CORNER, Marco
Nacque a Venezia nel 1482 da Giorgio del cavalier Marco e da Elisabetta Morosini di Francesco.
Il padre, fratello di Caterina, allora regina di Cipro, era destinato a diventare, nel giro di qualche anno, uno dei protagonisti del mondo politico ed economico veneziano, al punto che, nel timore che la propria potenza potesse dare adito a sospetti o gelosie, fece sposare ben tre dei numerosi figli, così da suddividere fra più rami l'immenso patrimonio; altri due furono distolti dall'attività politica ed avviati alla carriera ecclesiastica, che onorarono con la porpora cardinalizia.
Il C. l'ottenne per primo, il 28 sett. 1500, quando era già protonotario apostolico; l'operazione costò 15.000 ducati. Il C., cui venne assegnato il titolo di S. Maria in Portico, non poté tuttavia ottenere quello di commendatore di Cipro, cui da tempo aspirava e per il quale aveva già ottenuto un consenso di massima sia da parte pontificia sia dal Consiglio dei dieci e dallo stesso gran maestro di Rodi. Cercò ancora invano, per tre anni, di entrare in possesso del beneficio, che comportava notevoli rendite, ma il giuspatronato rimase per allora alla famiglia Malipiero, e solo nel 1588 pervenne definitivamente ai Corner, che lo tennero fino alla caduta della Repubblica. Il C. riuscì invece, nel marzo 1501, a conseguire un canonicato a Padova e, di lì a qualche mese, il possesso dell'abbazia di S. Zeno a Verona e di quella di Carrara, nel Padovano, con un'entrata complessiva di 3.000 ducati: prebende che sarebbero rimaste a lungo nella famiglia, trasmettendosi da una generazione all'altra.
In margine a tanta sete di prestigio sociale ed economico, il C. non mancò di provvedersi di una cultura universitaria. "Costumato garzon" era invero apparso al Sanuto già in occasione del conferimento del titolo cardinalizio, ma gli studi condotti a Padova, negli anni che seguirono, non riuscirono ad acuirne le doti intellettuali, giacché su questo piano il C. rimase sostanzialmente un mediocre: prelato istruito e raffinato, ma irrimediabilmente sordo ad ogni autentico stimolo culturale, come pure ai vivaci fermenti spirituali così presenti a tanti suoi contemporanei.
Mancata, alla fine del marzo 1503, l'elezione a vescovo di Cremona, un mese dopo il C. otteneva da Alessandro VI la promessa della ben più ricca e prestigiosa sede veronese. Di lì a poco, tuttavia, Alessandro moriva, e il ventunenne cardinale giungeva a Roma, alla fine di agosto, con un seguito di sessanta persone. Qui si fermò sino a tutto il breve pontificato di Pio III, indi partecipò attivamente all'elezione di Giulio II, con cui era in rapporti di familiarità e dal quale ottenne la conferma del vescovato di Verona (29 novembre).
Nulla lasciava prevedere, sullo scorcio del 1503, il ruolo che il nuovo papa avrebbe assunto nei confronti della Repubblica veneta: la sua stessa richiesta di ottenere la restituzione di Imola doveva piuttosto sembrare una sorta di formalità, un atto largamente scontato da chi all'inizio del pontificato voleva soprattutto ribadire il buon diritto della Santa Sede a rivendicare una sua proprietà; perciò il C., nell'estate del 1504, ritenne di poter lasciare Roma in tutta tranquillità e tornarsene in patria.
Oltretutto, nel Lazio serpeggiava la peste: quale miglior occasione per far visita al suo vescovato, e celebrare così l'ingresso nella diocesi? Questo avvenne il 3 novembre, con ogni possibile dimostrazione di gioia e di solennità: nella circostanza, il C. decise il restauro della cattedrale e la costruzione della mensa, da lui detta Cornelia. Negli anni che seguirono, il cardinale si divise tra Roma e Venezia, laddove pensava di ottenere nuovi benefici: nominato patriarca di Costantinopoli nel luglio 1506, l'anno dopo ottenne l'abbazia di Cerreto di Crema, che comportava una rendita annua di 2.000 ducati; nel 1508, infine, divenne legato del Patrimonio.
Andavano maturando, intanto, gli accordi di Blois: nel marzo 1509 notava il Sanuto: "intesi il papa aver fato congregation … ; et chiamò tutti cardinali nostri nimici, e non chiamò ni il Grimani ni il Corner ni altri nostri, ch'è mal signal". Venne la giornata di Agnadello: al doge, che implorava perdono ("si quid erratum est, illata poena omne superavit demeritum nostrum"), il C., congiuntamente al collega Domenico Grimani, rispose "come il papa era più incrudelito che mai contro la Signoria nostra, chiamando venetiani heretici e sismatici". Da parte dei cardinali veneti, questo significava rinunciare, almeno per il momento, a una qualsiasi mediazione tra Venezia ed il pontefice, ma il C. - il cui padre era stato provveditore in campo nel corso delle operazioni militari - fece ancor di più: "gran disdita questi Corneri", notava amareggiato il Sanuto nel riferire che "Il cardinal Corner, inteso la rota dil campo nostro, a Roma, andò a zena con li cardinali francesi".
In effetti, all'indomani di Agnadello, sia al C. sia al più autorevole ed ascoltato Grimani mancavano assolutamente gli spazi politici per intervenire efficacemente presso il pontefice, ma la situazione - come è noto - non tardò ad evolversi in favore della Repubblica, e a partire dall'agosto 1509 i due cardinali ritennero possibile iniziare una lenta, ma continua opera di mediazione fra la Serenissima e la Santa Sede, che culminò in quello che si può considerare il maggior successo diplomatico del C. (il Grimani, a motivo delle precarie condizioni di salute, rivestì un ruolo di secondo piano nella parte conclusiva delle trattative), e cioè la revoca della scomunica impartita da Giulio II alla Signoria: atto, questo, che sanciva implicitamente il riavvicinamento politico delle due corti.
Così, in una lettera al padre del 24 febbr. 1510, riportata dal Sanuto, il C. poteva narrare la solenne accoglienza rivolta dal papa ai sei ambasciatori straordinari inviati dalla Repubblica per l'occasione, e concludere, con trasparente soddisfazione: "Tutta questa corte et Roma dimonstra haverne riceputo grandissimo piacer, con speranza ne habia a reussir molti boni effecti il che certo è da sperar per esser cossa molto honesta et laudabile ..., Li francesi dimostrano haver habuto questo molto a mal, e quasi era in opinione di non venir a tal acto; tamen sonno condescesi".
Il C. non mancò di sfruttare il successo sul piano personale; anziché tornare in patria o nella sua diocesi (oltretutto, fino al '17 la Terraferma veneta fu percorsa in continuazione da eserciti in armi), rimase accanto al papa, ponendosi come intermediario privilegiato nei rapporti con Venezia e seguendolo poi a Finale, presso Modena, nel corso delle operazioni militari contro i Francesi, nonostante le poco soddisfacenti condizioni di salute: tanto zelo fu ricompensato (agosto 1511)col beneficio dell'abbazia di Vidor, nel Trevigiano.
Alla morte di Giulio II la Repubblica cercò di avanzare la candidatura del Grimani al soglio pontificio, senonché trovò proprio nel C. un irriducibile avversario.
Tra i due prelati, infatti, non correva buon sangue. Lontani ormai i giorni della feconda collaborazione seguita ad Agnadello, l'autorità acquisita in Collegio dal Grimani (che era cardinale-vescovo, laddove il C. era semplicemente cardinale-diacono), ammiratissimo per l'eloquenza, la preparazione politica, la straordinaria erudizione umanistica e teologica non meno che per la liberalità e generosità, aveva suscitato l'invidia del C., il cui grigiore culturale e l'innata avarizia male si coniugavano con un'ambizione estrema.
Mancò dunque la collaborazione tra i cardinali veneti, ed il C. riversò i suoi voti sul Medici, che nel marzo 1513divenne papa col nome di Leone X. Non tardò, il Medici, a manifestare la sua riconoscenza al C., che il 9 marzo 1517 poté sommare al vescovato veronese quello, ancor più ricco ed importante, di Padova. Decise allora di tornare nel Veneto e si stabilì ad Asolo, nella villa che già era stata della zia, la rinunciataria regina di Cipro. A Padova fece il suo ingresso soltanto il 15 ag. 1521; alcuni giorni dopo, nella villa detta "del Barco", Ruzzante recitava in suo onore una Oratione in cui, a nome dei contadini, si reclamavano una serie di "leze e stratuti nuovi".
Al di fuori degli aspetti più propriamente comici, l'Oratione intendeva soprattutto proporsi come polemica contro la sterile erudizione accademica, dove il linguaggio dei villani rifaceva il verso alle pompose orazioni che qualche giorno prima le autorità padovane avevano rivolto al C.; ancora, bersaglio della critica ruzzantiana risultava la mania di collezionista del Grimani: e questo era soggetto che il C. doveva certamente gradire.
Al termine dell'estate il C. si recò a Venezia e di lì, il 25novembre, partì alla volta di Roma; fu informato della scomparsa del pontefice durante il viaggio. Partecipò quindi ai conclavi che portarono all'elezione di Adriano VI e ai Clemente VII. Dopo la morte del Grimani (agosto '23), andò a risiedere a palazzo Venezia e fu in contatto col Cellini, al quale commissionò alcuni lavori. Nell'estate 1524 corse a Venezia, a causa di una grave malattia del padre; la sua debole fibra non resse però alle fatiche del viaggio, e nella città lagunare venne a morte il 26 luglio 1524.
"Questa morte - annota il Sanuto - è stata di un gran personazo, havea de intrada da ducati 20milia ... et havia li infrascripti benefici: lo episcopato di Padoa, lo episcopato di Verona, l'abatia di S. Zen di Verona, l'abatia di Carara, l'abatia di Vidor, l'abatia di Santa Trinità di Verona, l'abatia di S. Gervaso di Brexa, il patriarcà di Costantinopoli, la legation di Viterbo, et uno priorà in Spagna et una abatia in Cypro".
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