RAMAT, Marco
RAMAT, Marco. – Nacque a Firenze il 25 gennaio 1931, secondo dei quattro figli di Raffaello e di Wanda Pieroni.
In un libro di memorie, scritto negli anni Cinquanta e pubblicato postumo (Primo codice, Roma 1987), ha raccontato – con sapienza narrativa – le lacerazioni sentimentali e identitarie che contrassegnarono la sua infanzia. In un Paese profondamente fascistizzato, dove il culto del littorio penetrava nelle aule scolastiche e nella vita quotidiana dei bambini, ricevette dai genitori un’educazione anticonformista, idiosincratica rispetto alla mitologia politica imperante. Mentre il nonno materno plaudeva ai successi mussoliniani e infervorava la mente del nipote con le immagini di un esaltante avvenire in camicia nera, il padre, insegnante e critico letterario, avversava il regime e partecipava alla formazione del movimento liberalsocialista fiorentino. Arrestato una prima volta quando Marco aveva undici anni, scelse la via della clandestinità durante l’occupazione nazista e combatté con le Brigate Garibaldi Sinigaglia. Quando tornò a casa, nel 1945, suo figlio non era più il fanciullo disorientato dai contrastanti modelli familiari e ambientali, bensì un ragazzo politicamente consapevole, a cui solo la giovanissima età aveva impedito di fare quel che avrebbe voluto: la Resistenza, da partigiano.
Nel dopoguerra, concluso il liceo in anticipo rispetto alla sua classe d’età, Ramat si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Firenze. Si laureò nel 1952, discutendo una tesi in diritto processuale civile con Piero Calamandrei, la cui lezione culturale e il cui esempio di giurista militante costituirono per lui un duraturo punto di riferimento. Intrapresa la professione forense, per alcuni mesi lavorò a Torino, presso lo studio di uno zio; poi si ristabilì nella sua città natale. Nel 1953 cominciò a collaborare con Il ponte, recensendo saggi di storia contemporanea e di critica del totalitarismo sovietico. Nello stesso anno prese in moglie Maria Vittoria Setti (detta Lella), con la quale ebbe tre figlie: Elisabetta (1954), Anna (1955) e Alessandra (1958).
La posizione di Ramat nelle aule di giustizia cambiò nel 1955: vinto il concorso in magistratura, prestò giuramento il 28 ottobre e prese servizio presso la Pretura di Firenze. Apprezzato per «il notevole acume» e le «eccellenti doti» nelle funzioni giudiziarie (Corte d’appello di Firenze, Rapporti informativi e Deliberazioni del Consiglio giudiziario, 1, 3), nell’aprile del 1958 fu destinato alla reggenza della Pretura di Borgo San Lorenzo. La promozione a magistrato di tribunale arrivò nel novembre del 1960: «fieramente indipendente» per carattere, il giovane pretore aveva dato prova di «intelligenza vivida» e si era distinto per «la chiarezza nella redazione delle sentenze» (6). Continuò a lavorare a Borgo San Lorenzo fino al 1966 (quando tornò a Firenze), intrecciando un fecondo rapporto di amicizia con don Lorenzo Milani.
Parallelamente al mestiere di giudice, svolse una cospicua attività pubblicistica: nel 1958 iniziò a scrivere sul quotidiano fiorentino La Nazione, utilizzando lo pseudonimo Libero Barberis, e l’anno seguente firmò il suo primo articolo su Il Mondo di Mario Pannunzio.
Giurista di solida formazione umanistica, nei suoi interventi discuteva di legalità e giustizia con penna agile e incisiva, dando voce alla cultura politica della sinistra liberale di matrice azionistica. Gli ideali professati e la notorietà acquisita attraverso i giornali e le riviste attirarono su di lui l’attenzione di quei magistrati che, all’inizio degli anni Sessanta, lavoravano per la concreta affermazione dei principi costituzionali e il superamento dell’assetto autoritario dell’ordine giudiziario. Quando nel luglio 1964 fu costituita Magistratura democratica (MD), Ramat, che fino ad allora si era tenuto lontano dall’associazionismo di categoria, entrò subito a farne parte e, dalle colonne del Mondo, ne annunciò la nascita, illustrandone le finalità di rottura con l’ideologia dell’apoliticità del giudice e con l’irresponsabile isolamento della magistratura nel suo «salotto buono di borghesia fin de siècle» (Il giudice democratico, in Il Mondo, 29 settembre 1964).
Nel quinquennio successivo, l’impegno di Ramat in MD aumentò costantemente. Nel 1965 a Gardone partecipò come relatore al XII Congresso dell’Associazione nazionale magistrati (ANM), invitando i colleghi a liberarsi dagli idola iuris vetero-positivisti e a seguire nella giurisdizione la bussola della Costituzione. Intervenne a più riprese sul periodico La Magistratura, organo dell’ANM, e contribuì significativamente, attraverso convegni, discussioni, articoli, all’elaborazione e alla diffusione delle idee e delle proposte di MD. Nel 1968 curò la pubblicazione di un fascicolo monografico del Ponte dedicato ai problemi dell’amministrazione giudiziaria, allo scopo di coinvolgere l’opinione pubblica, la classe politica e l’avvocatura (a cui rivolse sempre grande attenzione) nel dibattito sulle riforme. Nel 1969 fu eletto al Comitato direttivo centrale dell’ANM.
Intellettuale vocato al dialogo, fu tra coloro che in MD si sforzarono di tenere unite le differenti anime del gruppo, individuando nella «coiné costituzionale» (Storia di un magistrato, a cura di M. Ramat, Roma 1986, p. 13) il terreno di mediazione tra marxisti, cattolici e liberalsocialisti. Quando sullo scorcio degli anni Sessanta gli avvenimenti esterni polarizzarono gli schieramenti interni e i contrasti divennero inconciliabili, egli si posizionò nettamente a sinistra e visse da protagonista le vicende che portarono – nel clima drammatico prodotto dalla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969) – alla fuoriuscita da MD degli esponenti più moderati (20 dicembre 1969).
Seguirono anni in cui, alla radicalizzazione e al clamore delle iniziative politiche di MD (il cui peso elettorale si dimezzò dopo la scissione, ma il cui vigore culturale crebbe con la fondazione della rivista Qualegiustizia), corrisposero la stigmatizzazione e la persecuzione dei suoi dirigenti. Contro Ramat, tra il 1970 e il 1971 furono avviati tre procedimenti disciplinari e un procedimento penale per vilipendio della magistratura. Ciononostante, nel marzo del 1972 egli ottenne la qualifica di magistrato di Corte d’Appello, a dispetto del parere negativo espresso dal Consiglio giudiziario di Firenze, dominato dal procuratore Mario Calamari (implacabile censore dei magistrati democratici). Pochi mesi dopo, subentrò a Generoso Petrella (eletto senatore) nella carica di segretario generale di MD.
Sotto la sua leadership – confermata nei congressi di Firenze (1973) e Napoli (1975), malgrado tensioni e opposizioni – MD fronteggiò l’ostracismo dagli organi direttivi dell’ANM, senza attenuare la denuncia del carattere classista della giustizia italiana e dei vizi atavici di una magistratura «succube e incube di ideologia d’Ordine» (Relazione al 2° Congresso nazionale di MD, in Magistratura democratica, 1974, n. 6, p. 7). Insieme ai dissensi interni verso la strategia di avvicinamento al Partito comunista italiano (PCI) promossa dal segretario, crebbe la forza aggregativa della corrente tra i magistrati: nel 1976, Ramat fu eletto al Consiglio superiore della magistratura (CSM) e lasciò la guida di MD.
Nell’organo di autogoverno della magistratura egli perseguì l’obiettivo della trasparenza dei processi decisionali e tentò di contrastare la forza preponderante dei conservatori attraverso l’alleanza tra i laici di sinistra e i togati progressisti. Negli anni del terrorismo più cruento, le cui azioni colpirono violentemente i giudici e il CSM (con l’assassinio del vicepresidente Vittorio Bachelet, il 12 febbraio 1980), Ramat contribuì a evitare lo sbandamento istituzionale della magistratura. Terminato il mandato consiliare, nel 1981, riprese a tempo pieno il suo lavoro di pretore a Firenze. Vi rimase fino al febbraio del 1983, quando entrò in servizio presso la Corte suprema di Cassazione come consigliere della Sezione Lavoro. Qualificato come «magistrato eccezionalmente dotato» (Corte suprerma di Cassazione, Fascicolo degli atti di carriera) dal presidente di Sezione, l’anno successivo ottenne l’idoneità alle funzioni direttive superiori.
I suoi incarichi istituzionali non gli impedirono di continuare a scrivere sui giornali e di assecondare l’inclinazione all’impegno politico. Tra il 1975 e il 1985 firmò decine di articoli su Paese sera e L’Unità. Nel 1978 maturò la decisione di iscriversi al PCI. A partire dal 1980 coordinò l’attività di ricerca sulla giustizia del Centro per la riforma dello Stato (diretto da Pietro Ingrao), improntandola della sua cultura garantista. Alla fine del 1984 fu nominato consulente della Commissione parlamentare antimafia.
L’anno seguente gli fu diagnosticato un tumore incurabile in stato avanzato. Ramat morì il 9 dicembre 1985 tra le braccia della sua compagna, Fernanda Torres.
Opere. Della copiosa produzione saggistica di Ramat è impossibile dar conto esaustivamente. Un elenco bibliografico, compilato da F. Torres, è reperibile in Crisi della giurisdizione e crisi della politica, a cura di S. Mannuzzu - F. Clementi, Milano 1988, pp. 369-390. Si segnalano alcuni dei suoi scritti più significativi: L’indipendenza della giustizia, in Il Ponte, 1961, n. 6, pp. 848-860; L’equità nel giudice e nelle giustizia, in Atti e commenti. XII Congresso nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Roma 1966, pp. 113-132; Discorso di un giudice alla ‘contestazione globale‘, in La magistratura, 1969, nn. 1-2, p. 3; La responsabilità politica della magistratura, in Foro amministrativo, 1969, n. 3, pp. 15-25; Un solo padrone, in Qualegiustizia, 1970, n. 1, pp. 5-7; Una politica per la giustizia, in Il Ponte, 1970, nn. 4-5, pp. 578-595; Linee di ricerca per una giustizia oltre la crisi, in Quali garanzie, a cura di G. Cotturri - M. Ramat, Bari 1983, pp. 33-60.
Fonti e Bibl.: Archivio storico della Corte di Cassazione, Ufficio I, Magistrati, f. 2767; S. Pappalardo, Gli iconoclasti. Magistratura Democratica nel quadro della Associazione Nazionale Magistrati, Milano 1987; F. Ippolito, A M. R., in Crisi della giurisdizione… cit., 1988, pp. 28-40; B. Deidda, La lezione di un giudice, ibid., pp. 220-225; E. Bruti Liberati, La magistratura dall’attuazione della Costituzione agli anni ’90, in Storia dell’Italia repubblicana, III, 2, Torino 1997, pp. 141-240; L. Pepino, Appunti per una storia di Magistratura democratica, in Questione giustizia, 2002, n. 1, pp. 111-145; G. Palombarini - G. Viglietta, La Costituzione e i diritti. Una storia italiana: la vicenda di Md dal primo governo di centro-sinistra all’ultimo governo Berlusconi, Napoli 2011.