FERRERI, Marco
Marco Ferreri, registrato all’anagrafe con il prenome Marcantonio, nacque a Milano l'11 maggio 1928, da Michelangelo e Carolina Vismara, originari della provincia milanese (rispettivamente di Locate di Triulzi e di Affori); un anno dopo, nacque il fratello Cesare. Il padre fu ragioniere e contabile, la madre fu prima impiegata, poi casalinga. Marco Ferreri visse in Italia, poi in Spagna, nuovamente in Italia, infine in Francia: «Forse la caratteristica più evidente della biografia di Marco Ferreri è l’instabilità, il movimento, l’instancabilità nello spostamento continuo da un paese all’altro, da una città all’altra […] tanto più interessante se confrontata con l’'universo statico' delle forme significanti del cinema e dei film di Ferreri» (Grande, 1974, p. 15).
Generato sotto il fascismo, secondo alcune fonti (S. Bertoldi, Soldati a Salò. L’ultimo esercito di Mussolini, Milano 1995, p. 114) Ferreri avrebbe militato da ragazzo nelle forze armate della Repubblica sociale italiana. Certamente, nel dopoguerra l’avversione al fascismo e al neofascismo fu per lui diretta e frontale, come dimostrano la sua indole libertaria e, soprattutto, i suoi film, dai primi all’ultimo, irriducibili all’ideologia mussoliniana; non risulta, invece, che Ferreri abbia fatto all'indomani del 1945 professioni di «antifascismo pregresso e di incontaminata fede democratica» come vorrebbe la stessa fonte (ibid.).
Dopo essersi diplomato al liceo classico Parini di Milano, si iscrisse alla facoltà di veterinaria senza però conseguire la laurea; si cimentò allora in diversi lavori, tra cui quello di rappresentante di una ditta di liquori, per la quale realizzò anche dei cortometraggi pubblicitari. Si trasferì quindi a Roma «per comprare film» (Masoni, 1998, p. 15) e qui fece il suo ingresso nel mondo del cinema, prima come produttore, critico e attore, e successivamente come regista. Poco più che ventenne, fu implicato nella produzione di Cronaca di un amore (1950) di Michelangelo Antonioni. Avvicinatosi agli ambienti del neorealismo, nello stesso periodo diede corso insieme a Riccardo Ghione a una originale rivista filmata, Documento mensile, che godette dell'apporto di cineasti rinomati, come Vittorio De Sica e Cesare Zavattini (1951, n. 1), Luchino Visconti, che firmò nel n. 2 (1953) la regia di Appunti di un fatto di cronaca, commento di Vasco Pratolini, ma anche Dino Risi, Antonioni e di artisti e scrittori come Alberto Moravia, Leonardo Sinisgalli e Renato Guttuso. L'esperimento, che non riuscì a raggiungere i circuiti distributivi, ebbe fine con il n. 3, ma ancora in collaborazione con Zavattini e Ghione, Ferreri si cimentò, per la Faro Film di Messina, nella produzione di una nuova cine-rivista: Lo spettatore. Il primo numero, Amore in città (1953), era un film-inchiesta che vide coinvolti in qualità di registi dei diversi segmenti Carlo Lizzani (L'amore che si paga), Antonioni (Tentato suicidio), Risi (Paradiso per tre ore), Federico Fellini (Un'agenzia matrimoniale), Francesco (Citto) Maselli e Zavattini (Storia di Caterina), Alberto Lattuada (Gli italiani si voltano, in cui Ferreri fece una delle sue prime apparizioni come attore). Anche questa avventura collettiva, che nelle intenzioni di Zavattini avrebbe dovuto rappresentare uno dei tentativi di rinnovamento del neorealismo (Vitella, 2013), terminò precocemente a causa dello scarso successo economico ottenuto dalla pellicola.
Sempre nel 1953 Ferreri fu tra gli organizzatori del secondo convegno sul cinema neorealista, che si tenne a Parma (3-5 dicembre) e che si interrogò vivacemente sulle sorti del movimento. A partire dai primi anni Cinquanta si era cimentato anche come produttore esecutivo, iniziando con due film di Lattuada, Il cappotto (1952) e La spiaggia (1954, in cui comparve ancora come attore). Sempre nel 1954 realizzò Donne e soldati, diretto da Luigi Malerba e Antonio Marchi, film farsesco e antimilitarista, ambientato nel Medioevo, di cui fu anche cosceneggiatore e nel quale interpretò la parte del padrone del castello di Torrechiara.
Due anni dopo, probabilmente alla ricerca di nuovi stimoli, in veste ancora una volta di produttore esecutivo del film Fiesta brava di Vittorio Cottafavi (uscito in Italia con il titolo Toro bravo), ma anche come rappresentante di attrezzature cinematografiche (in particolare degli obiettivi Totalscope, la risposta italiana ai Cinemascope della statunitense Fox), si recò in Spagna. A Madrid conobbe Rafael Azcona, redattore della rivista satirica La Condorniz, voce critica verso la Spagna franchista. L'incontro fu decisivo per la carriera di entrambi: Ferreri divenne regista, Azcona sceneggiatore; per Ferreri, lo scrittore spagnolo fu autore di una quindicina di soggetti/sceneggiature, tra i titoli più importanti della sua carriera. La Spagna rappresentò per il cineasta italiano una fondamentale esperienza di formazione. Della cultura iberica, gli risultò congeniale in particolare quella letteraria (da Francisco de Quevedo alla 'Generazione del '98') e figurativa (Francisco de Goya soprattutto), caratterizzata da un senso del tragico nella deformazione grottesca, dalla predilezione per le forme narrative dell'apologo e dell'exemplum, dalla degradazione dei personaggi (spietata, ma senza dileggio), dal gusto per il paradosso e per l'assurdo risolto in humour negro. Ferreri trovò in Azcona un interprete acuto di questa poetica (detta esperpento) che, rinnovata alla luce dell’attualità, permeò la sua opera per i successivi vent'anni.
Dopo due progetti respinti dalla censura spagnola, il film d'esordio fu El pisito (1958), tratto dal romanzo (1956) di Azcona, regia di Ferreri e Isidoro M. Ferry: il giovane Rodolfo sposa la sua padrona di casa, una donna anziana, per ereditarne il piccolo appartamento (el pisito) e sposare la fidanzata. Presentato al Festival di Locarno del 1958, vinse il premio della critica FIPRESCI; in Spagna non ottenne però il nullaosta. Il tema sociale (crisi degli alloggi), la desolazione degli ambienti, i personaggi-interpreti qualsiasi, bastarono a consegnare questa parabola assurda all’equivoco del (neo)realismo, che non mancò di protrarsi nei successivi Los chicos (1959) – film sulla gioventù, ostacolato nella distribuzione – ed El cochecito (1960, dal racconto Paralítico di Azcona): Don Anselmo – un comune infelice pensionato che può vagamente richiamare Umberto D (di Zavattini-Sica, 1952) – avvelena l'intera famiglia per comprare una carrozzella (cochecito) ed essere ammesso in una cerchia di amici invalidi, motorizzati e felici. Con questo film, premiato alla Sezione informativa della Mostra del cinema di Venezia, «il regista allontana tutti i dubbi sul suo presunto neorealismo ed al tempo stesso chiude il periodo spagnolo» (Borin, 1988, p. 17): per la critica, richiamare il surrealismo di Luis Buñuel fu irresistibile. In questa stagione spagnola, Ferreri aveva tra l'altro vagheggiato di trarre un film da Das Schloss di Franz Kafka: il progetto non ebbe seguito, ma Kafka restò a lungo in filigrana, finché non divenne visibile in controluce con il film L'udienza (1972).
Tornato in Italia, girò nel 1961 Gli adulteri, 7° episodio di Le italiane e l'amore, una inchiesta ideata da Cesare Zavattini, ispirata al libro di Gabriella Parca Le italiane si confessano (1959). La proposta iniziale di Ferreri riguardava la tematica dell'interruzione di gravidanza – proposta respinta da Zavattini per timore di esiti antiabortisti. Gli adulteri fu diffuso come L'infedeltà coniugale ma, ben oltre l'ammiccamento di questo titolo alternativo, autentico tema del film erano il matrimonio, la morale cattolica e borghese, i rapporti (carnivori) di coppia. Il tema della coppia (eterosessuale), centro di gravità nella filmografia di Ferreri, si affermò a partire dallo scandalo suscitato nel 1962 da L'ape regina, sceneggiatura di Ferreri e Azcona, ispirata alla pièce teatrale di Goffredo Parise La moglie a cavallo: lui (Ugo Tognazzi) è un perfetto uomo medio, lei (Marina Vlady) una donna casta e pia che dopo il matrimonio si rivela sessualmente vorace fino a provocare la morte per sfinimento del marito. Il suo nome è Regina, e questa storia di sovranità femminile anticipa future, funeste disfatte di altri maschi ferreriani. Al film fu negato il nullaosta di proiezione pubblica in prima e seconda istanza in quanto «contrario al buon costume, anche in relazione alla comune concezione della morale coniugale» (visto n. 39.346 del 15 e del 30 gennaio 1963); venne sequestrato anche il libro Matrimonio in bianco e nero (Roma 1963) che conteneva la sceneggiatura, e Ferreri subì un processo che si concluse con l'assoluzione; il visto (n. 39.691) venne concesso il 28 marzo 1963, con divieto ai minori di anni 18, dopo cospicue modifiche, a partire dal titolo: Una storia moderna – L'ape regina. Ben più tardi, nel 1979, il divieto passò ai minori di anni 14. Nello stesso 1962 Ferreri fu cosceneggiatore di Mafioso di Alberto Lattuada, ma a distinguersi fu soprattutto il successivo, crudele, La donna scimmia (1964), che attraversò analoghe vicissitudini censorie per «scene e sequenze non adatte alla sensibilità dei minori». Il finale fu il luogo di due varianti di edizione. Maria (Annie Girardot), una disgraziata dal corpo ricoperto di peluria, convinta da Antonio (Ugo Tognazzi) prima a esibirsi come freak poi a sposarlo, muore di parto poco dopo il bambino: i due cadaveri vengono imbalsamati e accolti in un museo, ma Antonio, reclamati i corpi, decide di esporli in un baraccone da fiera: questo nell’explicit previsto (girato e montato) da Ferreri. Invece, secondo il proposito del produttore Carlo Ponti – forse in vista della distribuzione americana –, il film doveva arrestarsi sulla morte (sacrificale) di madre e bambino. Un diverso epilogo conobbe la versione francese (Le mari de la femme à barbe): la donna-scimmia perde i peli durante la gravidanza e dà alla luce un bambino normalmente glabro, condannando Antonio a un lavoro onesto. Solo il 10 marzo 2000, «visti i tagli effettuati ed il lungo tempo trascorso», la Commissione di revisione cinematografica concesse al film il nullaosta (n. 94.124) di proiezione al pubblico senza limiti di età.
Sempre nel 1964, Ferreri tornò a misurarsi con il film a episodi, filone squisitamente italiano all'apice negli anni Sessanta, firmando Il professore (II atto di Controsesso, che ebbe come registi anche Renato Castellani e Franco Rossi). Questo film, al pari di L'ape regina e La donna scimmia, ebbe Azcona come sceneggiatore e Tognazzi come protagonista, così da completare una ideale trilogia – una «trilogia dell'esclusione» (Grande, 1974, p. 25). Anche il successivo L'uomo dei cinque palloni, con Marcello Mastroianni e Catherine Spaak, venne distribuito nel 1965 come 'episodio'; invero, si trattò di un altro caso di autentica manomissione: il film era un lungometraggio (m 2259, pari a 80') e aveva ottenuto regolare visto di censura, ma il produttore Carlo Ponti ridusse l'apologo ferreriano a uno 'scherzo' di 35' per annetterlo al film contenitore Oggi, domani, dopodomani - Scherzo in tre atti (gli altri due erano di De Sica e Luciano Salce); poi, Ferreri vi pose nuovamente mano, girò scene ulteriori (una a colori) e approntò una nuova edizione (85') distribuita in Francia nel 1969 con il titolo Break-up - Erotisme et ballons rouges; nel 1973, il film venne presentato alle Giornate del cinema italiano di Venezia con il titolo L'uomo dei palloni.
Nel 1966 fu la volta di Marcia nuziale: ancora un film a episodi, questa volta non opera collettanea, ma quattro 'momenti' diretti da Ferreri e ciascuno interpretato da Tognazzi. La censura, dopo un primo parere negativo in quanto «decisamente offensivo del buon costume e del morale senso del pudore», richiesti diversi tagli di scene e dialoghi, concesse al film nel febbraio 1966 il nullaosta con divieto ai minori di anni 18, abbassato poi nel 1981 ai minori di anni 14.
Il 3 dicembre 1964, a Milano, Ferreri si unì in matrimonio con Jacqueline Perrier (per l’anagrafe, Marie Jacqueline Lamothe), attrice canadese, che divenne collaboratrice del regista negli anni Settanta-Ottanta. In particolare, fu assistente alla regia per La grande bouffe (1973; La grande abbuffata); produttore esecutivo per Ciao maschio (1978); produttrice per Chiedo asilo (1979), Storie di ordinaria follia (1981), Los negros también comen (1988; Oh come sono buoni i bianchi!!!).
Il 13 luglio 1966 Ferreri prese residenza a Roma.
Con L'harem (1967), Ferreri rimosse non solo ogni sopravanzo di neorealismo pur virato in grottesco dei primi film, ma anche le tonalità di commedia di costume e quel nero umorismo che avevano contrassegnato fin lì la sua opera, in favore del dramma astratto straniante rarefatto, e di uno stile di regia che, sottratto agli obblighi della sceneggiatura e del montaggio convenzionali, concordava con le esperienze delle coeve nouvelle vagues: nella produzione ferreriana, è stato considerato «un film-bivio» (P. Spila, L'harem, in Parigi, 1995, p. 195). «Per la tematica generale del film e per l'anormalità delle situazioni descritte», anche questo film venne vietato ai minori di anni 18 fino al 1985, quando la restrizione venne convertita ai minori di anni 14. L'harem fu anche il primo film di Ferreri a colori – «color caramello» – (fotografia di Luigi Kuweiller); per i titoli di testa si avvalse del contributo del pittore Mario Schifano. I riferimenti plastico-figurativi alla pop-art si fecero espliciti in Dillinger è morto (1968), sorta di Kammerspiel avvitato sulla performance del protagonista (un progettista di maschere antigas: Michel Piccoli) quasi solitario in scena, ovvero in compagnia di oggetti-feticcio e simulacri, mentre prepara una cenetta per sé e finisce per sopprimere la moglie con un gesto gratuito; in clausola, preso un bagno nella Grotta Byron a Porto Venere (La Spezia), l'ingegnere viene raccolto da un veliero diretto verso Tahiti, nel rosseggiare beffardo di un sole da iconografia turistica.
Nella stagione del Sessantotto, Ferreri fu sensibile alle istanze dei movimenti sociali di contestazione: nondimeno poté dichiarare: «la rivoluzione si fa facendo la rivoluzione, non facendo film» (M. Ferreri: “Dillinger è morto”, intervista a cura di A. Aprà, in Cinema & Film, 1969, 7-8, p. 34). Per lui niente cinema di denuncia o engagé omilitante, ma film 'in presa indiretta', tendenzialmente metaforici, radicalmente negativi verso la società capitalista, aggressivi verso le forme istituzionali borghesi e clericali (viste in disfacimento o già sfatte), lucidamente pessimisti verso i rapporti tra gli individui, tra i sessi, tra carne e carne (corpo e cibo), tra natura e civiltà. Così il postatomico Il seme dell'uomo (1969), vietato ai minori di anni 14 per le scene di nudo maschile. Così L'udienza (1972), protagonista il cantautore Enzo Jannacci; La cagna (titolo alternativo: Liza, 1972), dalla novella Melampus (1970) di Ennio Flaiano; La grande bouffe/La grande abbuffata (1973), dove Ferreri si spinse fino all'estrema allegoria sociale (corporale e filosofica, cioè sadiana): un magistrato, un proprietario di ristorante, un regista televisivo, un pilota, decidono di chiudersi in una villa per 'morire mangiando'. Nonostante la soppressione coatta di due sequenze (pari a m 40), fu imposto il divieto di proiezione ai minori di anni 18 «per la tematica del film nel suo complesso (suicidio collettivo e orge), nonché per le numerose scene accentuatamente erotiche e per il linguaggio volgare adoperato dai protagonisti» (visto n. 63.098 del 13 settembre 1973); solo anni dopo, «alleggerendo il film da numerose scene di sesso», il divieto passò ai minori di anni 14. Nella Grande bouffe si ritrovarono riuniti quattro interpreti preferiti da Ferreri, per di più serbando ciascuno il proprio nome – Philippe (Noiret), Ugo (Tognazzi), Michel (Piccoli), Marcello (Mastroianni) – e il tipico metodo ferreriano di direzione degli attori e di regia sperimentato fin dalle prime prove: il privilegio dell'interprete sulla parte e sulla sceneggiatura, il largo margine all'improvvisazione, l’evoluzione della performance attorica in piani-sequenza o inquadrature lunghe, con montaggio paratattico di blocchi scenici contigui; tale metodo 'moderno', si dispiegava ora in maniera esemplare e non sarebbe più stato abbandonato se non radicalizzandosi. Come nel successivo Touche pas à la femme blanche (1974; Non toccare la donna bianca), dove gli stessi quattro attori si ritrovano in uno pseudowestern burlesco girato nell'enorme cratere prodotto dalle demolizione delle Halles a Parigi; Ferreri riservò a sé un'apparizione nei panni di fotografo ufficiale.
A partire da questo film, Ferreri si aprì agli spazi urbani, ai grandi agglomerati popolari, all'urbanistica delle capitali occidentali (senza più centro e periferia), ripresi con prospettiva visionaria, sguardo allucinato, gusto della sproporzione. Un caseggiato-alveare di Créteil (Parigi) è lo scenario di L'ultima donna (1976), con Gérard Depardieu, ingegnere che si evira con un coltello elettrico, per amore; anche questo film, come quasi tutti i film successivi del regista, incontrò prima il divieto della censura ai minori di anni 18, in seguito (per i tagli apportati) alleviato in quello ai minori di anni 14. Ambientato in una New York da 'dopostoria', è invece Ciao maschio (1978), ancora con Depardieu e una scimmietta 'darwiniana' a fronte del cadavere di un gigantesco King Kong (proprio il pupazzone del kolossal prodotto da De Laurentiis nel 1976); passato più volte al vaglio della censura, «per le scene erotiche» fu vietato ai minorenni e, assai più avanti, nel 1990, ai minori di quattordici anni. Poi, dalla scuola materna di un quartiere periferico di Bologna in Chiedo asilo (1979), con Roberto Benigni, Ferreri passò all'acida Los Angeles di Storie di ordinaria follia (1981), tratto da una raccolta di racconti (1972) di Charles Bukowski, sceneggiatura di Sergio Amidei e Ferreri. Dalla metropoli americana, Ferreri trascorse all'architettura razionalista di Sabaudia (Roma) in Storia di Piera (1983; tratto dal romanzo autobiografico a due voci di Piera Degli Esposti e Dacia Maraini, 1980); oltre che per la regia, il nome di Ferreri figura nei credits alla voce ambientazione: «Nessun altro regista prima di lui è stato accreditato del ruolo diambientatore. […] Ferreri non inventa i luoghi. Inventa gli spazi» (Scandola, 2004, pp. 31-32). Discoteche, supermercati e altri non luoghi del consumismo sono gli spazi in cui Ferreri ambienta il successivo Il futuro è donna (1984; basato su una sceneggiatura di Degli Esposti e Maraini), parabola fin troppo esplicita sulla disintegrazione del maschio (schiacciato tra la folla d'un concerto) e suggestione di una nuova, ambigua ma fertile, società femminile; vietato ai minori di 14 anni, fu poi «completamente purgato» e il divieto venne sollevato nel 1991. Oltre alla regia, Ferreri firmò sornione la scenografia del denutrito deserto marocchino di Los negros también comen (1988). Un décor altrimenti ironico-esotico era previsto per Morire a Tahiti, soggetto scritto nel 1981 da Ferreri e Amidei di un film non realizzato: Luca, un ingegnere di Robogate, scopertosi ammalato di miocardite, ritorna prima al suo paese natio in Ciociaria, quindi, deluso, si lascia convincere dalla figlia a recarsi a Parigi per operarsi, ma infine preferisce una vacanza di quindici giorni in una paradisiaca isoletta della Polinesia francese; la vacanza risulta rasserenante «ma una sola cosa non rispetta il programma del Club Mediterranée: invece di tornare con il jet di linea ritorna alla Malpensa a bordo di un cargo, in una cassa avvolta, chissà perché, in una bandiera tricolore» (Morire a Tahiti. Soggetto cinematografico di Marco Ferreri e Sergio Amidei, Roma 1981, p. 3, conservato presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino).
Il 19 novembre 1984, a Ferreri venne conferito a Parigi il diploma di Commandeur de l'Ordre des arts et des lettres da parte del ministre délégué à la Culture, e il 12 maggio 1986, a Madrid, il diploma della Cruz de oficial de la orden del Merito civil da parte del re di Spagna Juan Carlos I.
Dopo I love you (1986), un quasi remake di Dillinger è morto, in cui un giovane s'innamora di un portachiavi parlante, e La casa del sorriso (1991; Orso d'oro al Festival di Berlino), dove a innamorarsi sono due anziani in una casa di riposo, Ferreri fece ritorno a un tema già altrimenti affrontato: La carne (1991), ancora una volta vietato ai minori di 14 anni per via delle scene erotiche contenute. Del 1993, Diario di un vizio, con l'attore cabarettista Jerry Calà: un venditore di detersivi tra fantasticherie e domanda d'amore; unica traccia di questa esistenza inesistente: un diario. Al proposito, l'autore ebbe a dichiarare: «La forma è importante, come il modo di filmare il territorio urbano. Ecco perché amo il film: perché non c'è costruzione drammaturgica, si resta sempre all'inizio delle cose» (cit. in Scandola, 2004, p. 9). L'ultimo film fu Nitrato d'argento (1996): una storia dello spettacolo cinematografico e dei suoi spettatori, dalle origini alla fine del secolo.
Marco Ferreri morì a Parigi il 9 maggio 1997; la salma fu tumulata presso il cimitero Verano a Roma.
Oltre ai già citati si segnalano le regie per la Tv: Corrida!, coregia di L. Malerba (trasmesso in due puntate dalla RAI, 1966); Perché pagare per essere felici!, documentario 16mm sulle comunità hippies degli Stati Uniti (trasmesso dalla RAI, 1976); Yerma (RAI, 1977), adattamento della pièce di F.G. Lorca; per la TV francese: Le banquet (1988) dal Simposio di Platone e Faictz ce qui vouldras (1994) su Rabelais.
Come attore, Ferreri partecipò ai citati La spiaggia, Donne e soldati, El pisito, L'uomo dei cinque palloni, e poi a Casanova 70 (1965) di M. Monicelli, Il fischio al naso (1967) di U. Tognazzi, Porcile (1969) di P.P. Pasolini, Il seme dell'uomo, Sortilegio (1969, inedito) di N. Bonomi, Ciao Gulliver (1970) di C. Tuzii, Sparita il giorno delle nozze (1° episodio della serie TV F.B.I. Francesco Bertolazzi Investigatore, 1970) di U. Tognazzi, Le vent d'est (1970) del Groupe Dziga Vertov (J.L. Godard - J.P. Gorin), Touche pas à la femme blanche; come intervistato, in A fondo (1978), programma della TV spagnola a cura di Joauquín Soler.
Torino, Museo nazionale del cinema, Fondo Marco Ferreri.
Matrimonio in bianco e nero, a cura di M. Argentieri et al., Roma 1963; M. Grande, M. F., Firenze 1974; F. Accialini - L. Coluccelli, M. F., Milano 1979; F. Borin, M. F., Venezia 1988; Antes del apocalipsis. El cine de M. F., a cura di E. Riambau, Valencia 1990; Ferreriana, a cura di A. Aprà, Pesaro 1995; M. F. Il cinema e i film, a cura di S. Parigi, Venezia 1995; T. Masoni, M. F., Roma 1998; A. Scandola, M. F., Milano 2004; F. Vitella, Strategie di «autenticazione» in L'amore in città (M. Antonioni, F. Fellini, A. Lattuada, C. Lizzani, F. Maselli, D. Risi, 1953), in Fata Morgana, 2013, n. 19, pp. 213-218.