NIELLI, Maria Adelaide Giuseppa
NIELLI, Maria Adelaide Giuseppa (Nina Ricci). – Nacque il 14 gennaio 1883 a Torino, da Vincenzo e da Francesca Berra.
La famiglia, di origini modeste, abitava in via Passalacqua, in una zona centrale della città. Il padre, calzolaio, sufficientemente intriso di patriottismo da chiamare la primogenita Italia, emigrò negli anni Novanta con la moglie e i cinque figli, quattro femmine e un maschio, a Montecarlo, dove morì qualche anno dopo, poco più che cinquantenne. La scomparsa prematura del capofamiglia contribuì ad accelerare la prassi, diffusa nelle famiglie degli emigrati italiani di fine secolo, secondo la quale i figli iniziavano a lavorare giovanissimi, i maschi nell’industria e nell’artigianato e le femmine nel mondo della moda e della confezione.
Come le sorelle, Maria (in famiglia chiamata Nina) appena raggiunta l’età legale, poco più che bambina, cominciò l’apprendistato come cucitrice nelle sartorie monegasche. Qualche anno più tardi la famiglia, ormai composta da giovani lavoratori con un mestiere, intraprese nuovi percorsi migratori, i cui poli d’attrazione furono le destinazioni privilegiate dei flussi dell’emigrazione continentale e transoceanica: la metropoli parigina e le Americhe. Una sola delle sorelle Nielli, Celestina, restò nel principato di Monaco, mentre Nina e Adalgisa (Gisa) si trasferirono con la madre a Parigi, dove Italia aveva aperto un negozio di merceria, e il fratello Felice si recò in un primo tempo ancora più lontano, in America del Sud, per tornare poi in Italia.
A Parigi la strada di Nina si differenziò da quella delle sorelle, grazie alla sua straordinaria abilità nelle specializzazioni più prestigiose della sartoria: il taglio e le rifiniture. Giovanissima − appena diciottenne secondo il bel profilo biografico pubblicato da Marie-France Pochna (1992, p. 10) − arrivò all’apice dell’iter di formazione rigorosamente gerarchizzato delle lavoratrici nella confezione su misura, passando da assistente, petite main, a cucitrice qualificata, première main, e infine a prima cucitrice di laboratorio, première d’atelier.
Nel frattempo, nel 1901, si era sposata con Luigi Ricci, rampollo di una famiglia di orefici fiorentini con la quale ruppe i ponti per stabilirsi con la giovane moglie. Dall’unione nacque, il 29 luglio 1905, Robert, rimasto unico figlio di Nina Ricci nonostante un successivo matrimonio − dopo la morte di Luigi nel 1909 − con il bretone Gustave Morel, commerciante e installatore di materiale elettrico e radiofonico incline ai rovesci di fortuna.
Nella Parigi d’inizio secolo, dove l’alta moda, la hautecouture, tentava di definire i propri canoni separandosi dalla Camera sindacale della confezione, Nina lavorò prima nella sartoria Bloch e Backry, poi in quella di Bertrand Raffin, dove diventò modellista e responsabile di laboratorio, riuscendo a imporsi tanto da trasformare la collaborazione come dipendente nella creazione di una società collettiva a responsabilità limitata con il datore di lavoro, la Raffin e Ricci, iscritta al tribunale di commercio di Parigi nel 1925 (Archives de Paris, Tribunal de commerce, 1925). Che fosse per anticiparne un desiderio di autonomia o contrastare un suo effettivo progetto imprenditoriale, senza dubbio per paura di perdere la migliore delle sue dipendenti, l’anziano Raffin, ormai quasi settantenne, trovò un accordo con l’ambiziosa associata: dal punto di vista creativo, produttivo e contabile l’atelier della Ricci sarebbe stato autonomo ma avrebbe diviso i ricavi con il socio, il cui nome prestigioso assicurava una clientela facoltosa.
La posizione raggiunta in seno alla casa di moda − situata in rue Edouard VII, in uno dei quartieri eleganti della rive droite, dove abitavano clienti della buona borghesia dai gusti tanto raffinati quanto convenzionali − permise alla quarantenne Nina Ricci di aiutare la famiglia, a cui rimase sempre molto legata, di trasferirsi in un grande appartamento non lontano da place de l’Etoile e di adottare un stile di vita agiato, ben distante dalle difficoltà conosciute in gioventù.
La morte di Raffin, nel 1929, avrebbe potuto tradursi in una definitiva interruzione dell’ormai pienamente avviata carriera della Ricci. Ma entrò allora in scena − in quello spazio al confine tra alta moda e pubblicità, in piena espansione nella Parigi tra le due guerre − il ventiseienne Robert Ricci, il quale, reduce da esperienze lavorative precoci e da viaggi che lo avevano avvicinato al mondo dei media e della commercializzazione dei prodotti industriali, coinvolse la madre in un sodalizio che si prolungò per tutto l’ultimo quarto della sua vita.
La fama di Nina Ricci come creatrice di alta moda fu il frutto dell’intesa e della perfetta complementarietà tra la madre stilista e il figlio pubblicitario. La ditta Raffin e Ricci cambiò nome nel 1932, diventando Nina Ricci, e si trasferì nella mitica sede al numero 20 di rue des Capucines, a due passi dal quartiere della Madeleine. L’anno dopo Robert, in collaborazione con i fratelli Jean et Jacques Lacroix, editori eclettici di una molteplicità di testate popolari, fondò anche un’impresa di pubblicità, Propublicité, e poi uno studio di fotografia industriale, Prophoto, sito nei locali della casa di moda (Archives de Paris, Tribunal de commerce, 1933; 1934). Nello stesso periodo, con i fratelli Lacroix e la fotografa Cosette Harcourt (alias Germaine Hirchefeld), diede vita allo Studio Harcourt (1934), destinato a divenire uno dei laboratori più importanti di fotografia artistica sulla piazza parigina (Denoyelle, 2009, p. 26).
Il coinvolgimento di Robert nella maison, in piena crescita, si concretizzò formalmente a partire dalla fine degli anni Trenta, quando cominciò a cedere le sue quote dello Studio Harcourt e diventò direttore associato della S.a.r.l. Nina Ricci, che, immediatamente cooptata dalla haute couture, alla vigilia della Seconda guerra mondiale occupava ormai diversi piani del grande immobile di rue des Capucines.
Malgrado la crisi, lo stile raffinato e attento ai dettagli di Nina Ricci, che era solita drappeggiare direttamente i tessuti sui manichini e le modelle senza passare per lo schizzo, si era affermato negli ambienti borghesi che disdegnavano le stravaganze dell’aristocrazia e dei circoli mondani anticonformisti e apprezzavano i prezzi relativamente contenuti praticati dalla casa malgrado l’alta qualità della fabbricazione e la ricchezza dei tessuti utilizzati.
Negli anni Trenta i modelli prodotti da Nina Ricci, come dalle altre case della haute couture, rappresentavano una vera e propria fuga dalla realtà, mentre già cominciavano ad apparire gli abiti ‘pratici’ del prêt-à-porter, contraddistinti dalle spalle larghe, che mettevano in risalto la vita stretta, e dalle gonne più corte che in passato. La tendenza si accentuò durante la guerra, con i tailleur dalle gonne aderenti, le borse a bandoliera, i cappelli ispirati alle uniformi militari, le scarpe dai tacchi di sughero o di legno, surrogati più economici del cuoio.
Dopo l’occupazione tedesca di Parigi, quando il controllo del regime nazista sull’industria francese della moda si fece rigoroso e molte ditte furono fatte chiudere per ragioni razziali, la Nina Ricci fece parte della ventina di case di moda rimaste aperte e continuò a servire una clientela formata da collaboratori del regime e da dignitari dei paesi dell’Asse. Opulenza e raffinatezza di tessuti e di accessori caratterizzarono anche i modelli del periodo bellico: lo stile dell’alta moda pareva svilupparsi in un mondo a parte, lontano dalle costrizioni della vita quotidiana, e neanche le restrizioni sul metraggio dei tessuti imposte dal 1942 sembravano avere effetto sulle creazioni di quegli anni.
A posteriori i presidenti della Camera della haute couture hanno voluto interpretare questa scelta come una sfida alle ingiunzioni naziste, come una forma di ostentata trasgressione delle norme in vigore. Tuttavia gli storici della moda e del costume hanno piuttosto sottolineato come i regimi autoritari, tanto quello di Vichy quanto quelli fascisti, amassero nell’abbigliamento lo stile conservatore proposto dai modelli fastosi di quegli anni (Steele, 1998).
Il mercato dei paesi alleati tuttavia cessò, provocando una riduzione drastica della produzione e la crisi del sistema internazionale dell’alta moda che gravitava su Parigi. Anche per la maison Nina Ricci l’attività rallentò considerevolmente, tanto più che all’inizio della guerra Robert venne mobilitato nell’esercito francese. Finito il conflitto, però, la ripresa fu rapida: la casa trasse profitto dal grande successo del new look lanciato dalla collezione d’estate di Christian Dior nel 1946 e dalla tendenza al conformismo propria della moda degli anni Cinquanta.
Rispetto allo stile sobrio degli abiti da giorno della guerra, le gonne ampie e pieghettate del new look e la profusione di tessuti che lo caratterizzavano costituirono un vero e proprio fenomeno sociologico, che dai ceti alti si diffuse, attraverso la copia dei cartamodelli, in ogni angolo della provincia francese e nel mondo.
Si trattava di una sorta di voluttà collettiva, una rivincita rispetto alle privazioni belliche, che si poneva in perfetta sintonia con lo stile elaborato da Nina Ricci e andò oltre la sua presenza effettiva nella ditta. Infatti, pur restando associata alle diverse attività familiari, la stilista, ormai settantenne, qualche anno più tardi si ritirò dalla vita attiva.
Nel 1954 cominciò a collaborare con la casa, come figurinista, un creatore di moda belga, Jules-François Crahay, che, dopo due stagioni infruttuose a Parigi per conto proprio, progressivamente si impose in seno alla maison Ricci fino a firmarne, tra il 1959 e il 1963, la totalità delle collezioni di alta moda. All’era Crahay, passato a Lanvin, succedette quella di Gérard Pipart, il quale proseguì la politica della casa, evitando ogni eccesso e stravaganza secondo la linea di tendenza che l’aveva caratterizzata fin dagli esordi: «servire le donne e non servirsi di loro» (Pochna, 1992, p. 107).
All’epoca, in realtà, le collezioni Nina Ricci presentate alle sfilate servivano da supporto alla vendita dei profumi. Parallelamente alla gestione della casa di moda, infatti, Robert e Nina Ricci − cogliendo l’enorme potenziale commerciale rappresentato dai primi profumi firmati prima della guerra da note maisons, come Chanel, Guerlain, Lanvin − avevano fondato nel 1946 un’industria di produzione di profumi, la Nina Ricci Parfums (Archives de Paris, Tribunal de commerce, 1946). Lo stesso anno della fondazione fu messo in commercio Cœur joie, creato appena qualche mese prima e apprezzato negli ambienti degli alleati, ma il successo arrivò con L’air du temps, creato nel 1948.
Il flacone, a forma di sole ovale con il tappo sormontato da una colomba − simbolo ancora oggi della marca − venne prodotto in esclusiva da Marc Lalique, figlio d’arte (il padre era il vetraio alsaziano René), amico personale di Robert Ricci e creatore anche dopo di gran parte dei flaconi dei profumi della casa.
In quegli anni la haute couture − della cui Camera Robert Ricci fu vicepresidente dal 1950 al 1962 e poi presidente tra il 1962 e il 1963 − era entrata in simbiosi con i nuovi mezzi di comunicazione di massa e con le forme di creazione artistica compatibili con le esigenze di diffusione di prodotti di lusso fra un pubblico più vasto di quello della confezione su misura. Per lanciare L’air du temps negli Stati Uniti venne scritturato Andy Wahrol. Infatti, per gusto personale, relazioni sociali e ambiente culturale, Robert Ricci eccelleva nella commercializzazione dei prodotti dell’impresa familiare e la madre lo assecondò in questo percorso, contribuendo finanziariamente all’espansione del gruppo (Archives de Paris, Tribunal de Commerce, 1946), nonostante conducesse ormai vita appartata, tra l’appartamento parigino e la sua bella villa nella baia di Morlaix, in Bretagna.
All’apice del successo, morì il 30 novembre 1970.
Fu sepolta nel cimitero di Courances nell’Essonne, poco lontano dallo stabilimento della ditta, dove Robert la raggiunse nel 1988.
Fonti e Bibl.: Archives de Paris, Tribunal de commerce, 1925, 220347 B , série D33U3 1096; 1933, D33U3 1211; 1934, D33U3 1225; 1946, D33U3 1688; Torino, Archivio anagrafico comunale, Atti di nascita, uff. 2, p.te I, 1883, n. 178; Ufficio certificati storici, ad nomen. G. Antoine-Dariaux, Les voies de l’élégance, Paris 1965; V. Steele, Paris fashion. A cultural history, New York-Oxford 1988, ad ind.; M.-F. Pochna, Nina Ricci, Paris 1992; D. Grumbach, Histoire de la mode. La Haute couture, Paris 1993, pp. 24-31, 113; V. Steele, Se vêtir au XXe siècle, Paris 1998, ad ind.; F.-M. Grau, La Haute couture, Paris 2000, ad ind.; C. Barrère - W. Santagata, La mode. Une économie de la créativité et du patrimoine, à l’heure du marché, Paris 2005, ad ind.; F. Denoyelle, Studio Harcourt, 1934-2009, Paris 2009. Si ringraziano per la loro testimonianza Marie Françoise Ricci Fuchs, figlia di Robert Ricci, e Janine de Bransbourg, figlia di Adalgisa (Gisa) Nielli.