'inviato fosse dettato al sovrano dal desiderio di dissipare i sospetti che sul soggiorno dell'ambasciatore nutrivano gli alleati, furono effettivamente ragioni di salute che provocarono questa decisione. Il C. morì infatti, non si sa se a Napoli o a Ferrara, dopo pochi giorni, il 12 marzo 1467, e fu seppellito, secondo la sua volontà, nella cappella Caracciolo, in S. Giovanni a Carbonara in Napoli, nella quale si ergeva il sepolcro funebre del fratello, ser Gianni.
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