FANTUZZI, Marco
Nacque a Roma il 15 ag. 1740 dal nobile ravennate Costantino e dalla contessa Diana Ippoliti di Gazoldo di Mantova e fu battezzato in S. Pietro il 18 agosto, primogenito dei tre soli figli sopravissuti, essendo gli altri Ferdinando (1741-1799), che sarà prelato domestico di Pio VI e governatore di Camerino e Fermo, e Giuseppe (n. 1750), che a venti anni entrerà al servizio di Carlo di Borbone.
La famiglia era di antica origine bolognese e, trasferitasi in Ravenna nel 1440, conservava un certo legame coi rami bolognesi per essere stata nel '600 reintegrata in quella cittadinanza grazie a Giacomo, vescovo di Cesena. La nonna, Laura Gottifredi, era di origine romana ed educato nel Collegio Romano era stato il padre Costantino, cugino di Giuseppe Ginanni, che, rimasto orfano in giovane età, molto doveva al Fantuzzi della sua educazione. La famiglia era piuttosto agiata, con palazzo cittadino e tenute rurali e aveva parte rilevante nell'amministrazione ravennate, con buone tradizioni di studio. L'anno stesso della nascita del F., dopo essere stato prelato domestico di Clemente XII, lo zio Gaetano Fantuzzi era creato dal nuovo pontefice Benedetto XIV monsignore e uditore di rota per Ferrara, città di cui pure i Fantuzzi avevano la nobiltà, insieme con quella di Roma e di Adria.
Fino a 14 anni il F. rimase in famiglia, educato presso i teatini. Tra coloro che in Ravenna più influirono sulla sua educazione furono l'erudito G.A. Pinzi, il naturalista Giuseppe Ginanni, cugino del padre e di cui più tardi avrebbe curato in Roma la pubblicazione dell'opera sulle pinete, e il giureconsulto A. Ziraldini (1725-85). Nel 1754 fu inviato a Roma a completare la sua formazione presso lo zio mons. Gaetano che, ancora semplice uditore di rota, conduceva vita di studio molto ritirata e passava per filogiansenista, sebbene nelle sue tarde memorie il F. tenda a negare una sua adesione al "partito". Presso di lui sarebbe rimasto ben sedici anni e vi avrebbe conosciuto i filippini A. Micheli e C. Massini, l'ab. F. Zanotti di Savignano, l'ab. A. Bartoletti, P. F. Foggini, sostituto di G. G. Bottari nella biblioteca Corsini, e, soprattutto, l'agostiniano romagnolo A. A. Giorgi, che divenne suo maestro di greco. Il F. stesso ammise di aver partecipato a conversazioni in cui si attaccavano apertamente i gesuiti e dove non mancavano anche laici di orientamenti regalistici come i nobili piemontesi C. de Gros e Capriata. È certo quindi che egli partecipasse in questi anni del clima di tolleranza e libera discussione favorito da Benedetto XIV, conoscendo tra gli altri anche G. C. Amaduzzi di Savignano e C. Ruggeri di Sant'Arcangelo, il camaldolese M. Sarti, mons. G. Garampi, personaggi pure vicini ai circoli giansenistizzanti. Il mutamento di clima sotto Clemente XIII e la nomina dello zio Gaetano a cardinale (1759) allargarono notevolmente la sfera delle relazioni di cui anche il F. poteva godere e verosimilmente indussero i Fantuzzi ad una maggior cautela sulla questione gesuitica.
Da Annibale degli Abbati Olivieri, pesarese, cugino del cardinale ed anch'egli a lungo suo ospite, il F. fu definitivamente indotto alla erudizione storica con l'avvio delle sue raccolte documentarie ravennati e su suo influsso fu ricondotto ad una più equa considerazione dei gesuiti, ripensamento in cui giocò un ruolo notevole anche l'amicizia con Gaetano Marini che pure contribuì molto a confermarlo nell'erudizione e nella serietà degli studi. Negli anni romani completò anche il suo apprendistato di diritto e finì per conoscere a fondo gli ambienti curiali, entrando tra l'altro, dal 1761, in amicizia col barone M. D. de Saint-Odile, ambasciatore granducale e valente agronomo ed economista.
Insomma, tra Ravenna e Roma, il giovane F., pur senza conseguire alcun titolo accademico, poté formarsi una poliedrica educazione, fatta più di impegno studioso e morale e di conoscenza pratica di uomini e cose che di grandi aperture teoriche, elementi che, rientrato a Ravenna e subentrato al padre nel Consiglio cittadino il 7 dic. 1765, poteva mettere a frutto tanto nella gestione della cosa pubblica quanto negli affari privati acquisendo rapidamente un'autorità che era legata sia alla ampiezza e qualità delle parentele locali sia al continuativo rapporto con Roma e con lo zio Gaetano, come cardinale "nazionale", naturale protettore della Romagna e di Ravenna, incarico ufficialmente attribuitogli dalla Comunità il 28 genn. 1771. Nel 1767 in particolare il F. era diventato membro del Magistrato cittadino e la delicatezza degli incarichi subito affidatigli attesta come egli vi assumesse immediatamente un ruolo direttivo.
Dopo un prolungato dibattito tecnico-giuridico e nonostante le esitazioni di Clemente XIII, nel 1767, anche per la pressione della carestia in atto, i Bolognesi erano riusciti a strappare col piano di G.A. Lecchi l'approvazione dell'inalveazione del Reno e degli altri torrenti in Primaro e la sua arginatura destra. Durante la visita di P. P. Conti la Romagna, con L. Ximenes, si era opposta a tutte le soluzioni prospettate, sostenendone la generale insicurezza ed anzi che il maggior afflusso di acque avrebbe aggravato la già pesante situazione idraulica della Legazione. Ciononostante ora si imponeva silenzio alle opposizioni e Ravenna era chiamata a contribuire per 20.000 scudi ai lavori di arginatura del Primaro per 13 miglia, lavori diretti da mons. I. Boncompagni Ludovisi, prolegato di Bologna e commissario apostolico alle Acque delle tre legazioni. Ma la Romagna riprese la resistenza passiva ed anzi il F. ed il marchese Carlo Cavalli furono incaricati di portare a Bologna (maggio-giugno 1768) la protesta ufficiale. Lo scontro col Boncompagni, in difficoltà per altre numerose resistenze, per la mancanza di copertura economica e per divergenze con la stessa assunteria d'Acque bolognese, che di fatto aveva preso la direzione dei lavori, fu duro. Il F. avanzò una relazione tecnica negativa di G. Guarini e insistette sul debito pubblico ravennate (scudi 458.050 per scudi 15.000 annui di interessi), sulle ingenti spese d'acque (600.000 scudi negli ultimi 30 anni), sui pesanti pesi camerali, sull'enormità dei privilegi ecclesiastici, e, nonostante le minacce dei Boncompagni, ottenne la temporanea sospensione della specifica esigenza, sebbene poi anche la Romagna fino al Lamone venisse assoggettata alla comune tassa idraulica per i lavori in corso.
Di certo la recente carestia, con le provviste di grani ed i nuovi debiti, e i lavori d'acque non facevano che mettere in evidenza una situazione di dissesto politico-amministrativo della Romagna, e specificamente di Ravenna, già inveterata. La molteplicità e frammentarietà delle disposizioni legislative in materia tributaria e amministrativa, la divisione dell'autorità tra magistrature civiche, legati e loro cancellerie, tesorieri rappresentanti della Camera apostolica, finivano per favorire le sperequazioni e i privilegi. Il problema centrale era pertanto quello della riorganizzazione dell'amministrazione finanziaria e del risanamento del debito pubblico e non già con nuovi pesi sulle classi più deboli e sui ceti civili esausti (nella carestia si erano avuti 6.000 morti, i coloni si erano indebitati ed erano costretti alle giovatiche mentre gli stessi padroni erano immiseriti; in Ravenna quasi la metà dei 12.951 abitanti era mendica) ma chiamando a contribuire i grandi privilegiati che, in Ravenna, erano soprattutto i forestieri e le quattro grandi abbazie di Porto, Classe, S. Vitale e S. Giovanni Evangelista. Inoltre anche all'interno della Legazione il carico andava ridistribuito: Ravenna pagava annualmente alla Camera apostolica scudi 29.658 che costituivano 1/2 del tributo romagnolo mentre la sua popolazione era soltanto 1/5 e la sua semina 1/20. Di tale somma pochissimo si ricavava dai fabbricati, scudi 10.839 da dazi e gabelle, scudi 18.439 dalle terre estimate, ma appunto ben 1/3 del territorio era posseduto dalle quattro abbazie esenti che in luogo di pagare scudi 6.000 dovuti per le loro 47.101 tornature ne pagavano appena 800 e per di più si sottraevano anche ai tributi d'acque, e ciò mentre il problema idraulico diveniva più pressante. Anonimi memoriali, redatti o ispirati dallo stesso F., accusavano inoltre le abbazie di numerosi abusi in materia d'acque, bonifiche, pascoli, devastazione di pinete, pesche e più in generale abusi di potere. Era inevitabile che il Consiglio di Ravenna desse proprio al F. il 25 nov. 1769 particolare mandato di promuovere gli affari pubblici, camerali e d'acque. Il cardinale suo zio era stato disponibile al concordato con le corti ed alla tassazione degli ecclesiastici, era stato anzi a lungo nel recentissimo conclave il più probabile papabile e sotto il nuovo pontefice Clemente XIV Ganganelli si parlava di lui come futuro datario.
Circa le acque il F. sarebbe giunto nel 1771 alla proposta di una nuova capitolazione, mentre circa lo scontro avviato con le quattro abbazie egli sembrò inizialmente godere l'appoggio del cardinal legato V. Borromeo. Nel febbraio del 1770 il F. era a Roma e tra l'altro ne profittava per togliere all'ab. G. Gold l'agenzia di Ravenna per assumerla direttamente senza stipendio, assegnandola più tardi, nel 1773 al forlivese ab. F. Canestri, uditore dello zio. In particolare il 16 maggio indirizzava al pontefice una supplica e riuscì a ottenere il 13 sett. 1770 l'istituzione di una congregazione particolare sugli affari ravennati per la quale preparò un voluminoso sommario e scritture legali redatte con l'avv. Guiducci, ma, nonostante un certo favore iniziale della congregazione, l'opposizione di mons. G. A. Braschi gli creò forti ostilità in quanto la Curia ganganelliana non era sensibile ad una reale riforma dello Stato e dell'amministrazione. I suoi incontri col segretario di Stato L. O. Pallavicini furono negativi, tanto che sul finire del 1771 lasciava Roma, dopo che il 25 nov. 1771 aveva rinunciato agli incarichi conferitigli mentre, auspice il card. Borromeo, tra la città e le abbazie veniva raggiunto un compromesso favorevole a queste ultime (1772).
Queste vicende segnarono il distacco del F. ed anche dello zio cardinale da Clemente XIV e l'assunzione di un atteggiamento critico anche sul problema gesuitico. Nel 1774 il cardinale, a cui era stato anteposto V. Malvezzi nella Dataria, avrebbe redatto un voto sull'"eventualità" della pazzia del papa e su ciò che avrebbe dovuto fare il S. Collegio, consegnandolo al cardinale decano, e disapprovò il breve sulla soppressione dei gesuiti, decisa senza alcun processo ecclesiastico e senza consultazione dei vescovi e del S. Collegio, e ancor più i modi della soppressione. Alla morte di Clemente XIV egli, di nuovo papabile, chiamò a Roma il nipote per il conclave che invece vide l'elezione del card. G. A. Braschi, col quale entrambi erano stati in urto, e sebbene il cardinale Fantuzzi non ne osteggiasse apertamente la nomina se ne mostrò insoddisfattissimo. Nelle sue tarde memorie il F. manterrà su Pio VI un duro giudizio per l'insensibilità ai problemi morali e religiosi del tempo e la preoccupazione esclusiva per i benefici e gli introiti della Curia, l'esclusivo economicismo, ma in realtà proprio lui doveva divenire più tardi una sorta di primo ministro di Pio VI in Romagna. Dopo nuovi viaggi a Roma nel 1775, 1776, 1777 e dopo la morte dello zio cardinale, che si era quasi ritirato a vita privata (1° ott. 1778), il F. ebbe un primo momento di convergenza-divergenza con Pio VI a proposito del nuovo catasto.
Quella della perequazione tributaria attraverso il catasto era un'idea già sostanzialmente emersa nei dibattiti del 1768-72 ed era mantenuta viva dai dibattiti e dalla tassazione idraulica. Non a caso, dopo l'esempio teresiano in Lombardia, se ne era discusso ampiamente negli stessi anni anche in Bologna, per allora senza risultati ma comunque con una generale misurazione della pianura per scopi idraulici. A Ravenna una sorta di catasto tradizionale c'era, ma antiquato, con innumerevoli esenzioni che aggravavano notevolmente gli altri contribuenti. Il F. fece accatastare e rilevare in pianta le valli oltre Reno e quelle di Longastrino e venne progettando un catasto sistematico che assoggettasse anche le quattro abazie e gli stessi membri del Consiglio generale, formulandone un piano che comprendeva l'intero territorio (salvo valli, pinete, staggi) dividendo i terreni in otto qualità: arativo arborato vitato, arativo nudo, prativo (nelle qualità buona, mediocre, infima), sabbioso, sabbioso pascolivo, valletta, valle da canna, valle fondiva. Una tassa provvisionale di mezzo baiocco per staro d'estimo sarebbe durata fino al completamento del catasto, da realizzare con regolari mappe. Ma il progetto del F. (analogo a quello adottato più tardi a Bologna) fu vanificato dal piano catastale di Pio VI del 15 dic. 1777, relativo a tutto lo Stato ad eccezione di Ferrara e Bologna, che era ispirato da criteri più arretrati e si basava ancora su denunce e stime puramente descrittive che si prestavano all'eternamento di omissioni, abusi, diseguaglianze, tanto più che erano affidate alla rilevazione delle singole Comunità che sicuramente avrebbero adottato criteri diversi.
Già precedentemente il F. si era impegnato nella riforma della finanza ravennate: aveva tolto diverse tasse che aggravavano le arti; aveva cercato di conseguire, ma con limitato successo, la riforma dei dazi sui generi che aggravavano il popolo e limitavano il mercato interno e rendevano gli stessi dazi difficilmente appaltabili (1772); aveva favorito la riscossione dei crediti e, ripetutamente eletto deputato alle Liti, terminato diverse cause (nel 1769 coi Calcagnini che si eternava dal 1692; coi possidenti forlivesi per la colta forestiera; per la soppressione del distretto privilegiato di Sant'Alberto nel 1776), aveva curato gli appalti, diminuito le spese, conseguendo in tal modo avanzi impiegati nell'estinzione del debito, che in otto anni fu di circa 200.000 scudi con un avanzo annuo di 15.000 scudi. L'estinzione del debito pubblico, lo sgravio dei generi, il pareggio corrente e il conseguimento di avanzi per investimenti sembravano a portata di mano, ma tutto doveva risultare vanificato e lo stesso F. doveva abbandonare la cosa pubblica.
La causa principale di tale abbandono sarebbe stata originata, secondo lo stesso F... dal discorso che egli tenne in occasione dell'ingresso del nuovo cardinal legato L. Valenti Gonzaga e della sua aggregazione alla nobiltà ravennate il 23 dic. 1778. Alle ovvie lodi al legato infatti il F. aggiunse una sorta di programma delle cose da riformare (dalle acque alla bonifica delle valli. dal porto alle condizioni dei contadini) che fu avvertito dal cardinale e dai suoi ministri come una indebita ingerenza e una critica.
Più in generale però si può ritenere che l'abbandono degli affari pubblici da parte del F. (l'abbandono ufficiale del Magistrato è però solo del 1782) fosse connesso anche con la recente scomparsa dello zio che aveva avuto il protettorato della Romagna e con la reazione alla larvata dittatura che grazie a ciò egli aveva forse esercitato per un decennio sugli affari ravennati, nonché con una tardiva rivalsa dello stesso Pio VI, forse in parte connessa anche alle critiche mosse al suo piano catastale.Il F., che nel 1777 aveva sposato la contessa Anna Del Como, dopo il suo ritiro fece lunghi soggiorni nella tenuta di Gualdo dedicandosi ancor più alla valorizzazione del patrimonio privato in permute e compravendite di razionalizzazione fondiaria per dare unità alle tenute, ristrutturare i poderi, realizzarvi alzamenti e livellazioni di terreni, arginature, scoli, ponti, piantamenti, vie poderali, in un'azione che si sarebbe protratta per oltre due decenni e avrebbe portato all'investimento di oltre 20.000 scudi nella tenuta di Gualdo in migliorie e fabbricati e spese quasi altrettanto rilevanti nella tenuta di Castelnuovo, dove intraprese un consistente allevamento.
Piantò viti e alberi da frutto, introdusse nuove sementi, tentò l'impianto dell'allevamento e dell'industria casearia di tipo svizzero, il miglioramento della bachicoltura e della trattura della seta, il perfezionamento della raffinazione dell'olio secondo le tecniche lucchesi, dell'enologia secondo modelli toscani, l'introduzione con sifoni dell'irrigazione e delle colmate. Non tutte queste iniziative - per ignoranza di dipendenti, resistenza di popolazioni o difficoltà ambientali - incontrarono successo così come, nel 1788, un sostanziale fallimento fu il tentativo di sfruttamento con privativa di commercializzazione per dodici anni delle miniere di lignite di Soliano dove fece scavare pozzi e gallerie, costruire case operaie, erigere fabbriche per la fusione del ferro e del rame e per il cremor di tartaro, investendovi circa 8.500 scudi, ma incontrando difficoltà insuperabili nella stessa scarsità del giacimento. Il F. era anche castellano comandante della torre e porto di Primaro e di una compagnia di milizie di 120 uomini. Il ritiro dalla vita politica favorì anche un suo impegno negli studi eruditi che dovevano poi confluire nei Monumenti ravennati.
L'occasione d'un riavvicinamento a Pio VI e del ritorno agli affari pubblici era venuta intanto nel 1786. Il F. fu incaricato dell'estensione della storia della famiglia del pontefice (De gente Honestia, Cesenae 1786) e Pio VI, che non era insensibile all'adulazione e al nepotismo, lo nominò nell'agosto sovrintendente generale alle Finanze e Dogane di Romagna, senza dipendenza dal legato, compito che egli avrebbe mantenuto per dieci anni senza stipendio alcuno e che lo avrebbe posto in diretto contatto con la Curia e con gli economisti ad essa legati, come il Vergani.
La formazione di un mercato interno unificato e di una cinta doganale ai confini era stata promossa con chirografo di Pio VI del 26 apr. 1786 e aveva il suo principale fautore nel tesoriere mons. Fabrizio Ruffo, verso il quale, negli anni tardi, il F. non mancherà di accenni critici come mero "economista". L'obiettivo era la protezione della economia nazionale con tardi intenti mercantilistici che in realtà evidenziavano l'ormai avanzato collasso dello Stato stesso, largamente dipendente dalle importazioni estere. Del resto gli stessi principi enunciati subirono ben presto significative restrizioni: Bologna e Ferrara rimasero escluse come Stati esteri, pur libere di commerciare con lo Stato; a Roma furono applicati dazi speciali; si conservarono provvisionalmente dazi interni sui generi dato che da essi in larga misura dipendevano le entrate cittadine; si previdero indennizzi per le Comunità e per vari tipi di privilegiati. Le resistenze inoltre erano enormi: dei possidenti "compradori" danneggiati dalle nuove tariffe, dei mercanti che per lo più praticavano l'intermediazione parassitaria ed erano poco propensi a divenire produttori, dei molti privilegiati ed anche dei molti prelati e ministri delle dogane stesse, di curiali provinciali e tesorieri e loro collegati che dagli antichi particolarismi avevano tratto vantaggio.
Il F. raccolse la sua esperienza doganale nella Memoria sul sistema delle dogane ai confini dello Stato pontificio del 1791, auspicando la piena estensione della riforma anche alle Legazioni di Ferrara e Bologna. L'unità doganale era momento di affermazione dello Stato, di razionalizzazione amministrativa e di perequazione fiscale tra le province ed i ceti, di incoraggiamento dell'agricoltura e dell'industria. Nel 1792, per vincere difficoltà e resistenze, il F. suggerì poi il generale appalto delle dogane ai confini, in un periodo in cui la maggior parte degli scrittori economici riformatori riteneva ormai esaurita la funzione delle ferme generali. Alle molteplici resistenze inoltre continuava a far riscontro l'indeterminatezza della Curia nell'applicazione col mantenimento degli indennizzi a privati, tesorieri, Comunità, luoghi pii, e in effetti per questo il F. (che in particolare con tre memorie confutò gli indennizzi alle Comunità) entrò in contrasto con lo stesso Ruffo e gli scrittori curiali o con potenti personaggi come il tesoriere A. Gnudi, che promosse a sua volta scritti contro le sue memorie. Il F. redasse anche numerose altre memorie tecniche sul territorio e l'economia della Romagna, spaziando dall'agricoltura e dal commercio dei grani alla produzione, manifattura e commercio della canapa e della seta; dalle acqueviti ai bestiami ed al pesce, dai legnami e dalle miniere alle più diverse fabbriche; dalle barche e dai porti alla navigazione marittima ed interna, alle strade ed ai contrabbandi. Mettendo a frutto questa esperienza, nell'agosto del 1795 conseguiva anche la presidenza delle strade consolari di Romagna. Ma la riforma doganale risultò un sostanziale fallimento: oltre alla defezione di Bologna restava l'eccessiva minuzia delle tariffe, l'inaffidabilità dei ministri, la resistenza delle popolazioni e delle Comunità, l'ostilità dei tesorieri e degli stessi legati e delle loro cancellerie. Lo Stato del resto non riusciva a dotarsi di un minimo di apparato burocratico-militare efficiente e queste tendenze disgregatrici dovevano emergere ancor più nelle circostanze della Rivoluzione e dell'invasione francese.
Nel settembre del 1796 il F. fu chiamato a dirigere come commissario generale delle truppe di Romagna gli apprestamenti difensivi, ma la scarsezza e disorganizzazione delle truppe, la mancanza di un armamento adeguato e di preparazione e affidabilità degli ufficiali dovevano presto fargli capire l'insostenibilità della situazione. Consigliò la trattativa anche se finì per accettare lo scontro e, dopo la battaglia del Senio del 2 febbr. 1797 e la fuga del legato, mantenne la provincia come questore. Sfuggito all'arresto da parte del governo rivoluzionario sostenuto dai Francesi, riparò con l'erario e i documenti ad Ancona, e quindi, attraverso la Puglia e Napoli, si portò a Roma, dove però non ebbe le accoglienze che si aspettava. Dopo la costituzione della Repubblica Romana non accettò però neanche l'invito del nuovo governo repubblicano ad entrare a far parte dell'amministrazione -, ritirandosi a vita privata in esilio. Il 19 febbr. 1798 rinunciò anzi alla cittadinanza ravennate per quella austriaca e nel marzo lasciò Roma per riparare a Venezia.
Gli eventi rivoluzionari e ultimi, con i danni conseguenti anche per la sua famiglia ed i suoi beni, avevano impresso al suo pensiero una netta svolta reazionaria. Riandando al passato egli vedeva ora l'inizio della disgregazione insorgere fin dagli anni di Benedetto XIV (che pure gli sembrava una sorta di età aurea) e poi dilagare nella diffusione del giansenismo, del filosofismo, della massoneria, dello stesso economicismo, al quale ultimo indubbiamente aveva aderito, ed in particolare vedeva come evento cruciale negativo la soppressione della Compagnia di Gesù. Le circostanze del conclave di Venezia gli fecero sperare nella possibilità di una prossima restaurazione dello Stato pontificio di cui aspirò a divenire la mente ispiratrice con diverse memorie economiche e politiche redatte nel 1799-1800 che non vennero neppur lette dai conclavisti e rimasero manoscritte.
Per quanto egli divenisse di giorno in giorno più reazionario ed incapace di capire i tempi, mitizzando una presunta pietà e giustizia del tempo passato, tanto nelle memorie per la restaurazione dello Stato che nelle contemporanee Memorie dei fatti dei miei tempi, rimaste pure manoscritte, non poteva non riconoscere il processo di disgregazione che da lungo tempo travagliava lo Stato, l'insipienza e la corruzione di molti ambienti curiali e anche di alcuni pontefici, compreso lo stesso Pio VI con cui aveva collaborato. Non poteva nascondersi soprattutto che il passato regime ecclesiastico sapeva di venalità e di rapina sicché una eventuale restaurazione avrebbe dovuto porsi il problema di una corretta amministrazione, con bilanci regolari e ministri fidati e adeguatamente stipendiati, con una netta distinzione dell'apparato amministrativo da quello giudiziario. Però, come ha notato il Dal Pane, il pensiero del F., non privo di una sua coerenza morale, diveniva sempre più contraddittorio e sostanzialmente illogico e impolitico, incapace di cogliere i nessi tra economia e istituzioni politiche e costume, tutto rivolto al vagheggiamento di uno Stato di giustizia e di pietà concepito come una ben regolata famiglia, dalle strutture il più possibile semplificate e sostanzialmente agricole, estranee non solo alle nuove idee politico-filosofiche ma anche ai movimenti profondi dell'economia che tendevano ad una maggior complessità speculativa e capitalistica. Contraddicendo il suo stesso passato, il F. anzi condannava anche la nuova scienza economica e l'eccessiva estensione del commercio, vagheggiando il ritorno allo scambio diretto tra produttore e consumatore, la drastica limitazione del commercio estero ed interno e, solo, da aristocratico possidente, auspicando il potenziamento dell'agricoltura sebbene, con un certo populismo, non trascurasse il miglioramento delle condizioni dei contadini e l'abolizione delle imposte sui generi.
Gli ultimi anni della vita del F., e specificamente gli anni veneziani, sono in gran parte rivolti a fissare la sua immagine di buon cittadino. Tra l'aprile 1801 e il marzo 1804 pubblicò a sue spese i sei volumi in 40 dei Monumenti ravennati dei secoli di mezzo, che era venuto raccogliendo fin dalla prima giovinezza lamentando anzi la mancanza di un'opera di sintesi storica adeguata. Sempre a sue spese fece stampare nel 1804 le Memorie di vario argomento, scelta di 30 delle più significative delle 235 memorie conservate (altre erano andate bruciate o perdute nella fuga), che costituiscono una sintesi dei suo operato pubblico, una difesa dell'onestà e coerenza del suo operato. Rimasero invece inedite le varie memorie di cose accadute a lui e alla famiglia "in occasione della Democrazia" e le Memorie dei fatti dei miei tempi, con cui, valendosi della propria ampia esperienza personale, ripercorreva gli avvenimenti romani degli ultimi cinquant'anni, in genere con giudizi estremamente puntuali su uomini e fatti anche se non poco compromessi dalle preoccupazioni moraleggianti e conservatrici in cui si inserivano. Nel 1802 era di nuovo a Firenze, dove scriveva la vita dell'amico pesarese Giovanandrea Lazzarini, e quindi di nuovo a Venezia e a Pesaro, città della moglie, dove si spegneva il 10 febbr. 1806.
Opere: La maggior parte delle oltre 235 memorie scritte dal F. restò inedita e, a parte quelle perdute negli eventi rivoluzionari, si conserva nell'Archivio Fantuzzi, nel palazzo di Gualdo, a Savignano del Rubicone, presso i conti Ginanni Fantuzzi. Tra esse in particolare vanno segnalate: Memorie del conte Fantuzzi; Memorie per la famiglia Fantuzzi in occasione della Democrazia (1797); Memorie sopra l'accaduto al co. Fantuzzi in occasione della Democrazia; Torti ricevuti dal co. Fantuzzi dalla città di Ravenna; Memorie economiche e politiche per lo Stato ecclesiastico (1799-1800); Memorie dei fatti dei miei tempi (1800); Memorie mie; Selva di memorie per formare la prefazione e la dedica alla città di Ravenna dell'opera Collectio monumentorum Ravennatium (1797). Del F. o scritte dal F. in collaborazione con altri sono le memorie per la causa con le quattro abbazie: Alla Sagra Congregazione particolare deputata dalla Santità di Nostro Signore Clemente pp. XIV ... Ravennaten. Per la Città di Ravenna. Sommario, Roma 1771; Alla Sagra Congregazione particolare deputata dalla Santità di Nostro Signore Clemente pp. XIV ... Ravennaten. Per la Città di Ravenna. Memoriale di fatto e di ragione, ibid. 1771; Alla Sagra Congregazione particolare deputata dalla Santità di Nostro Signore Clemente pp. XIV. Per la Città di Ravenna. Pro Memoria, ibid. 1771; Alla Sagra Congregazione particolare deputata dalla Santità di Nostro Signore Clemente PP. XIV... Ravennaten. Per la Città di Ravenna. Risposta con sommario in calce, ibid. 1771; Per l'aggregazione dell'eminen. cardinale Luigi Valenti Gonzaga legato della Romagna alla Nobiltà di Ravenna. Orazione del conte M. F. nel pubblico General Consiglio il dì 23 dicembre 1778, Ravenna 1778; De gente Honestia, Caesenae 1786; Monumenti ravennati de secoli di mezzo per la maggior parte inediti, Venezia 1801-04; Memorie di vario argomento, s. l. 1804.
Fonti e Bibl.: Oltre che nell'archivio Fantuzzi citato, documenti per ricostruire la vicenda pubblica del F. si trovano nell'Archivio storico comunale di Ravenna, nei fondi Cancelleria e Congregazioni del Magistrato e del Consiglio generale. Momenti più specifici sono rappresentati da Rime per le felicissime ed applauditissime nozze del nobile uomo il signor conte M. F. e la nobile donna la signora contessa Anna del Corno, Faenza 1777; F. Mordani, Vita dell'illustre ravegnano M. F., brevemente descritta, in Giorn. arcad. di scienze, lettere ed arti, LX, Roma 1833, pp. 232-237; Id., in Biografia degli ital. illustri..., a cura di E. De Tipaldo, II, Venezia 1835, pp. 52 ss.; Id., Vite di ravegnani illustri, Ravenna 1837, pp. 220-227; Id., Vita di M. F. ravegnano, in Prose, II, Bologna 1847. Nel nostro secolo il maggior divulgatore della vita e dell'opera del F. è stato, con ripetuti scritti, L. Dal Pane, che ha pubblicato anche parte delle memorie inedite: L. Dal Pane, Idee e riforme economiche del Settecento nello Stato Pontificio secondo le memorie di M. F., estratto da Studi in onore di M. Barillari, Bari 1936; Id., Ilconte M. F. e il movimento riformatore nello Stato pontificio, in Rass. stor. del Risorg., XXV (1938), pp. 147-178, 295-322, poi in Id., Lo Stato Pontificio e il movimento riformatore del Settecento, Milano 1959, pp. 301-354; Id., Introd. a M. Fantuzzi, Memorie dei fatti dei miei tempi, I, Bari 1938; Id., Benedetto XIV e una memoria inedita del co. M. F., in L'Archiginnasio, LII (1957), pp. 32-63; Id., Lo Stato pontificio e il movimento riformatore, cit., ad Indicem, in cui sono pubblicate anche altre memorie inedite del Fantuzzi. Ulteriori contributi sono venuti da E. Piscitelli, La riforma di Pio VI e gli scrittorieconomici romani, Milano 1958, ad Indicem, e da F. Venturi, Elementi e tentativi di riforme nelloStato Pontificio del Settecento, in Riv. stor. ital., LXXV (1963), pp. 778-817. Utilizza con qualche ampiezza giudizi del F. V. E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna 1971, ad Indicem; recenti utili puntualizzazioni in P. Bellettini, Finanze e riforme. Ravenna nel secondo Settecento, Ravenna 1983, e in C. Casanova, A proposito di un'impresa di M.F. Alcune notizie sull'attività serica in Romagna nel Settecento, in Studi romagnoli, XXXV (1984), pp. 295-311.