PIACENTINI, Marcello
PIACENTINI, Marcello. – Nacque a Roma l’8 dicembre 1881, da Pio – uno dei più affermati architetti della capitale umbertina, autore del palazzo delle Esposizioni in via Nazionale (1880-82) – e da Teresa Stefani. Fin da giovanissimo coltivò l’interesse per l’architettura sotto la guida del padre e, ambizioso di apprendere, ne saccheggiò la preziosa biblioteca con quell’atteggiamento da autodidatta che lo preservò da ogni forma di dogmatismo. Così, già prima di conseguire la maturità classica presso il liceo Torquato Tasso (1900) aveva maturato una profonda conoscenza dell’architettura, corroborata attraverso i corsi serali del Museo artistico industriale, dove ebbe come maestro Alessandro Morani e come compagni di studi Adolfo De Carolis, Armando Brasini, Alberto Calza Bini. Lontano da ogni astratta indagine di ordine teorico, l’insegnamento era lì impartito nelle forme concrete legate all’effettiva consistenza della produzione edilizia, saldamente ancorata a una realtà professionale di abili maestranze artigianali.
Quasi preconizzando lo sviluppo della propria indagine progettuale, nel 1901 tenne una conferenza su Lo stile neo-classico e la sua applicazione in Italia (Roma, s.n.t., ma 1901, rist. Roma, s.d., ma 1938) presso l’AACAR (Associazione Artistica tra i Cultori di ARchitettura). Grazie al suo instancabile attivismo, l’anno successivo ottenne la pensione di architettura del Pio Istituto Catel e si aggiudicò il concorso Agostini bandito dalla Congregazione dei Virtuosi al Pantheon.
Nel 1906 conseguì a pieni voti il titolo di professore di disegno presso il Regio Istituto superiore di belle arti, dove «l’insegnamento consisteva soprattutto nel fare qualche saggio di composizione e nel riprodurre ad acquarello qualche pezzo dei più insigni monumenti classici o della Rinascenza […]. Il concetto di architettura, il metodo di insegnamento erano tolti di peso – ma in tono assai più modesto – dalla Scuola di Belli Arti parigina» (Il volto di Roma, 1944, pp. 148 s.). Nello stesso anno creò un sodalizio professionale con l’ingegner Giuseppe Quaroni, con il quale prese parte al concorso per il manicomio provinciale di Potenza, portato a termine nel 1915 nelle forme vicine al sobrio protorazionalismo di Josef Hoffmann, e al concorso per il risanamento della Fiera di Bergamo, per il quale mise a punto, con sapiente strategia insediativa, un progetto «aderente ai gusti e ai bisogni dei cittadini, basato sulla conservazione del paesaggio cittadino lungo le linee abituali, […] con porticati, piazzette, sottopassaggi e con edifici, quali alti, quali bassi, e di bassissimi per lasciare libera e godibile la vista del meraviglioso panorama della Città Alta» (Confidenze di un architetto, 1943, p. 57).
Fin da queste prime esperienze emergevano i caratteri fondanti del suo atteggiamento operativo: apertura verso le novità dei tempi moderni, rispetto per l’intima consistenza dei luoghi e una spiccata tendenza a strutturare intere compagini urbane. Desideroso di porsi quale arbitro del dibattito culturale, dal 1907 al 1912 sviluppò un’intensa attività di polemista e di critico militante, registrando attraverso agili scritti e brevi note apparse sulle pagine de Il Popolo romano, la cronaca artistica che galvanizzava la capitale.
Nel 1909 costituì la Società Pio e Marcello Piacentini, stabilendo lo studio professionale all’interno di palazzo Doria, in piazza Grazioli n. 6; in un decennio padre e figlio parteciparono a tre concorsi nazionali (Biblioteca nazionale di Firenze, 1906; sistemazione di piazza Colonna, Roma 1913; collegamento dei palazzi Capitolini, Roma 1913) e portarono a termine un gran numero di edifici definiti da compostezza formale e decoro borghese (villino Allievi in via Farnese angolo piazza Cola di Rienzo, 1909; villino Page in viale Regina Margherita, 1910; villa Berlingeri in viale Regina Margherita, 1915).
Aggiornatissimo sulle ultime sperimentazioni internazionali grazie ai ripetuti viaggi attraverso l’Europa del Nord (Germania, Francia, Olanda, Belgio), già a cavallo degli anni Dieci si distaccò dall’eclettismo tardo-ottocentesco che aveva assimilato nello studio paterno, introducendo con spregiudicatezza i nuovi etimi del moderno nelle residenze isolate per la ricca clientela borghese (villino Cumbo in via Palestro, 1907; villino Brugnoli in via Vesalio, 1909; villino Gasparri in piazza d’Armi, 1911-13; palazzina Allegri in via Nicotera, 1913-19) e negli immobili per appartamenti signorili (casa Garbugli in via Pierluigi da Palestrina, 1906-08; casa Maraini in via Vittoria Colonna, 1910; edificio in via De Pretis, 1914-17; casa per appartamenti in viale Regina Margherita 214, 1915-16).
Nel 1910 realizzò il padiglione italiano all’Esposizione universale e industriale di Bruxelles, per il quale vinse il Grand Prix in architettura e, forte del successo internazionale, l’anno seguente presiedette ai lavori per la celebrazione e i festeggiamenti per il I Cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia.
Presso piazza d’Armi realizzò il complesso delle strutture effimere: il foro delle Regioni, il palazzo delle Feste, il palazzo del Costume e il palazzo dei Cimeli, e nella centralissima piazza Colonna, al lato di palazzo Chigi, innalzò (con il padre) il teatro Colonna. In queste opere, dove il persistente eclettismo era riscattato da qualche eco liberty, era evidente la suggestione dell’ambiente romano e il riferimento alla stagione dei fasti barocchi, che Ugo Ojetti indicò come fondamento del nuovo stile nazionale (A Roma e a Torino. Per un’architettura italiana, in Corriere della sera, 8 agosto 1911).
Nello stesso anno vinse il premio speciale al concorso a inviti per il palazzo dell’Esposizione internazionale di belle arti nella piana di Valle Giulia (poi realizzato da Cesare Bazzani, vincitore del I premio).
Nel 1912 ottenne per equipollenza dei titoli la laurea in architettura civile alla Regia Scuola di applicazioni per ingegneri di Roma e venne nominato dal governo italiano sovrintendente per l’edilizia nei territori della Cirenaica; nell’arco di un biennio portò a termine una serie di lavori nella città di Bengasi (il Monumento all’entrata degli italiani, il grande albergo Roma, il palazzo del Municipio, la sede del Banco di Roma, il teatro Berenice, il progetto per l’edificio dei Telefoni), risolti con grande concisione, concretando la suggestione dei luoghi esotici in forme estremamente rarefatte.
Negli anni tra il 1913 e il 1914 mise in piedi un sodalizio professionale con Armando Brasini che si consumò nella proposta di concorso per la riconfigurazione del fronte settentrionale di piazza Navona, risolto nelle fastose forme del barocco trionfante. In piazza del Parlamento realizzò la sede della Banca d’Italia (1914-23), concependo un palazzo ‘alla romana’, polemica risposta alla mole ‘balneare’ innalzata da Ernesto Basile quale estensione del palazzo di Montecitorio.
Negli anni Dieci frequentò gli ambienti della Secessione romana, stringendo amicizia e rapporti di collaborazione con molti artisti: gli scultori Alfredo Biagini e Arturo Dazzi, i pittori Guido Cadorin e Matilde Festa (che sposò nel 1914 e dalla quale ebbe la figlia Sofia). Con gusto secessionista permeò la decorazione del teatro Quirino (1915), che riscosse grande favore all’interno della borghesia romana.
Nel 1915, in virtù dei suoi approfonditi studi e della consolidata esperienza maturata nel campo dell’edilizia cittadina, fece parte delle commissioni interne all’AACAR, incaricate della messa a punto del piano regolatore di piazza d’Armi e del quartiere Flaminio, e redasse il regolamento per l’insediamento di Ostia-Lido. Tenne inoltre una conferenza presso l’AACAR Sulla conservazione della bellezza di Roma e sullo sviluppo della città moderna (Roma 1916), dove espresse la necessità di preservare integralmente il centro urbano consolidato e di creare zone apposite di espansione all’interno delle quali dislocare le funzioni richieste dai tempi moderni. Nello stesso 1915 ottenne il I premio alla Panama-Pacific International Exposition di San Francisco, dove realizzò la ‘Cittadella italiana’, trasfigurando l’impianto spaziale del Campidoglio michelangiolesco nelle forme di quel revival pittoresco che nei primi tre decenni del XX secolo connotava le Esposizioni universali.
Negli anni della prima guerra mondiale, portò a compimento (con Giorgio Wenter-Marini), in piazza S. Lorenzo in Lucina, la costruzione del cinema Corso (1915-18), il cui modernismo richiamava – nei bovindi laterali, nel rigoglioso sviluppo di una fascia di stucchi e nella aerea pensilina in ferro e vetro tenuta da catene di ferro – gli etimi della Secessione viennese. L’adozione di forme artistiche importate dall’estero, per di più a ridosso del cinquecentesco palazzo Ruspoli, venne ritenuta altamente sconveniente nel teso clima bellico. A seguito di un’interrogazione parlamentare al progettista venne imposta la riconfigurazione della facciata a proprie spese (1919).
Da quella esperienza comprese la necessità, negli interventi pubblici, di una maggior aderenza alla cultura del luogo. Limitò quindi l’adozione di forme estere, soprattutto dei bow windows, all’edilizia privata (palazzina in viale Liegi, 1916-22; fabbricato in via Germanico, 1918-21; casa di abitazioni in via Savoia, 1920; palazzine binate in via Porpora, 1921-23).
Nel 1920 venne nominato accademico di S. Luca e membro dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon; venne inoltre incaricato del corso di Edilizia cittadina e arte dei giardini, la nuova disciplina che lui stesso si era impegnato a istituire, sull’esempio dello Stadtbau mitteleuropeo, presso la Regia Scuola di architettura in Roma. Nel 1921 fondò, insieme con Gustavo Giovannoni, la rivista Architettura e arti decorative e organizzò (con lo stesso Giovannoni e Vittorio Morpurgo) la Mostra di architettura rustica all’interno della Cinquantennale romana, per dare risalto alla vivacità di quelle esperienze costruttive condotte al di fuori dei dettami degli stili, unicamente connotate da «chiarezza, soppressione delle false strutture, richiami alle forme ingenue e spontanee dell’arte rurale», (Muñoz, 1925, p. 68) nel chiaro intento di superare lo storicismo tardo-ottocentesco.
Nel 1922 con Ghino Venturi partecipò al concorso internazionale per la sede del Chicago Tribune, trasfigurando l’immagine del grattacielo con quella della torre campanaria.
Il sostanziale insuccesso lo spinse a un radicale riassetto della propria indagine progettuale in direzione di una maggior essenzialità figurativa, tanto che solo pochi anni dopo, Antonio Muñoz notava come «nell’opera di Marcello Piacentini non c’è soltanto da notare l’originalità dell’insieme, la bellezza della linea, ma ogni particolare anche minimo ha un’impronta personale, dimostra lo studio amoroso dell’artista, il quale non essendo soltanto un teorico compositore, ma un conoscitore profondo dei materiali costruttivi e della tecnica, sa il valore che può assumere anche in un grande edificio, un semplice listello o una piccola modanatura» (Muñoz, 1925, p. 96).
Dal 1923 divenne membro della commissione edilizia del Comune di Roma. Ormai deteneva una sorta di monopolio sulla produzione architettonica nazionale. Il suo studio era impegnato in una sessantina di interventi sparsi lungo tutta la penisola: fabbricato viaggiatori della stazione di Porta S. Paolo, Roma 1923; palazzo di Giustizia di Messina, 1923-28; restauro dell’Augusteo, Roma 1925-26; monumento alla Vittoria, Bolzano 1926; completamento dei lavori per Bergamo Bassa, 1927 (con Luigi Angelini); sede della Cassa nazionale per le Assicurazioni sociali in piazza Missori a Milano, 1928-31; piazza della Vittoria a Brescia, 1928-32.
Nel 1924 realizzò, a breve distanza dalla nobile emergenza di palazzo Farnese a Roma, il palazzetto Pateras, una ridotta compagine urbana ascrivibile agli esempi seicenteschi di architettura minore tesa a mediare la differenza di quota tra l’antico asse bramantesco e la moderna arteria del lungotevere Tebaldi. Tra il 1924 e il 1928 offrì un ulteriore saggio di inserimento ambientale portando a termine, tra Castel Sant’Angelo e la mole del ‘Palazzaccio’ (sede del ministero di Grazia e Giustizia), la Casa Madre dei mutilati, una possente costruzione «con l’esterno in travertino, peperino e cortina di tufelli, o ispirato quasi a motivi d’architettura militare, e l’interno arricchito da un gran salone a croce greca absidata colle pareti a blocchi di tufo, grandi lunette in musaico, e un voltone in cemento armato a fasce piatte, come usarono il Borromini e il Padre Guarini» (Muñoz, 1925, p. 96).
Nel 1925 elaborò l’idea per ‘La grande Roma’, dove superò la dicotomia tra nucleo antico e periferia moderna in favore di una nuova realtà policentrica; studiò la sistemazione dell’ampia piazza sul viale Castro Pretorio, la definizione di piazza S. Bernardo con l’imbocco della nuova via Barberini e prefigurò la Mole littoria da erigersi all’interno del nuovo centro cittadino. Tra il 1925 e il 1927 portò a termine lungo via Veneto la costruzione dell’albergo Ambasciatori (avvalendosi della collaborazione dello svizzero Emilio Vogt per gli interni).
Abbandonata l’iniziale proposta di gusto internazionale (con i volumi digradanti che riecheggiavano gli edifici a gradoni realizzati da Henri Sauvage a Parigi), sviluppò una facciata curva in mattoni e travertino, quale chiaro omaggio alla romanità (dal Colosseo alla nobile emergenza di palazzo Massimo, del quale riprendeva il tema delle colonne binate).
Lungo la stessa via portò a termine, con Giuseppe Vaccaro, il palazzo del ministero delle Corporazioni (1927-32), un austero e solidissimo palazzo littorio in tufo verde, vicino all’estrema astrazione dell’architettura mitteleuropea e all’opera di Paul Bonatz. La distanza di questi due interventi misurava il rapido e radicale cambiamento di indirizzo progettuale, attraverso il quale Piacentini reagì all’attacco sferrato dai giovani razionalisti che lo accusavano di passatismo.
Nel 1930 pubblicò Architettura d’oggi, un agile pamphlet-manifesto, dove, oltre a offrire un’ampia panoramica delle più aggiornate sperimentazioni condotte in ambito italiano e internazionale (selezionate senza alcuna preclusione di scuola di appartenenza: da Ludwig Mies van der Rohe a Wilhelm Kreis, da Le Corbusier a Bonatz, da Wilhelm Riphahn a Erich Mendelsohn), definì le direzioni della propria indagine progettuale: «Aderire perfettamente alla vita d’oggi, materiale e spirituale, pur rispettando le condizioni d’ambiente. Ammettere quanto vi ha di universale, di corrispondente alla civiltà contemporanea, nei movimenti artistici europei, innestandovi le nostre peculiari caratteristiche e tenendo presenti le nostre speciali esigenze di clima. Ecco il nostro compito» (pp. 62 s.).
Nel 1931, in occasione della II Esposizione italiana di architettura razionale allestita nei locali della Galleria di Pietro Maria Bardi in via Veneto, alcune immagini delle sue opere finirono sul Tavolo degli orrori, il collage dissacratore messo a punto sotto la scaltra regia dello stesso Bardi, dove veniva additato con spregio quanto era considerato passatista e non in linea con lo spirito dei tempi moderni. Con tempestivo intuito, nella chiesa di Cristo Re in viale Mazzini (1931-34) Piacentini si apprestò quindi a trasfigurare in sintetiche volumetrie e disadorne masse murarie il precedente progetto di stampo storicista sussistente sull’area per il ‘tempio votivo internazionale per la Pace’ (1920-24).
Lontano da condizionamenti e nella più completa libertà ideativa, nelle residenze che costruì per se stesso fece proprie le istanze rinnovatrici: spoglie e funzionali erano la casa per abitazioni al lungotevere Tor di Nona (1929-31) – una turrita emergenza dove agli ultimi piani aveva installato il proprio studio, un belvedere aperto attraverso tre bucature di sapore loosiano verso il panorama della nuova Roma che lui stesso stava realizzando – e la villa Quota 110 sulla Camilluccia (1930-32), moderna e mediterranea.
Proprio le scaturigini mediterranee dell’architettura moderna vennero ricordate, nel 1932, da un maestro del calibro di Mendelsohn, chiamato da Piacentini a suggellare il proprio predominio all’interno del dibattito architettonico nazionale, quando, scalzato Giovannoni, assunse in prima persona la direzione della rivista (fino alla sua chiusura nel 1943), ribattezzadola – con sintetica denominazione consona al sintetismo figurativo che propugnava – Architettura (da allora organo del Sindacato fascista degli architetti): «la natura del bacino mediterraneo è tale da armonizzare quanto discorda, da rendere semplice quanto nei paesi del settentrione è complicato, riuscendo ad unificare in una meravigliosa sintesi che è legge e fede, i prodotti dell’alambicco e della cerebralità. […] Noi crediamo in un nuovo classico che sappia trarre dalle condizioni elementari dello spazio la pianta la più concettuosa, la costruzione più equilibrata, la forma più perfetta. Noi crediamo, nonostante l’incertezza della nostra epoca, in una legge statica ed eterna, crediamo nella Nuova Architettura» (E. Mendelsohn, Il bacino del Mediterraneo e la nuova architettura, in Architettura, XI (1932), 1, pp. 647 s.).
Nel decennale del fascismo venne incaricato da Benito Mussolini di redigere il piano e coordinare i lavori della costruzione della Città universitaria; allestì un efficiente ufficio tecnico sotto la direzione di Gaetano Minnucci e riuscì a concludere i lavori nel giro di soli tre anni. Concepì l’impianto generale del complesso, ideò l’articolata struttura del rettorato (il centro dell’intervento, quasi fuso con le sedi delle facoltà di Lettere e di Legge, portate a termine da Gaetano Rapisardi) e, per rompere le file degli avversari, affidò la progettazione di alcuni edifici ai giovani razionalisti (allo stesso Minnucci, a Giuseppe Capponi, Giovanni Michelucci, Giuseppe Pagano, Giò Ponti).
In virtù dello straordinario successo dell’intervento, nel 1935 venne invitato a redigere il piano per la città universitaria di Rio de Janeiro.
Nel 1933, alla presentazione dei progetti per la Città universitaria venne accusato da Ojetti di cedimenti al razionalismo e di tradimento della tradizione classica; da qui la polemica sugli archi e le colonne (cfr. La polemica sull’architettura. Gli archi, le colonne e l’italianità di oggi. M. P. risponde a Ugo Ojetti, in La Tribuna, 2 febbraio 1933, p. 3). Nello stesso anno, in qualità di membro della commissione giudicatrice del concorso per la stazione di Firenze S. Maria Novella appoggiò il progetto del Gruppo Toscano, contrariamente alle posizioni misoneiste di Ojetti e Bazzani, contribuendo a un’importante affermazione del razionalismo.
Gli anni Trenta furono per Piacentini un decennio connotato da strabiliante operosità (palazzo della Riunione adriatica di sicurtà, Tripoli 1931-33; palazzo della Banca agricola milanese, Milano 1933-34; palazzo Missori, Milano 1933-38; nuovo accesso a S. Pietro con la demolizione dei Borghi, Roma 1935-38; palazzi delle Assicurazioni generali, Trieste 1935-37 e 1938-39; palazzo della Banca nazionale del lavoro in via Veneto, Roma 1936; palazzi delle Assicurazioni generali, Gerusalemme 1936 e Zagabria 1938; padiglione italiano all’Esposizione internazionale di Parigi, 1937 (premiato con il Grand Prix); complesso edilizio di piazza Nicosia, Roma 1937-40; grattacielo Invernizzi in piazza Dante, Genova 1937-41; mausoleo di Guglielmo Marconi a Pontecchio Marconi, Bologna 1941).
Nel pieno della propria maturità mise a punto uno stile spoglio e disadorno, privo di elementi direttamente riferibili al classicismo, eppure profondamente classico, che raggiunse l’acme nel palazzo di Giustizia di Milano portato a termine, con Ernesto Rapisardi, tra il 1931 e il 1941.
Solo verso la fine del decennio, sulla scia delle esperienze condotte in ambito nordeuropeo e baltico in particolare, tornò ad adottare colonne paraste e trabeazioni, che restituì in forme succinte e sintetiche, abbreviate nel disegno e piallate nei rilievi, per conferire decoro e magniloquenza agli edifici e alle compagini urbane (secondo tratto di via Roma, Torino 1934-38, progetto per il palazzo dell’Università del Brasile, Rio de Janeiro 1935-38, in collaborazione con Vittorio Ballio Morpurgo; grattacielo Matarazzo, San Paolo del Brasile, 1938-39; sede del Banco di Napoli nel capoluogo partenopeo, 1939-40; progetto per l’E42).
Nel corso degli anni continuò a tessere rapporti di amicizia e a condividere interessi con autorevoli esponenti della più ampia cultura italiana, indicativi nel loro insieme della tendenza alla mediazione e all’equilibrio degli opposti che ne connotava l’atteggiamento mentale e orientava la ricerca progettuale: discuteva di grattacieli con l’ingegnere utopista Renzo Picasso e di interventi sul tessuto storico di Roma con il pittore e antiquario Emidio Vangelli de Cresci.
All’indomani dell’8 settembre 1943 venne invitato dalle autorità militari naziste ad aderire alla Repubblica di Salò e a trasferirsi al Nord. Il suo rifiuto determinò la confisca della villa sulla Camilluccia e l’arresto. Rilasciato pochi giorni dopo grazie all’intervento della Santa Sede e del cardinale Giovanni Battista Montini, trovò ospitalità in casa dell’ingegner Francesco Guidi, insieme al quale redasse una dettagliata cronaca dello sviluppo urbano della capitale, che pubblicò in una serie di articoli apparsi, tra il 1947 e il 1952, sulle pagine della rivista L’Urbe e raccolti poi in volume (Le vicende edilizie…, 1952).
Nell’immediato dopoguerra, mentre era impegnato nella propria difesa di fronte alla Commissione centrale per l’epurazione del personale universitario, in virtù dell’esperienza maturata nei decenni precedenti e del prestigio raggiunto, ricevette diversi inviti da parte di governi stranieri: venne invitato a redigere il progetto della Città universitaria di San Paolo del Brasile, a stilare il piano urbanistico di Caracas e ad assumere la carica di direttore generale di tutti i lavori della nazione turca.
In vista del giubileo del 1950 Piacentini completò i lavori di via della Conciliazione, risolvendo la questione plurisecolare dell’accesso a S. Pietro; adottando il modello urbano della strada con fondale, recuperò l’immagine della città ideale di ascendenza rinascimentale. La collocazione di obelischi per l’illuminazione dell’asse stradale, disposti in duplice schiera a creare due pareti ottiche che lo restringessero visivamente, creò un vero putiferio e le polemiche portarono a un’interrogazione parlamentare.
In occasione delle Olimpiadi del 1960, nell’ambito dei lavori di completamento dell’EUR (il quartiere sorto sui resti di quella che sarebbe dovuta essere l’E42), realizzò con Pier Luigi Nervi il palazzo dello Sport (in luogo del palazzo dell’Acqua e della Luce, precedentemente previsto), quale fuoco visivo dell’asse di attraversamento dell’insediamento (la via Cristoforo Colombo).
Morì a Roma, il 18 maggio 1960, al termine di una lunga malattia.
Opere. L’edilizia moderna: l’opera di Raimondo D’Aronco, in Emporium, 1913, vol. 37, n. 220, pp. 243-261; Edilizia moderna: l’opera di Joseph Olbrich, ibid., vol. 38, n. 227, pp. 350-369; Il momento architettonico all’estero, in Architettura e Arti decorative, I (1921), pp. 32-76; Nuovi orizzonti nell’edilizia cittadina, in Nuova Antologia, 1° marzo 1922, pp. 60-72; Edilizia milanese (con P. Mezzanotte), in Bollettino bibliografico. Arte contemporanea, II (1922), 2, pp. 84-87; La grande Roma, in Capitolium, I (1925), 7, pp. 413-420; Prima internazionale architettonica, in Architettura e Arti decorative, VII (1928), 12, pp. 544-562; Problemi reali più che razionalismo preconcetto, ibid., n. 3, pp. 103-113; Roma e l’arte edilizia, in Pegaso, I (1929), pp. 314-323; Dove è irragionevole l’architettura razionale, in Dedalo, XI (1931), 3, pp. 527-540; Confidenze di un architetto, in Scienza e tecnica, 1943, vol. 7, n. 2, p. 55-60; Come nasce un’opera architettonica, in Palladio, V (1941), pp. 35-38; Il volto di Roma e altre immagini, Roma 1944; Memoria sugli studi e sui lavori per l’accesso a San Pietro, Roma 1944 (con A. Spaccarelli); Le vicende edilizie di Roma dal 1870 ad oggi, Roma 1952 (con F. Guidi); Considerazioni sull’urbanistica e sull’architettura di Roma e altrove, Roma 1953; Curriculum vitae, Roma 1955.
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