CICERONE, Marco Tullio (Marcus Tullius Cicero)
Nacque ad Arpino il 13 gennaio del 106 a. C. da una famiglia di possidenti. A Roma, dove il padre volle fosse educato, gli furono maestri di oratoria M. Antonio e L. Crasso, di diritto i due Scevola, l'augure e il pontefice, di filosofia l'accademico Filone. Verso i 20 anni C. scrisse i due Libri rhetorici, più noti sotto il titolo De inventione, in cui fa pr0fessione di eclettismo retorico e politico (I, 5; II, 1), e che appunto per questo costituiscono un documento importante delle sue attitudini spirituali. Ma la sua prima manifestazione schiettamente politica è dell'80, quando egli difese con esito felice Sesto Roscio Amerino, vittima di un intrigo, che faceva capo a Crisogono liberto di Silla, e che voleva farlo apparire colpevole della morte del padre, per spogliarlo così dell'eredità. Il processo assumeva importanza politica e l'intrigo non era che un sintomo di una crisi politica e morale ben più vasta e dolorosa. Non per nulla C. fu il solo ad accettarne la difesa, e si mormorò allora e dopo che il viaggio fatto in Grecia e in Asia fra il 79 e il 77 e attribuito da C. al desiderio di liberare la sua oratoria da certe giovanili sovrabbondanze, fosse dovuto alla paura della vendetta di Silla. Al ritorno egli riprese in Roma con grande ardore la sua attività di patrono, e ne ebbe nel 75, appena raggiunta l'età legale, primo premio di un'opera che il popolo sapeva onesta e coraggiosa, la questura e il governo della Sicilia occidentale.
L'amministrazione della provincia lo pose di fronte a problemi che egli cercò di risolvere con giovanile entusiasmo, e da quella sua prima esperienza di governo, unita al desiderio di far cosa gradita ai Siciliani diventando da patrono di singoli patrono di una provincia, e di prender posizione in un argomento per lui soprattutto vitale qual era quello della tentata moralizzazione del tribunale, con l'estensione del diritto di giudicare a cavalieri e tribuni erarî, nacquero nel 70 le orazioni contro Verre. Questi aveva governato dal 73 al 70 la Sicilia, come propretore, e appena uscito di carica fu accusato dai suoi amministrati di concussioni, rapine, violenze ed eccessi di potere. L'oligarchia senatoria cercò in tutti i modi di salvarlo, e uno dei suoi più autorevoli rappresentanti, Ortensio, ne assunse la difesa contro C. Ma questi che aveva già sventato il tentativo di sostituirgli un accusatore più addomesticato sventò anche il tentativo di rinviare il secondo dibattimento del processo all'anno seguente, quando sarebbe stato console Ortensio e la presidenza del tribunale sarebbe spettata al pretore M. Metello, altro protettore di Verre. C. infatti per guadagnare tempo rinunziò a una elaborata requisitoria, e si limitò a esporre i risultati della sua inchiesta, portando prove così evidenti, che Verre andò volontariamente in esilio, senza aspettare il secondo dibattimento.
Ma C. non rinunciò alla sua seconda requisitoria, e con l'introduzione - la cosiddetta actio I in Verrem - alle accuse e prove esposte nel primo dibattimento, pubblicò queste ultime ordinate ed elaborate in cinque orazioni fittizie, nei libri dell'actio II in Verrem. Essi costituiscono una fonte storica di prim'ordine, specialmente per l'amministrazione della Sicilia e delle provincie in genere. Il libro IV de signis è importantissimo anche per la storia dell'arte.
S'è già accennato all'ambiente politico in cui si svolse il processo contro Verre. Pompeo, console del 70, era sulla via di restaurare l'autorità tribunizia, e di togliere ai senatori il privilegio dei tribunali. C. si preoccupa soprattutto di questa seconda riforma, e, prima e dopo di essa, insiste nelle Verrine sulla grande importanza che aveva a questo riguardo il processo, come prova se convenisse o no lasciare ai senatori quel privilegio. Cosicché l'azione politica di C., limitata in questo primo decennio alla sua attività di patrono, vuole opporsi alle prepotenze dell'oligarchia, pur mantenendo fra le opposte fazioni l'equilibrio consigliatogli dal suo senso della realtà, e dalla sua speciale situazione.
Tale linea egli mantenne sempre negli anni seguenti, e quando, dopo aver raggiunto nel 69 l'edilità curule, nel 66 fu pretore con la giurisdizione sui processi de repetundis, egli sostenne la rogazione con cui C. Manilio affidava a Pompeo, che aveva già avuto poteri straordinarî per la lotta contro i pirati, il comando della guerra contro Mitridate e Tigrane, non soltanto per istintiva simpatia verso il grande generale, ma anche per la coscienza che il problema del comando in questa guerra era da risolvere senza farisaismi costituzionali. È stato detto più volte che il discorso di C. è di una vuotezza che rasenta la banalità, privo com'è di profondo e meditato senso politico. Ed è giudizio ingiusto e superficiale. Non si comprende che in quel momento, e davanti a quel popolo, C. non poteva parlare altrimenti. Né si deve dimenticare che, pur essendo il discorso sostanzialmente una celebrazione sentimentale della gloria militare di Pompeo, C. vi rivela un senso sicuro della realtà economica e amministrativa dello stato romano.
Un mutamento, se non nei motivi, nelle manifestazioni della politica ciceroniana, lo portò il consolato, raggiunto nel 63. La lotta contro la legge agraria di Servilio Rullo, una delle tante leggi agrarie con cui si cercò di risolvere il problema economico e sociale della plebe romana, ma più delle altre inconsultamente e quasi ingenuamente rivoluzionaria; la difesa di C. Rabirio, in cui si vollero colpire, accusandolo dell'uccisione del tribuno L. Apuleio Saturnino, e sottoponendolo alla procedura straordinaria del delitto di perduellione, quanti avevano partecipato alla repressione sanguinosa della rivolta del 100, e nel tempo stesso mettere in discussione il diritto del senato a emanare il senatus consultum ultimum, sospendendo le garanzie costituzionali; la repressione della congiura di Catilina sono azioni che procurarono al console, tra i contemporanei e tra gli storici moderni, l'accusa di reazione.
In realtà noi non sapremmo negare alle manifestazioni politiche di C., dalla difesa di Sesto Roscio Amerino alle Catilinarie, una netta se non profonda coerenza. Può darsi che quella sua posizione di centro non fosse frutto di un maturo pensiero politico, ma piuttosto la posizione istintiva di un uomo di buon senso, che a una naturale onestà univa vivissima la comprensione delle immediate realtà, compresa la sua particolare di avvocato e homo novus. Ma coerente fu e conscio della sua coerenza: basta leggere l'epistola che il fratello Quinto gli scrisse nel 63, col titolo De petitione, dove sotto forma di consigli da parte di Quinto, è quasi certamente esposto il programma elettorale, tattico e strategico di Marco.
Ma per venire a quello che nella politica di C. costituisce il punto culminante, la repressione della congiura di Catilina, qualunque possa essere stato il suo significato come sintomo di una più vasta crisi, fu una necessità. Movimento di aristocratici dissestati, nonostante le interferenze con problemi più complessi e dolorosi che non fossero i loro debiti e le loro passioni, esso non aveva nessun valore positivo. E C. portò nella lotta contro i congiurati tutto il suo entusiasmo. Egli era stato eletto console, anche con i voti degli oligarchici, appunto per sventare il tentativo di Catilina d'impadronirsi del potere per le vie legali. Ora che il suo antagonista, sconfitto per la seconda volta, ricorre alla congiura, C. che s'era assicurato del malfido collega C. Antonio, cedendogli senz'altro il govermo della Macedonia, moltiplica la sua attività e sorveglianza. In un ambiente in parte scettico, in parte favorevole ai congiurati, egli si serve di tutte le armi che ha a sua disposizione, specie di quella della sua eloquenza, per rendere evidente a tutti il pericolo, scotendo i dubbiosi e impaurendo i colpevoli. Persino Sallustio, che pur cerca di sminuire abilmente i meriti di C., mostra sostanzialmente come persino quel qualche cosa che nelle Catilinarie fa pensare a una bella, logica e dritta azione drammatica, ricostruita post eventum, corrisponde alla realtà. E il merito di avere riaperto, nella seduta del 5 dicembre, la discussione sulla pena da infliggere ai congiurati, offrendo a Catone la possibilità di controbilanciare nell'animo dei senatori l'impressione del discorso di Cesare, ch'era riuscito a far approvare la sua proposta di condannare i congiurati al carcere a vita, questo merito, taciuto da Sallustio, sorvolato da Bruto e oscurato da Plutarco, è oggi autorevolmente riconosciuto.
Ma la seduta della notte di dicembre e il trionfo che seguì l'esecuzione dei Catilinarî, furono il culmine, pericoloso culmine, della sua vita politica. Nell'anno seguente egli apparve a torto o a ragione come l'eminenza grigia della giustizia oligarchica nei processi, che seguirono, contro i congiurati minori. Gli mancò soprattutto la possibilità di non tornare avvocato, o per lo meno il buon gusto di esercitare la sua funzione con più austera e raccolta compostezza: esempio caratteristico la difesa di P. Cornelio Silla, accusato, non a torto, di aver partecipato alla congiura di Catilina, e all'altro tentativo della fine del 66, che era stato un prodromo della più grande e famosa congiura del 63.
A C. non valse l'accostarsi sempre più a Pompeo, non valse il tentativo di far approvare nel 60 la legge agraria da questo proposta per mezzo del tribuno Flavio, apportandovi modificazioni che fanno onore al suo senso politico, e che saranno accettate da Cesare nella legge dell'anno seguente (Ad fam., XIII, 4, 2), non valse la celebrazione ch'egli fece in prosa e in versi della sua opera di console. Egli era, come Catone, un ostacolo all'azione dei triumviri, e Cesare volle sbarazzarsene prima della sua partenza per la Gallia. Clodio, che aveva contro C. un rancore personale, passato alla plebe, per l'opera concorde di Cesare e Pompeo, ed eletto tribuno, promulgò nel 58 una rogazione, con cui si stabiliva che chiunque avesse fatto giustiziare un cittadino romano senza regolare processo, fosse condannato all'esilio. Il senato cercò di salvare C.: ma dei due consoli, Gabinio era legato ai triumviri e Pisone non aveva nessun interesse a contrastarli. C. che non aveva badato a umiliazioni pur di sfuggire al pericolo, decise di partire, e Clodio promulgò una seconda rogazione in cui l'oratore era nominativamente bandito a una distanza di 400 miglia da Roma.
Oggi sembra fuori discussione, nonostante l'appassionata riprovazione del Mommsen, la legalità della condanna dei Catilinarî e forse di tale legalità non dubitarono Cesare, ch'era contrario alla retroattività della legge di Clodio (Dione, XXXVIII, 17,1-2), né Clodio stesso, che nella seconda rogazione affermava falsificato il senatus consultum, con cui erano stati concessi ai consoli i pieni poteri (De domo, 50). Certo la condanna di C. fu illegale, almeno nella procedura, e la violazione della legge tanto più grave, in quanto, secondo la lex Sempronia, la pena dell'esilio era la più grave che potesse essere inflitta normalmente a un cittadino romano.
C. non seppe conservare in quel frangente, a Roma e in Grecia, la necessaria dignità. Ma bisogna riconoscere che in una crisi politica così profonda, e pur svolgentesi con certo farisaico rispetto delle forme legali, la condanna poteva ben apparirgli irrimediabile. E. nel fatto, quando per il ravvicinamento al senato di Pompeo, turbato dai continui attacchi di Clodio, cominciarono le discussioni sul richiamo di C., la vita della capitale fu in preda all'anarchia.
Nell'agosto del 57, con un decreto dei comizî centuriati, l'esule fu richiamato. Ma subito dopo il trionfale ritorno di C. ricominciarono i disordini, ed egli fu costretto dal vociare e dalle minacce della plebe a proporre che a Pompeo venisse affidata per cinque anni la cura annonae. Ormai la violenza era diventata a Roma un male endemico, e le bande di Milone si contrapponevano a quelle di Clodio. Pompeo spiaceva a democratici e oligarchici, diventando il bersaglio preferito delle due fazioni, salvo qualche rara e interessata tregua da parte democratica (De har. resp., 51-52). A C., gli oligarchici, pur avendo liberato il terreno su cui sorgeva la casa dell'oratore dal vincolo religioso che Clodio aveva tentato d'imporgli consacrandovi un tempio alla Libertà, lesinavano il pagamento dei danni. Il turbolento tribuno non lasciava passar occasione per attaccar C., e come gli oligarchici alla strage fatta tra i cento ambasciatori di Berenice avevano contrapposto un oracolo sibillino che toglieva a Pompeo la possibilità di riporre Tolomeo sul trono d'Egitto, Clodio dedusse da un altro comodo responso, che gli Dei erano irritati per la sconsacrazione fatta da C. di un luogo sacro.
Ci fu un momento in cui parve che fosse imminente una restaurazione in senso oligarchico. C. pensava che non fosse buon consiglio quello del senato, d'irritare Pompeo spingendolo fatalmente a riconciliarsi con Cesare. Il suo programma era più saggio e lungimirante. Nella De haruspicum responso e specialmente nella Sestiana, pur essa del 56, egli esortò gli optimates alla concordia, gettando le basi teoriche di quel partito del centro, la cui idea gli era forse balenata nel decennio precedente, e che ora gli sembrava costituire l'unica concreta possibilità di salvezza. Non gli credettero, e il congresso di Lucca venne a ribadire la concordia e il dominio dei triumviri. Così a C. non restò che cantare nel discorso De provinciis consularibus la sua palinodia (Ad Att., IV, 5,1), sostenendo che ai consoli del 55 dovessero essere date le due provincie governate da Pisone e Gabinio, la Macedonia e la Siria, non la Gallia che aveva ancor bisogno delle cure di Cesare.
E cominciò in tal modo il periodo politicamente più triste della vita di C., anche se alle sue malcontenute nostalgie, al suo prepotente bisogno di servire in qualche modo la patria, dobbiamo due tra le più belle opere ciceroniane: il De oratore (55) e il De re publica (54-1). Era lo stesso bisogno che gli aveva fatto scrivere nel 60, fra il consolato e l'esilio, la lettera al fratello Quinto sul governo della provincia.
Frattanto i triumviri gli infliggevano umiliazioni su umiliazioni, imponendogli di difendere persino i suoi più atroci nemici. Aveva dovuto mandare quasi in ostaggio il fratello Quinto al campo di Cesare, come legato, e, tutto compreso, egli dubitava che l'unico a volergli bene fosse Cesare, il grande fascinatore di tutti. Ma il restauratore dell'equilibrio tradizionale tra il potere monarchico, oligarchico e democratico, ch'era sembrato a Polibio, e sembrava a C. la grande scoperta di Roma, non poteva essere che Pompeo, un Pompeo in cui c'erano forse nell'idealizzazione del De re publica parecchi tratti di Cesare, ma che soprattutto aveva le qualità per essere erede cauto e fedele di quella grande tradizione.
Così, quando dopo l'uccisione di Clodio (18 gennaio del 52) Pompeo fu eletto dall'interré consul sine collega per il 52, C. diede la redazione definitiva ai libri lungamente meditati sul governo dello stato, e nel 51 li pubblicò.
Non è qui il caso di fermarsi sulla complessa opera di restaurazione conservatrice tentata da Pompeo. Ci limiteremo a dire che egli volle ridare serietà ai processi, ponendo tra l'altro dei limiti a quell'esibizionismo oratorio di patroni e di testimoni, che aveva troppe volte abbassato i dibattimenti giudiziarî a una triste commedia. Anche il processo di Milone fu tenuto secondo le nuove forme procedurali, e C., che ne aveva assunto la difesa, turbato dallo spiegamento di forze fatto dal console, non potè pronunciare il discorso preparato. La famosa Miloniana è un'opera fittizia, pubblicata posteriormente, di cui Milone disse nell'esilio di Marsiglia, che se C. avesse parlato veramente così, egli non sarebbe stato condannato. E in realtà, la Miloniana è come il canto del cigno, non soltanto di C. avvocato, ma anche della grande oratoria giudiziaria romana, che i nuovi ordinamenti di Pompeo, ereditati e conservati da Cesare e dall'impero, avevano distrutto per sempre.
Nel 51 C., in seguito a un altro saggio provvedimento di Pompeo, fu costretto ad assumere, come proconsole, il governo della Cilicia, dove per una piccola vittoria sull'Isso fu proclamato imperatore, e gli venne anche l'ambizione del trionfo. A Roma s'addensavano le nubi della guerra civile, e quando, alla fine del 50, ritornò in Italia come l'unico possibile mediatore tra Cesare e Pompeo, C. cercò invano di scongiurarla. Comprese che la lotta non aveva, almeno nella coscienza dei contendenti, nessun chiaro contenuto ideale, e che la prima conseguenza del conflitto, quali che potessero esserne i motivi profondi e le possibili ripercussioni (Ad Att., XI, 213), sarebbe stata la monarchia di Cesare o Pompeo. Ma egli si trovava nell'impossibilità sentimentale di abbandonare Pompeo, e nonostante le tergiversazioni, le viltà, le riserve mentali, di cui ci sono minuto e indiscreto testimonio i libri VII-X delle lettere ad Attico, quando s'accorse di essere in un ambiente ostile (Ad Att., IX, 6, 3-4 e 7), ed ebbe netta la sensazione della lontananza spirituale che lo separava dai fautori di Cesare (Ad Att., IX, 19, 1), partì per raggiungere il campo di Pompeo. Tra i pompeiani, non si trovò meglio di quello che si fosse trovato tra i cesariani, e, alla vigilia di Farsalo, era deciso a regolare la sua condotta sul risultato della battaglia (Ad fam., XV, 5, 1). Difatti, dopo la sconfitta, nonostante l'offerta fattagli, come al consolare più anziano, del comando supremo, e le minacce, conseguenti al rifiuto, dei più accesi pompeiani, salpò da Corcira per Brindisi. Ma qui, mentre aveva sperato di poter tranquillamente e rapidamente ritornare a Roma, dovette aspettare dall'ottobre del 48 all'agosto del 47 il ritorno di Cesare, e nel frattempo sentirsi sospetto ai vincitori e ai vinti, e vedersi tradito persino dai famigliari. Le stesse speranze di riscossa dei repubblicani, che andavano concentrandosi in Africa, erano per lui motivo di turbamento e di timore (Ad Att., XI, 7, 3).
Il ritorno di Cesare, che si mostrò cordialissimo, gli permise finalmente di tornare a Roma. In un primo tempo s'illuse, non soltanto che Cesare avrebbe restaurato la repubblica, ma anche che egli avrebbe potuto essere chiamato a collaborare all'opera sua (Ad fam., IX, 2, 4, 5). Gli parve che gli ostacoli venissero, più che dalla mentalità di Cesare, da coloro che lo circondavano, e dopo aver riconosciuto nel Brutus il valore umano e intellettuale di Cesare, quando il dittatore, nell'autunno del 46, cedette all'insistenza del senato richiamando dall'esilio M. Claudio Marcello, uno dei suoi più tenaci e austeri avversarî, C. diede libero corso alla sua gioia e in un'orazione famosa, la Pro Marcello, delineò a Cesare un vasto programma di restaurazione politica, sociale e morale.
Frattanto C. aveva composto l'elogio di Catone, il glorioso suicida di Utica; ma quantunque l'avesse scritto, per quel che possiamo indovinare, con criterî più morali che politici, esitava a pubblicarlo. Solo dopo la partenza di Cesare per la Spagna, dove lo aspettava la più aspra, forse, delle sue battaglie, Munda, si decise a pubblicarlo. Non per la lontananza di Cesare, o non unicamente per essa. L'evoluzione politica e morale dello stato romano lo turbava ormai profondamente. Cesare gl'impose una riparazione, che avrebbe dovuto consistere in una lettera di carattere politico a lui indirizzata. Ma gli amici di Cesare, a cui la lettera fu comunicata prima d'essere trasmessa al destinatario, trovarono che non conteneva proprio tutti i consigli e le idee che avrebbero potuto essere accetti al dittatore. C. s'impuntò, e solo dopo ripetute, non equivoche insistenze, obbedì parzialmente, scrivendo a Cesare una lettera in cui elogiava la sua risposta alla laudatio di Catone, gli Anticatones.
Egli non aveva più nulla da temere. Negli ultimi mesi del 47 aveva divorziato, non senza dolore, dalla moglie Terenzia, per un dissidio provocato, a quel che pare, dal fatto ch'essa, durante l'assenza di C. dall'Italia, aveva dato prova di badare eccessivamente ai proprî interessi. Nel febbraio del 45 gli era morta la figlia Tullia, alla quale lo legava un affetto così vivo che le male lingue avevano diffuso su questo argomento stupide e volgari calunnie. Alla morte di Tullia, seguì il divorzio dalla seconda moglie, la giovane e ricca Publilia. Col fratello e col nipote i rapporti non erano troppo buoni. Di caro al mondo non aveva ormai che un giovane figlio, non del tutto, ancora, degno del padre, e Attico.
Ma quel che storicamente più ci interessa in lui, durante questo periodo di circa un anno, che va dalla morte di Tullia agl'idi di marzo, non sono i suoi dolori, non è la critica acerba, sino ad augurare il tirannicidio, della rapida evoluzione che stava trasformando Cesare nel divus Iulius, la repubblica in una monarchia di tipo ellenistico, Roma nella capitale soltanto storica di un impero, in cui tutti sarebbero stati a egual diritto cittadini romani, e il cui centro avrebbe dovuto trasportarsi fatalmente verso oriente. Ciò che ha maggior interesse per noi è invece la produzione filosofica di C., frutto appunto di questo periodo, di questi dolori. Ed essa non contraddice al Brutus e alla Pro Marcello; C. pone e risolve problemi, che non sono i problemi di Cesare, o della repubblica, ma dell'impero. Egli volle dare al cittadino dello stato nuovo una più viva coscienza morale, mostrandogli quale poteva essere, in quel perturbamento della vita romana, un sicuro punto di riferimento.
Gl'idi di marzo distolsero, almeno momentaneamente, C. dalla sua attività filosofica. Appena ucciso Cesare, Bruto aveva alzato il pugnale insanguinato, gridando il nome di Cicerone e congratulandosi con lui della riconquistata libertà. Egli fu quindi ripreso dalla vita politica, e in senato, nella seduta del 17 marzo, sostenne la proposta di Antonio per un accordo tra cesariani e congiurati, basato sull'amnistia per questi, e sul riconoscimento degli atti di Cesare per quelli. Ma i disordini provocati dai funerali di Cesare e dal famoso discorso di Antonio, costrinsero C. e i congiurati ad abbandonare Roma. In una lettera ad Attico (Ad Att., XIV,1, 1), scritta il 7 aprile dal podere suburbano di Mazio, un fedele amico di Cesare, C. dubita già che altri possa risolvere la complicata situazione politica, che Cesare non era riuscito a risolvere. Il ricordo degl'idi di marzo continua a consolarlo ancora per qualche tempo, ma alla fine di maggio confessa che la morte di Cesare aveva forse portato più male che bene (Ad Att., XV, 4, 3). In luglio, quando ormai fu evidente che si sarebbe venuti a una guerra, approfittò della nomina a legato ottenuta da Dolabella, per allontanarsi da Roma. Sulle coste calabresi lo raggiunse la notizia di un miglioramento nella situazione, ed egli decise di ritornare a Roma. Anche questa illusione ben presto svanì. C. pronunciò in senato la prima filippica, giustificando la sua partenza, spiegando il suo ritorno, attaccando Antonio, e diffuse la seconda, la cosiddetta regina delle filippiche, in cui si difende contro le accuse di Antonio su tutta la sua attività politica, e ne mette a nudo le responsabilità e le magagne. Ma qualsiasi efficace partecipazione alla vita pubblica era esclusa, fino a quando non fossero entrati in carica i nuovi consoli. Nell'attesa C. passava dall'una all'altra delle sue ville campane, per evitare che gli fosse tagliata la strada verso il mare, e componeva il De officiis, la più viva delle sue opere filosofiche.
Il 20 dicembre i tribuni della plebe, gli unici magistrati rimasti in Roma che ne avessero il potere, convocarono il senato. Da questo momento comincia il periodo eroico della vita di C. Egli, che per quanto avesse un senso prontissimo e vivissimo della mutevole realtà politica, anzi forse appunto per questo, non era mai riuscito a stringere intorno a sé un fascio di uomini e di idee, ora diventa l'animatore della lotta contro Antonio (vedi Ad Fam., X-XII). L'esperienza, i dolori, le meditazioni filosofiche l'hanno come trasformato. I contemporanei lo accusarono di aver posto le basi della potenza di Ottaviano, e non si può certamente negare ch'egli troppo s'illuse su Ottaviano, e, spingendo la lotta contro Antonio alle estreme conseguenze, contribuì alla formazione del secondo triumvirato. Ma l'accordo fra Antonio, Lepido e Ottaviano era forse fatale, e se Ottaviano lo deluse, non lo avrebbe deluso Augusto, con la sua politica così rispettosa delle tradizioni romane. Se il 7 dicembre del 43 fu raggiunto nella sua villa di Formia dai sicarî di Antonio, e pagò con la vita il suo odio e la sua passione, idealmente il vincitore di Azio fu lui.
Le opere.
Le lettere. - C. ci ha lasciato un epistolario abbondantissimo: 16 libri di lettere ad Attico, 16 di lettere Ad Familiares, i della corrispondenza con Bruto e 3 di lettere al fratello Quinto, in tutto, di sue, 774 lettere. L'epistolario ciceroniano non solo rappresenta il documento più prezioso e più sicuro della storia di Roma dal 61 al 44, ma anche, in senso assoluto, il documento più vivo e immediato che ci sia rimasto di antichi avvenimenti.
L'epistolario ad Attico, salvo un manipolo di 11 lettere che appartengono agli anni precedenti, comincia col 61, e seguita, salvo alcune interruzioni, dovute al fatto che C. era vicino ad Attico, e quindi non aveva bisogno di scrivergli, sino al 44. Le lettere del libro II, a cominciare dalla 3ª, sono del 59, l'anno del consolato di Cesare e del primo triumvirato, e ritraggono con meravigliosa vivezza lo stato d'animo dell'opposizione. I libri VII-X - circa 60 lettere - vanno dall'ottobre del 50 al maggio del 49, testimoniandoci giorno per giorno, ora per ora, la crisi spirituale di C. dinanzi alla possibilità, prima, e poi alla certezza della guerra civile. Gli anni della monarchia ritornano come furono visti e sofferti da C. nei libri XI-XIII, e i mesi delle prime illusioni sulle conseguenze della morte di Cesare, dei primi sintomi della guerra civile, dell'attesa che le calende di gennaio del 43 permettessero finalmente di agire entro i limiti della legalità contro Antonio, nei libri XIV-XVI.
Ma se l'importanza storica delle lettere ad Attico è grandissima, non meno grande è la loro importanza come documento psicologico e documento d'arte. In esse l'anima di C., le sue qualità, i suoi difetti, sono veramente messi a nudo. Egli si rivela scrittore rapidissimo e schietto, e in ogni pagina domina il suo spirito di osservatore acutissimo, la capacità di tutto comprendere, di tutto prevedere, nonostante le limitate attitudini a divenire costruttore di opere e dominatore di uomini.
L'epistolario ad Attico proviene dall'archivio del destinatario, che raccolse e conservò le preziose lettere. Furono pubblicate dopo la morte di Attico (Cornelio Nepote, Att., 25, 16). L'ordine cronologico è conservato, salvo nei libri XII-XIII. Però le singole datazioni sono dovute per la massima parte agli editori moderni, pure essendo ommai, nella massima parte, fuori discussione.
Dei tre libri di lettere al fratello Quinto, proquestore d'Asia, il primo è interessantissimo per i consigli che C. gli dà, specialmente nella prima lettera, che è un vero e proprio trattatello sul modo di amministrare la provincia. Le lettere degli altri due libri, scritte al fratello mentr'era legato di Cesare in Gallia, e in gran parte del 54, riempiono utilmente la lacuna lasciata per questo travagliato periodo dalle lettere ad Attico. L'importanza dell'epistolario Ad Familiares varia a seconda dei libri. Il libro V contiene documenti storici di prim'ordine. La lettera 9ª del libro I è una lunga giustificazione dell'attività politica di C., dopo il ritorno dall'esilio. I libri X-XII ci mostrano la sua opera indefessa di animatore e vero capo dello stato durante la lotta contro Antonio. In altri libri risalta la sua opera di intermediario tra Cesare e gli esuli repubblicani (IV e VI), si manifestano le illusioni dei primi tempi, e poi le decise insofferenze del regime (VII e IX). Le lettere del libro XIV sono dirette a Terenzia, quelle del libro XVI a Tirone. Il libro XIII è una raccolta di lettere di raccomandazione, pubblicate da Tirone, raccolta che fu forse la prima di tutto l'epistolario ciceroniano. Il libro VIII è importante perché ci ha conservato le lettere, con cui Celio informava C., durante il suo proconsolato in Cilicia, degli avvenimenti politici e mondani di Roma, facendoci conoscere direttamente una delle figure più interessanti di questo periodo. Ed altre lettere di Catone (XV, 5), di Asinio Pollione, di Cassio e di altri, sono disperse nei vari libri, importantissime non soltanto per la storia politica, ma anche per la storia letteraria, come unici documenti rimastici dell'anima, dello stile e della lingua di figure eminenti. Preziosa anche per questo è la corrispondenza fra C. e Bruto nel 43. Il dissidio politico e spirituale fra i due ci è rivelato pienamente in una lettera di Bruto ad Attico (Ad Brut., I, 17), una delle pagine più sentite della prosa latina.
Le orazioni. - I discorsi rimastici di C. sono 58, di cui alcuni frammentarî. Di altri 48 ci è rimasta notizia, e per 17 anche qualche frammento. Naturalmente, a non parlare delle orazioni fittizie, diffuse come pamphlets, dovevano correre delle differenze anche fra i discorsi, come furono realmente tenuti, e la forma che essi assunsero nella successiva pubblicazione. Di talune piccole modificazioni parla C. stesso (Ad Att., I, 13, 5), altre le possiamo indovinare. È chiaro che C. ha fuso in un discorso organico discorsi pronunciati in varî momenti del dibattimento (In Catil., IV; Pro Caelio), e che, specialmente nelle orazioni giudiziarie, ha abbreviato e semplificato. Meno importanti sembrano generalmente le modificazioni dei discorsi politici, e le correzioni di carattere politico in altre orazioni.
Delle più importanti orazioni politiche o giudiziarie, a fondo essenzialmente politico, s'è già parlato nella biografia. Qui è da aggiungere che esse contengono un gran numero di pagine veramente belle, e che talvolta hanno il sapore delle cose vive. Giudicare dell'eloquenza solo alla grande luce della storia, o peggio alla comoda fiammella del senno di poi, non è né saggio né umano. Del resto, se le lettere ad Attico svelano i sottintesi, i retroscena, le riserve mentali di C., la sua eloquenza commenta con altro tono gli avvenimenti, celebra gl'ideali e le passioni, che pur avevano una lor feconda realtà. Una storia del periodo in cui visse C., deve così tener conto, oltre che dell'epistolario, e della narrazione frettolosa e scolorita di Appiano e Dione Cassio, anche della verità ideale e sentimentale presupposta dai discorsi ciceroniani.
Certo, vi sono in questi discorsi sviluppi eccessivi e sovrabbondanze verbali. Ma la terza orazione contro la legge agraria, la I e la II catilinaria, l'oratio pro domo sua ad pontifices, la seconda filippica e la Pro Marcello, sono ricche, nutrite di fatti e di idee, e, specie le due ultime, costruite con sobrietà e solidità mirabili.
Delle orazioni che, pur avendo addentellati politici, furono essenzialmente arringhe giudiziarie e hanno soprattutto valore umano e letterario, ricorderemo la Pro Cluentio (66), interessante in alcuni tratti come un romanzo, e che rivela anche politicamente una conscia maturità di pensiero; la Pro Archia (62), in cui C. approfitta di una modesta causa intorno a un contestato diritto di cittadinanza romana, per mettere in rilievo gli elementi umanistici della sua cultura e di quella romana in genere, facendo di un poeta di terz'ordine come Archia il simbolo della trionfante cultura greca: la Pro Murena, che è un capolavoro di arguzia, se non di profondità spirituale, in cui difendendo il console per il 62 dall'accusa di corruzione elettorale, C. console prende garbatamente in giro la stoica austerità dell'accusatore Catone, e la vana pretesa dello sfortunato competitore di Murena, M. Sulpicio Rufo, di goder più popolarità di un militare; la Pro Caelio (56), una vivacissima e brillante difesa del giovane avvocato e uomo politico, che dopo essere stato l'amante di Clodia, la Lesbia di Catullo, aveva rotto la relazione con lei, e s'era visto tra l'altro accusato di tentato veneficio: difesa che C. ha trasformato in una requisitoria contro i costumi di Clodia; la Pro Milone, l'orazione che C. pubblicò dopo che l'eccessivo spiegamento di forze, fatto da Pompeo al processo, l'aveva turbato, impedendogli di pronunciare il discorso come l'aveva preparato, e che è una delle più famose per il drammatico fatto su cui verte, e per la commovente perorazione.
Delle orazioni, verso il 50 d. C., fu composto dall'erudito Q. Asconio Pediano un commento con preziose notizie storiche e giuridiche. A noi è rimasta soltanto la parte riguardante 5 orazioni Contra L. Pisonem, Pro Scauro, Pro Milone, Pro Cornelio, In toga candida, due delle quali sono frammentarie.
Le opere retoriche. - C., verso i 20 anni, aveva scritto due libri rhetorici, sul problema dell'invenzione, di cui ci interessano soprattutto i due proemî, per il loro eclettismo politico e letterario. Nel 55, giunto al culmine dell'esperienza di oratore, e costretto dagli avvenimenti a porre un limite alla sua attività politica e forense, compose i tre libri De oratore, in cui s'immagina che nella villa di Crasso, durante i ludi romani del 91, i due grandi oratori della sua giovinezza, L. Licinio Crasso e M. Antonio, alla presenza e con la collaborazione di altri contemporanei, discutano di eloquenza e di oratori. Crasso sostiene nel dialogo del primo giorno che vero oratore è solo colui che sa dire con arte di ogni argomento, in modo che il suo discorso appare, più che una dottrina dell'eloquenza, una teoria della prosa d'arte, considerata come strumento della cultura umanistica. Ma a questa alta e complessa concezione dell'oratore Antonio contrappone la sua incredulità di uomo pratico, il quale pensava che, per vincere una causa, occorresse molto meno di quel che Crasso richiedeva a un oratore.
Nel giorno seguente, i precetti tecnici sull'inventio, dispositio, elocutio, memoria, pronuntiatio, secondarî e difettosi, dinanzi al postulato di una cultura universale, sono esposti nel dialogo antimeridiano da Antonio, e in quello pomeridiano da Crasso. Ma egli sente il bisogno di riaffermare l'esigenza di una cultura unitaria in cui, ristabilito l'originario connubio della filosofia e della retorica, l'arte del dire non sia più separata da quella del pensare.
Il primo libro del De oratore, per la concretezza di senso storico nel delineare i diversi personaggi e i loro rapporti, per il vario, vivo e profondo movimento delle idee, e per l'equilibrio della sua prosa, è fra le opere più perfette di C.; monotono e poco originale il secondo libro; il terzo è migliore, pur rimanendo inferiore al primo.
C. ritornò nel 46, col Brutus, all'argomento del De oratore. Egli vi fa un'esposizione storica dell'eloquenza romana, mostrando agli atticisti, ammiratori, più che dell'eloquenza ateniese, di un tipo convenzionale di oratoria, ch'essi dicevano attica, ed era invece soltanto l'oratoria di Lisia, come l'eloquenza romana avesse raggiunto lentamente il suo culmine - Cicerone -, e come fosse antistorico voler considerare momenti superati come momenti definitivi, e forme particolari come forme ideali d'ogni possibile eloquenza.
Il Brutus è dunque, in sostanza, una conferma storica della necessità ideale affermata nel libro primo del De oratore: l'eloquenza perfetta ha bisogno di una ricca esperienza culturale. Ed è notevole come C., pur celebrando la modernità della sua cultura e della sua oratoria, riveli proprio nel Brutus la sua sensibilità per la nudità e schiettezza dell'arte arcaica (Brui., 70-1). Naturalmente la maggior parte degli oratori, per mancanza di documenti, sfilano nel Brutus in una monotona enumerazione. Il tono del libro si alza, quando C. s'incontra con le figure più note e più vive: Catone, Scipione, Celio, i Gracchi, Antonio, Crasso, Ortensio, o quando si ferma a discutere se, nel giudicare un oratore, si debba tener conto del giudizio del popolo, e conclude che chi non è capace di dominare gli uditori non è un grande oratore. Ma l'intermezzo più significativo e importante è il confronto fra Cesare, C. e Marcello, col solo criterio dei valori dello spirito e dell'arte (Brut., 248 segg.).
L'ultima opera retorica importante di C. è l'Orator ad M. Brutum, pure del 46. È ancora sulla linea di pensiero del De oratore e del Brutus, ma è il più superficiale e il meno originale dei trattati retorici. Grande oratore non è più colui che sa e sa dire con arte d'ogni argomento, ma colui che sa usare tutti i toni e tutti gli stili. La polemica del De oratore per l'unità della filosofia e della retorica, s'è impicciolita definitivamente a polemica antiatticista.
L'interesse maggiore dell'Orator consiste per noi nella teoria del ritmo. C., parlando, scrivendo o leggendo, aveva sempre seguito la norma del ritmo prosastico: una tradizione greca, rinvigorita in lui dalla coscienza delle possibilità ritmiche della prosa latina. La dottrina ciceroniana è molto semplice. Secondo C. il periodo, nella sua struttura tipica, è composto di quattro membra: la forma ritmica più breve è l'incisum. Ma un'orazione non deve essere fatta tutta di periodi, e deve scambiarli, dove sia necessaria una maggior rapidità e vivacità d'espressione, coi membra e con gl'incisa. Cosicché la ritmicità dell'orazione consiste in questo succedersi e scambiarsi delle varie forme espressive dagl'incisa più brevi e nervosi, ai periodi di struttura più complicata. E in questi il ritmo è dato, prima di tutto, dal gioco e dall'armonia delle parti. Però da soli e in tale complesso ritmico, i membra, come del resto anche gl'incisa, devono avere una loro scorrevolezza e sonorità, specialmente nelle ultime sillabe, la cosiddetta clausula, e di tutte le clausulae la più curata deve essere quella che chiude il periodo. È qui che la dottrina del ritmo si avvicina di più a quella della metrica. Ma C. raccomanda di evitare qualsiasi forma di verso, e di non dare al discorso il tono di una cantilena. Così la clausola ditrocaica è brillante e sonora, ma non è bene abusarne: l'ideale era per lui la sobrietà nell'uso del ritmo e la varietà nella scelta dei piedi, pur riconoscendo la necessità di certe preferenze - giambi, peani, dattili - secondo che si trattasse di stile semplice, medio o solenne.
Le opere filosofiche. - La produzione filosofica di C., iniziatasi nel 54 col De re publica, riprende decisamente dopo la morte di Tullia, riempiendo un breve periodo della sua vita, dal marzo del 45 alla fine del 44. Già questo fatto dimostra che le sue opere dell'ultimo periodo non potevano essere originali, nel senso assoluto della parola. Ma sbaglierebbe chi pensasse a una frettolosa improvvisazione, e chi, basandosi su una sua confessione (Ad Att., XII, 52, 3), giudicasse tutti questi trattati semplici traduzioni. La sua preparazione filosofica durava da anni, e faceva parte integrante della sua cultura.
C. aveva abbordato fin dal 60 un tema di filosofia politica, con la lettera al fratello Quinto sul governo della sua provincia. Il trattatello è poco noto, e scolasticamente, come avviene, poco fortunato. Ma è, per altezza di pensiero e vivezza di forma, una degna preparazione al De re publica. Ad ogni modo, nonostante questa lettera e gli spunti filosofici del De oratore, specialmente nel III libro, di una vera e propria attività filosofica di C. non si può parlare prima del 54, l'anno in cui egli cominciò a scrivere il De re publica.
Del trattato c'è giunta la parte del VI libro, nota sotto il nome di Somnium Scipionis, alcune citazioni o riassunti di Lattanzio e di Agostino, e i frammenti scoperti da Angelo Mai in un palinsesto della Vaticana: abbastanza per darci un'idea della struttura e del tono dell'opera. C. immagina che nel 129 si siano ritrovati nella villa di Scipione Emiliano, il padrone, C. Lelio, L. Furio Filo, Q. Muzio Scevola l'augure, e altri, e che abbiano preso a discorrere della miglior forma di governo. C'era stato un momento in cui egli aveva pensato di presentare la discussione come avvenuta fra lui e il fratello Quinto, per poter trattare senza pericolo di anacronismi gli argomenti che più gli stavano a cuore, ma poi era tornato al disegno primitivo d'immaginare un dialogo tra i personaggi del cosiddetto circolo degli Scipioni. Essi erano i suoi maestri ideali, e come i simboli del buon tempo antico, senza esser d'altra parte troppo lontani dalla sua età e dalle sue dolorose esperienze. Il concetto fondamentale dell'opera era, a parte le discussioni parallele, come quelle del II e III libro sulla necessità, contraddetta da Filo e propugnata da Lelio, della giustizia quale fondamento dello stato, che la miglior forma di governo fosse la forma mista, rispondente contemporaneamente alle esigenze affermate con la monarchia, con l'oligarchia e con la democrazia (in sostanza il governo di Roma), ma che tale equilibrio potesse essere talvolta turbato, e per ristabilirlo fosse necessaria una sorta di potere personale, transitorio, il potere del princeps. Per la determinazione della posizione giuridica del princeps siamo ridotti a congetture. Forse esso era nella mente di C., più che un dittatore, un regolatore temporaneo, politico e spirituale, dello stato, in cui si confondevano i caratteri di Cesare e di Pompeo, il consul sine collega del 52.
Il trattato si chiude, come il De re publica di Platone, con un sogno in cui Scipione Emiliano conosce dal suo grande avo, l'Africano, i premî che aspettano nell'al di là coloro che hanno bene meritato della patria. Questa stessa imitazione fa supporre che C. abbia seguito esemplari greci; ma è certo che nelle forme greche egli aveva versato la sapienza e l'esperienza politica di Roma.
Dopo il De re publica, C. cominciò a scrivere il De legibus, in cui volle richiamare le varie norme del diritto positivo ai principî del diritto naturale, collaborando così all'opera di Pompeo, che intendeva portare nel campo delle leggi un maggior ordine e una maggiore semplicità. Interessante, nel II e nel III libro, il tentativo d'imitare la lingua delle leggi antiche, e nel III la serena risposta di C. alla critica fatta dal fratello Quinto alla restaurazione del tribunato. L'opera rimase interrotta al III libro.
Nella primavera del 46, C. scrisse i Paradoxa Stoicorum, un'operetta sulle più caratteristiche affermazioni morali degli stoici. Dopo la morte di Tullia, cominciò a realizzare il programma di far conoscere ai suoi concittadini la filosofia greca e di dare a Roma una lingua filosofica, con un'opera di carattere gnoseologico, gli Academica, pubblicata in due edizioni, diverse per ampiezza e per il nome delle persone che partecipano al dialogo. A noi è rimasto il II libro della prima edizione, e il I della seconda, frammentario. Nel II libro C. sostiene contro Lucullo la dottrina scettica della nuova Accademia. La discussione è tra le più vive e colorite della filosofia antica.
Sgombrato il terreno dal problema gnoseologico, C. passò a trattare nel 45, coi 5 libri del De finibus bonorum et malorum, il problema del sommo bene e del sommo male, sempre dal punto di vista della scepsi accademica, e, con lo stesso criterio, i libri De natura deorum. Ma il suo scetticismo - consistente del resto, in questi libri, nel metodo di far sostenere da altri le tesi epicuree, stoiche e peripatetiche, contraddicendole poi egli stesso, o facendole contraddire dagli altri -, non gl'impedi di scrivere con tono e fervore di stoico, tra il De finibus e il De natura deorum, i 5 libri Tusculanarum disputationum. Il suo probabilismo gli concedeva appunto questa libertà di movimento, tanto più che il dubbio della nuova accademia, pure investendo i dogmi della teologia, della fisica e dell'etica diremo così trascendente, rispettava le intime certezze morali dello spirito.
Di queste certezze C., che allora sentiva più che mai la necessità di un sicuro punto di riferimento nella vita politica e morale, volle farsi assertore, prima nelle Tusculanae, il libro che celebra la superiorità dello spirito sulla morte e sulle passioni, e poi nel Cato maior de senectute (44), nel Laelius de amicitia (44) e nel De officiis (44), questi ultimi due scritti dopo la morte di Cesare.
Tra il Catone e il Lelio, C. compose, secondo un criterio scettico, il De divinatione e il De fato. Sono fredde compilazioni, nonostante il bel proemio al II libro, in cui riassume e commenta la sua produzione filosofica, e le interessanti notizie sulla superstizione romana e sullo stato d'animo dei contemporanei, nel De divinatione. Ma le opere in cui celebra le consolazioni della vecchiaia e dell'amicizia, e la santità del dovere, sono veramente vive e belle. Il Catone, idealizzazione di una grande figura, è artisticamente il capolavoro di C., e il De officiis, quali che possano essere state le sue fonti greche, è forse la più profonda e la più sobria delle opere ciceroniane.
Conclusione. - C. fu dunque un uomo politico, un oratore, un teorico dell'eloquenza e un filosofo. Delle sue opere storiche e poetiche non è il caso di parlare, poiché erano la parte più caduca dei suoi scritti, e sono andate quasi tutte perdute. Ma anche così, la molteplicità del suo spirito, della sua attività e della sua arte resta un fatto meraviglioso, che nessuna critica di politici, di filosofi e di filologi potrà mai svalutare. Egli ebbe come critico, ricostruttore di ambienti, e spettatore di fatti contemporanei, una sensibilità storica pronta ed acuta. Ebbe un'attitudine geniale a svolgere l'azione adatta ad ogni tempo, a trovare la forma per ogni pensiero, ogni fatto, ogni sentimento. Non fu un capo, perché quando c'erano gli elementi per una restaurazione politica gli mancò la forza spirituale per trarre dalla sua esperienza e dalla sua sensibilità un motivo d'azione, e quando ebbe la forza morale e sentimentale per essere un capo, gli mancarono gli elementi su cui costruire e con cui vincere. Ma è vicino a Cesare la personalità più rappresentativa e più ricca dell'ultimo secolo della repubblica.
Nonostante le apparenze, non ebbe dopo la morte una grande fortuna. Diventato ben presto autore scolastico, è rimasto per 20 secoli autore scolastico. Ambrogio s'ispirò al De officiis, e i parlamentari della rivoluzione inglese e della rivoluzione francese a certe sue orazioni politiche. E molto, e non è certo tutto quello che egli ha fatto per lo spirito europeo. Ma per il gran pubblico egli è ancora un autore scolastico, il prototipo della prosa solenne e sonante: strana e semplicistica deformazione di una grande figura.
Iconografia: Statue e busti di C. sono ricordati anche nell'antichità (In Pisonem, 25 e Lampridio, Alex. Sev., 7). Le monete col suo nome e il suo ritratto non sono autentiche. Quanto alle statue e ai busti E. Q. Visconti ha raccolto su di essi nella sua Iconografia (I, pp. 333-65: cfr. tav. XII) le notizie più complete. Oggi l'unico busto considerato autentico è quello dell'Apsley House. Discussa l'autenticità del busto del Museo di Madrid (J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie, Stoccarda 1882, I, pp. 135-36). Busti di C. si trovano a Monaco, agli Uffizî, al Museo Capitolino e al Museo Vaticano. Appartiene a quest'ultimo il ritratto di C. più riprodotto e più diffuso, considerato come autentico dal Winckelmann, e anche oggi giudicato da alcuni come il più rappresentativo della personalità ciceroniana (W. Lübke ed E. Pernice, Die Kunst des Altertums, 15ª ed., Esslingen 1921, p. 438). Due statue ha il Museo di Napoli. Nel Rinascimento è da ricordare il ritratto di Cicerone (?) nell'affresco rappresentante il Trionfo di San Tommaso, dipinto da Andrea di Firenze nella cappella degli Spagnoli a S. Maria Novella, quello del Ghirlandaio nella sala dei Gigli in Palazzo Vecchio, del Perugino nella Sala del Cambio a Perugia e il ritratto di Giusto di Gand, conservato nella Galleria Barberini. Nell'arte moderna sono da ricordare un quadro di Pierre-Henry Valenciennes, conservato a Parigi, e rappresentante C. che scopre la tomba di Archimede (A. Siret, Dictionnaire des peintres, 2ª ed., Bruxelles 1861-66), il notissimo quadro del Gérome con la scena dell'invettiva contro Catilina, un affresco del Maccari dello stesso argomento al palazzo Madama di Roma, e la statua del Rutelli, pure a Roma, davanti alla facciata del Palazzo di giustizia. Fra i prodotti delle arti minori ricorderemo l'incisione su legno di Cecco d'Ascoli (1501), riprodotta in una edizione della Rhetorica nova, pubblicata a Venezia, circa nel 1527, un intaglio rappresentante C. (mezzobusto) di Antonio Berini (J. Meyer e H. Lübke, Allgemeines Künstler-Lexicon, Lipsia 1880), e un'incisione di William Woollett, rappresentante C. che passeggia nella sua villa con Quinto e Attico dal quadro di Richard Wilson del 1778 (Ferrario, Classiche Stampe, Milano 1836).
Codici: Per le Epistulae ad Atticum il codice fondamentale è il Mediceus, 49, 18, la copia che Coluccio Salutati fece fare da un cod. Veronensis, e per le Epistulae ad Familiares il Mediceus, 49, 9, il cod. Vercellensis, di cui pure il Salutati fece fare una copia, conservata alla Laurenziana col n. 49, 7. Il codice veronese delle Ep. ad Atticum è andato perduto e con esso la copia fattane dal Petrarca prima del Salutati. La tradizione manoscritta dei discorsi è molto complessa. I codici completi delle opere retoriche sono gli apografi del codice di Lodi, scoperto nel 1421 dal vescovo Gerardo Landriani, e perduto. Prima si avevano soltanto manoscritti lacunosi del De oratore e dell'Orator, completi del De inventione. Si hanno così per il De oratore e l'Orator due famiglie di codici, mutili e integri. Il migliore dei mutili è il codice Abrincensis 238; tra gl'integri, importanti il Florentinus, I, 14 che è il migliore per il Brutus e per l'Orator, e il Vaticanus Palatinus 1469. Otto degli scritti filosofici di C. sono conservati nei due codici Leidenses Vossiani, 84 e 86, e nel Florentinus Marcianus, 257. Tradizioni a parte hanno gli Academica priora, il De finibus, le Tusculanae, il De senectute, il De amicitia, e il De re publica.
Edizioni: Nel '500 le opere di C. furono edite da P. Vettori (Venezia 1534-37), P. Manuzio (Venezia 1540-46), D. Lambino (Parigi 1566). L'edizione moderna fondamentale è quella di Orelli, Baiter, Halm (Zurigo 1845-61). Buona l'edizione teubneriana di C. F. W. Müller, curata per i trattati retorici da G. Friedrich. Nell'edizione di C. F. A. Nobbe (Lipsia 1869) le opere di C. sono riunite in un solo volume. Tra le edizioni particolari merita di essere ricordata quella di A. C. Clark e W. Peterson, per le orazioni (Oxford 1905-18), divenuta fondamentale. Il De re publica fu pubblicato per la prima volta da A. Mai nel 1822 (Roma e Stoccarda), e nuovamente nel 1846 (Roma). L'edizione fondamentale per il De legibus è di J. Vahlen, 2ª ed., Berlino 1883; per il De finibus di J. N. Madvig, 3ª ed., Copenaghen 1876; per l'Orator di F. Heerdegen, Lipsia 1884. Per le epistole è da ricordare oltre l'edizione delle lettere Ad Familiares di L. Mendelssohn, Lipsia 1893, l'edizione commentata di R. Tyrrel e L. C. Purser, Dublino e Londra, 1890-1906, e quella col solo testo, di L. C. Purser, Oxford 1901-1903, ambedue complete.
La casa Teubner ha iniziato dal 1914 la pubblicazione di una nuova grande edizione delle opere di C., affidata a parecchi studiosi (Klotz, Plasberg, Schoell, Sjögren, ecc.). Dei 16 volumi annunciati, 8 sono già usciti. Anche nel Corpus Paravianum sono pubblicate alcune opere. Il commento più antico, e ancor oggi di importanza fondamentale, è quello di Asconio alle orazioni, giuntoci purtroppo solo in parte. Tra i moderni ricordiamo le Ausgewählte Reden, commentate da C. Halm e G. Laubmann, 2ª ed., Berlino 1896. Buoni anche alcuni commenti della collezione Chiantore: De oratore, A. Cima, 2ª ed.; Orator, A. De Marchi ed E. Stampini (1922); C. Giambelli, De finibus (1889-91) e De natura deorum (1896-904); De amicitia, F. Ramorino, 3ª ed., 1908; De officiis, R. Sabbadini, 1906. Notevoli i commenti di O. Jahn all'Orator (3ª ed., Berlino 1863), e di J. Martha al Brutus (2ª ed., Parigi 1907).
Traduzioni: Traduzioni delle opere di C. si trovano nelle collezioni Langescheidt, Metzler e Tusculum-Buch, in Germania, nella collezione Les Belles Lettres, nella Loeb Classical Library, e in Italia, nella recente collezione di scrittori latini pubblicata dall'Istituto Romano. Notevoli sono in Italia le traduzioni delle Cesariane cioè delle orazioni Pro Marcello, Pro Ligario e Pro rege Deiotaro (Milano 1832) e dei Libri Rhetorici (tradotti anche in seguito più volte) di Brunetto Latini (Napoli 1851); alcune orazioni e i libri De oratore furono tradotti da M. L. Dolce (venezia 1562 e 1745), le epistole Ad Familiares da Guido Loglio (con corr. di Aldo, Venezia 1534) e da Fausto da Longiano (Venezia 1544), che tradusse anche le Tusculane (Napoli 1851), le epistole ad Attico da Matteo Senarega, la cui traduzione fu poi ammodernata dall'abate Chiari da Pisa (Venezia 1741), tutte le Filippiche da G. Ragazzoni e la II da G. Giustiniano (Venezia 1556 e 1538), il De officiis, il De amicitia, i Paradoxa e il Somnium Scipionis (tradotti, specialmente l'ultimo, anche da altri) da Agostino Beazzano (Venezia 1528); anonima è la traduzione trecentesca del De amicitia (Firenze 1809). Nel '700 l'abate G. A. Zevian tradusse il De officiis (Verona 1737). Completa è la traduzione di A. Cesari col testo a fronte, Venezia 1848-61. A. Saffi tradusse alcune orazioni (Ravenna 1864). In Francia abbiamo numerose tradizioni, tra le altre quelle complete di J. N. Demeunier, Clement, G. Gueroult (Parigi 1783-1789), J.-V. Leclerc, col testo a fronte (Parigi 1827), D. Nisard, pure col testo a fronte (Parigi 1840-41). Tra le tedesche meritano d'essere ricordate la traduzione delle lettere di C. M. Wieland (Zurigo 1808-21), quella del De senectute di F. Jacobs, nel II volume (Lipsia 1841) della traduzione degli scritti filosofici di C. pubblicata dal Klotz, e quelle dell'Orator e del Brutus di W. S. Teuffel (Stoccarda 1850 e 1861).
Bibl.: La più antica biobrafia di Cicerone è quella di Plutarco. Tra i moderni gl'Inglesi ci hanno dato estese biografie di Cicerone (C. Middleton, The history of the life of M. T. Cicero, Londra 1741; W. Forsyth, Life of C., Londra 1869; A. Trollope, Life of C., Londra 1880); materiale abbondantissimo è raccolto nel noto manuale di M. Schanz (Gesch. d. röm. Litt., Monaco 1909, I, ii, 3ª ed., p. 226 segg.; aggiornata ma più breve la trattazione nella 4ª ed. del 1929). Più penetranti e nettamente favorevoli le pagine dedicate a Cicerone da G. Boissier, in Cicéron et ses amis, Parigi 1865, 19ª ed.; dal Leo nella sua Die römische Litteratur des Altertums, in Die Kultur der Gegenwart, VIII, 3ª ed., Lipsia 1924, p. 529 segg. e dall'Ussani nella Storia della letteratura latina, Milano 1930, p. 212 segg. All'ostilissima e minutissima biografia del Drumann (Geschichte Roms, 2ª ed., V, Lipsia 1912-19, e VI, Lipsia 1929), e al giudizio sfavorevole di Th. Mommsen (Römische Geschichte, 8ª ed., Berlino 1889, III, pp. 619-621, 180, 326, 189-91, 217-18, 580, 622-24), E. Ciaceri ha contrapposto un lavoro (Cicerone e i suoi tempi, Roma 1927-29), in cui celebra la politica ciceroniana. Sereno, Ed. Meyer, Caesars Monarchie und das Principat des Pompeius, Stoccarda 1919. Le più recenti biografie dell'Arpinate sono il Cicero in seinen Werken und Briefen di O. Plosberg (Lipsia 1926) e il Cicerone di F. Arnaldi (Bari 1929), condotte come storie della molteplice attività spirituale di Cicerone. Sul pensiero filosofico di Cicerone hanno scritto J. F. Herbart (Über die Philosphie Ciceros, in Opere, XII, p. 169 segg.) e G. Barzellotti (Delle dottrine filosofiche nei libri di Cicerone, Firenze 1867), e con speciale riguardo alle fonti, R. Hirzel (Untersuchungen zu Ciceros philosophischen Schriften, Lipsia 1877-83). Sul problema delle fonti filosofiche v. ora anche F. Moscarini, Cicerone e l'etica stoica nel III libro del "De finibus", Roma 1930. Per lo stile, v. Norden, Die antike Kunstprosa, Lipsia-Berlino 1909, p. 212 segg., e M. L. Laurand, Études sur le style des discours de Cicéron, 2ª edizione, Parigi 1926-27; e, per il ritmo, Th. Zielinski, in Philologus, Supplemento IX (1904). Su Cicerone giureconsulto ha scritto un'opera monumentale, pubblicata prima negli Atti dell'Accademia delle scienze di Bologna, ed ora riunita in volume (Bologna 1929), E. Costa. Per l'influenza di Cicerone nei varî secoli, v. Th. Zielinski, Cicero im Wandeln der Jahrhunderte, 3ª ed., Lipsia-Berlino 1912, libro interessantissimo anche come valutazione complessiva della personalità di Cicerone. R. Sabbadini, Storia del ciceronianismo, Torino 1885.