CORRER, Marcantonio
Nacque a Venezia il 21 luglio 1570 da Vincenzo di Angelo e da Benedetta di Marcantonio Correr.
Il padre morì un anno dopo la nascita del C.; ma l'esponente principale della famiglia era lo zio Giovanni, celebre ambasciatore e tra i maggiori esponenti del patriziato veneziano della seconda metà del Cinquecento. Un anno prima del C. era nato il fratello Angelo il quale, dopo aver iniziato la carriera politica divenendo savio agli Ordini, si fece gesuita e morì giovane nel 1600.Il primo atto dell'apprendistato politico del C. fu la sua partecipazione, quale gentiluomo del seguito, all'ambasceria straordinaria di Pietro Duodo a Sigismondo III di Polonia nel 1592. Poco dopo, il 6 giugno 1594, sposò Elisabetta di Francesco Lippomano, ricevendone in dote 12.000 ducati in contanti più 1.000 in "robe, vestimenti" ed altro. Da lei ebbe due figli: Vincenzo (1596-1629) ed Angelo (1602-1642). Nel 1596 il C. iniziò la sua carriera politica ricoprendo la carica di savio agli Ordini, magistratura in genere riservata al giovani patrizi delle migliori famiglie per farli entrare subito nel Collegio, nel cuore cioè del sistema costituzionale veneziano, ed impratichirsi degli affari di governo; nel dicembre 1597 fu nuovamente eletto savio agli Ordini e l'anno successivo ricoprì il primo incarico fuori Venezia in qualità di podestà e capitano a Belluno, dove rimase fino al settembre 1600: si trattava di un rettorato di media importanza e di esso ci resta una esigua documentazione.
Tornato a Venezia, fu ufficiale alle Rason Nuove e signore di notte al Civil; nel 1605 il suo nome comincia ad apparire in relazione alle cariche di maggiore prestigio dell'ordinamento veneziano; in quell'anno, infatti, rientrò in Collegio come savio di Terraferma; fu poi ballottato pur non rimanendo eletto, per l'incarico di ambasciatore in Polonia; fu eletto podestà a Chioggia nel 1606, venendo poi dispensato dall'accettare la carica. Nel 1607 faceva parte del Senato e venne eletto ambasciatore in Inghilterra; ricevette anche l'elezione a podestà di Bergamo ma la nomina decadde, prevalendo l'ambasceria inglese.
Essere ambasciatore della Repubblica a Londra costituiva in quegli anni un compito denso di significati: erano gli anni del dogado di Leonardo Donà, dell'interdetto, del latitudinarismo, dei piani antispagnoli ed antipapali; gli anni dell'intenso scambio politico e culturale tra circoli veneziani, con Paolo Sarpi alla testa, e le potenze del Nord, prima fra tutte l'Inghilterra; riferendosi a quegli anni si è parlato, non erroneamente, di Seicento anglo-veneto. I compiti affidati al C., che succedeva a Giorgio Giustinian, erano pertanto quelli di rafforzare il legame tra Venezia e Londra, cercando sostegni nella lotta contro il Papato e le potenze asburgiche, evitando però di coinvolgere Venezia in iniziative che potessero metterne a repentaglio la neutralità e senza concessioni sul piano religioso. Il C., del resto, non sembra fosse legato al gruppo sarpiano, con i suoi piani arditi e la sua in qualche modo ambigua religiosità, se Sarpi, in una lettera all'ambasciatore inglese Dudley Carleton in data 18 ott. 1614, lo contrappone ai "buoni cittadini", cioè ai senatori antispagnoli ed antipapali, affermando, inoltre, che le parole del Carleton non sarebbero certo state gradite al Correr.
I governi inglese e veneziano erano comunque più prudenti di alcuni membri delle rispettive classi dirigenti; l'Inghilterra appoggiava Venezia nella questione dell'interdetto; lo aveva detto sin dal 1606 l'ambasciatore inglese a Venezia Henry Wotton, che aveva anche fatto balenare l'ipotesi di una lega tra Inghilterra, Venezia, Francia, Grigioni ed alcuni principi tedeschi: nei confronti di Spagna e Papato i rimedi erano, per Wotton, due soli, la lega ed il concilio. Il C. però trovò un Giacomo I più prudente, che tutto subordinava all'adesione, per il vero molto improbabile, di Enrico IV di Francia. E lo stesso governo veneziano riteneva quei piani più pezze d'appoggio diplomatiche che non progetti realistici.
Il C. arrivò a Londra il 15 ott. 1608 e trovò una situazione abbastanza confortante: Venezia e l'Inghilterra, sosteneva il re, erano confinanti, non per terra ma per mare; qualche incidente tra i due Stati non era da sopravalutare; alle insistenze romane, perché Venezia sostenesse la causa dei cattolici in Inghilterra, Venezia ed il C. rispondevano con un assenso non più che formale.
Nel 1609 Giacomo I fece però pervenire a Venezia la sua Apologia pro iuramento fidelitatis, il celebre libretto contro le pretese papali nei confronti del potere sovrano degli Stati, che suscitò scalpore ed al quale seguirono la risposta del Bellarmino e la controrisposta del re. Il Senato deliberò di accettare il libro come dono del re ma di consegnarlo poi al cancelliere grande perché lo custodisse così che nessuno potesse vederlo senza l'autorizzazione del Senato stesso. Roma, attraverso il nunzio, premeva per una proibizione ufficiale di circolazione mentre il Senato si era limitato ad un comando orale, senza scritture ufficiali. Nonostante ciò, la reazione del re, tramite l'ambasciatore Wotton, fu molto dura: si lascia circolare ciò che ingiuria il re, evidentemente alludendo a Bellarmino, e si proibisce la sua difesa; il re, del resto, difende quell'autonomia degli Stati di cui il Senato è fedele custode: o si ripara al decoro del re o l'amicizia veneto-inglese è da considerarsi rotta.
Il Senato non poteva permettersi questa rottura, né d'altro canto poteva autorizzare la circolazione di un testo così scottante. Fu quindi compito non facile del C. convincere Giacomo I delle ragioni del Senato e del fatto che quanto era stato deciso a Venezia era veramente il massimo che la Repubblica si potesse permettere. L'azione del C. sortì un effetto positivo. In ogni caso a Venezia si deliberò, per blandire ancora maggiormente il re, di inviargli un ambasciatore straordinario a rinnovare le profferte di amicizia ed a spiegare il comportamento del governo veneziano. Fu eletto Francesco Contarini che arrivò a Londra il 4 febbr. 1610 e ne ripartì dopo un mese; la sua missione si rivelò, come dichiarò lo stesso Giacomo I, superflua, giacché il C. aveva già completato l'opera di riconciliazione, ricevendo per questo ampi riconoscimenti da ambo le parti.
Il 19 maggio dell'anno successivo il C. lasciò Londra intraprendendo un intenso viaggio di ritorno attraverso Belgio ed Olanda dove ebbe molti incontri politici.
Di questo viaggio ci resta una relazione molto particolareggiata, pubblicata dal Blok; degli Olandesi il C. scriverà, nella successiva relazione d'Inghilterra, che sono "lontani dalla superbia e dal fasto, dediti all'utile e guadagno", rimanendo ammirato della loro potenza e della loro buona amministrazione. La relazione dell'ambasceria inglese, molto ampia, è ricca di informazioni, pacata, intelligente; manca forse di spunti e giudizi particolarmente fini e di intuizioni anche geniali che è dato talvolta di trovare in lavori del genere; il C. delinea l'Inghilterra corsara e già commerciante che si andava formando agli inizi del XVII secolo; i contrasti tra re e Parlamento e tra i tre regni inglese, scozzese, irlandese; i non sopiti problemi religiosi. Ci appare un buon cattolico (il che non gli impedisce di parlare delle "malediche risposte" cattoliche all'Apologia di Giacomo I) ma soprattutto un politico: le sue conclusioni sono che i rapporti veneto-inglesi sono buoni perché fondati sul reciproco interesse, "che è il vero nutrimento dell'amore dei principi"; dalle sue righe traspare, inoltre, la soddisfazione, a stento celata, per il proprio operato e per il rapporto personale che aveva stabilito con il re.
Ritornato a Venezia, il C. iniziò un decennio di intensa attività politica in città; nel 1612 venne eletto savio di Terraferma; nel 1613 fu depositario in Zecca e nell'ottobre nuovamente savio di Terraferma; nel 1615 fu provveditore sopra i feudi e nel frattempo sedeva permanentemente in Senato in qualità di senatore o dì membro della zonta; tra il 1616 ed il 1618 venne eletto altre due volte savio di Terraferma; sempre nel 1616 venne nominato censore. Nel 1618 fu uno dei quarantuno elettori del doge Antonio Priuli; e nello stesso anno, oltre ad essere eletto nuovamente depositario in Zecca e provveditore sopra i feudi, diventò, nel dicembre, savio del Consiglio, una delle massime magistrature della Repubblica, segno che ormai aveva ottenuto il suo posto nell'élite di governo. Negli anni successivi ricoprì altri incarichi di tipo amministrativo ed inoltre fu nuovamente savio del Consiglio e, nel dicembre 1621, fu eletto consigliere ducale per il sestiere di San Marco. Nel 1623 fu savio alla Mercanzia; nell'aprile nuovamente savio del Consiglio; nel giugno venne eletto capitano a Brescia, dove rimase per diciassette mesi, essendo per i primi sei, oltre che capitano, anche vicepodestà.
Brescia era, con Padova, il più prestigioso dei rettorati di Terraferma, occupato generalmente da patrizi di grande prestigio ed al culmine della carriera; certamente era il più difficile, trattandosi di una zona di confine, tradizionalmente terra di nobili non sempre ligi alla Serenissima. E particolarmente difficile era in quegli anni non certo tranquilli per Venezia: ai problemi consueti che i rettori si trovavano di fronte nell'affrontare la situazione interna bresciana si univano quelli di politica estera. Di qualche anno prima, 1620, era l'effimera occupazione spagnola della Valtellina; l'anno successivo, mentre gli Spagnoli premevano nei Grigioni, Brescia si era riempita di truppe venete, con conseguenti suppliche dei Bresciani perché venissero ridotte le contribuzioni e la presenza dei soldati; a seguito dell'iniziativa diplomatica francese il 7 febbr. 1623 venne conclusa una lega franco-veneto-sabauda che schiarì un po' la situazione internazionale nell'alta Lombardia.
Tale la situazione che il C. trovò al suo arrivo; ma la relativa calma durò poco. Nel 1624 si riaccesero le operazioni militari; i Francesi, sgraditissimi ai Bresciani, calarono in Valtellina, e Brescia ridiventò il centro delle forze veneziane. Venezia cercò di tenersi fuori il più possibile dai combattimenti; vennero comunque inviati il capitano Girolamo Negroboni con fanteria in Val Camonica ed il procuratore generale di Terraferma Antonio Barbaro. Il C. si mise a disposizione dei Barbaro in una Brescia che pullulava di nuovo di soldati. I suoi compiti erano di carattere essenzialmente organizzativo: rendere efficace il castello di Brescia, curare le fortificazioni, governare i soldati. Questi costituivano il principale problema: erano indisciplinati, pronti alla diserzione, mal pagati, quand'anche non pagati affatto. Il C. avrebbe riferito al Senato di aver dovuto difendere i soldati dalle "fraudi" dei capitani, che si giocavano le paghe dei soldati ancora prima di averle in mano. Contemporaneamente si trovò ad affrontare gli insolubili problemi della giustizia, rappresentante di uno Stato sempre più debole nei confronti dell'anarchia nobiliare e del banditismo.
Egli ritiene che sia suo compito "essere castigo di cattivi et consolation di buoni in questo paese "ma lamenta che si insidia alla vita "di medesimi Giudici", che i colpevoli vanno impuniti nonostante la "diligenza" usata, che i "principali della terra" sono spesso responsabili di omicidi e, in ogni caso, protettori di scellerati; ai sudditi veneziani si uniscono le scorrerie dei signorotti del Milanese, come il conte Socino Secco, gran violentatore di donne onorate. Il C. fa anche un conto dei reati consumati nel suo rettorato, "in questo paese sanguinario", nel semestre settembre 1623-febbraio 1624: quarantacinque "svaliggi" e settantaquattro omicidi, consumati sotto l'egida di persone o inquiete e potenti"; per cui chiede al Consiglio dei dieci di poter far uso di procedure più rapide ed efficaci. Migliore è la situazione nelle valli: qui gli abitanti sono valorosi, industriosi e, con la loro "partecipatione de beni communi", più fortunati dei contadini del piano che sono invece in stato di "soggettione". Il C. è partecipe anche emotivamente dei problemi che si trova ad affrontare e si comporta austeramente, sempre tenendo presenti le esigenze del risparmio. Ma nelle sue lettere e nella sua relazione è dato cogliere un senso di amarezza, e talvolta di impotenza, ben diverso dalla soddisfazione che gli aveva dato la missione diplomatica.
Nel 1625 tornò a Venezia dove venne subito rieletto savio del Consiglio. Il 15 maggio di quell'anno venne nominato, con Angelo Contarini, ambasciatore straordinario in Inghilterra in occasione della morte di Giacomo I e dell'ascesa al trono di Carlo I.
I due partirono ai primi di maggio 1626; la commissione ducale del doge Giovanni Corner raccomandava di visitare lungo il cammino i principi "che stimerete bene". Il viaggio, di cui esiste una relazione del segretario vicentino Francesco Belli, fu particolarmente faticoso, contrassegnato da incidenti durante il valico del San Gottardo, da uno dei quali il C. scampò per un "colpo della misericordia divina". Il 3 luglio giunsero a Londra; una settimana dopo vennero ricevuti dal re. Scopo della missione era di porgere le consuete felicitazioni al nuovo re, di rinsaldare i buoni rapporti veneto-inglesi ed anche di contribuire a migliorare quelli anglo-francesi, il cui deterioramento rischiava di rafforzare il fronte asburgico. La brevità della missione non permise un lavoro diplomatico significativo; poco più di uno scambio di vedute fu anche il pranzo con il duca di Buckingham, che prospettò un'azione comune contro Genova da parte di un'alleanza anglo-veneto-sabauda; gli ambasciatori veneziani promisero di riferirne al Senato. Il 25 luglio i due si congedarono dal re ed il C. fu da Carlo I armato cavaliere. Il viaggio di ritorno ebbe luogo attraverso la Francia - Parigi e Lione - e Torino; a Venezia arrivarono nel settembre 1626. La relazione letta dal Contarini è andata perduta.
A Venezia tornò subito ad occupare le più alte magistrature politiche, ricoprendo nel contempo anche parecchi incarichi amministrativi. Dal 1627 al 1632 fu più volte senatore o eletto nella zonta; conservator del deposito in Zecca; aggiunto alle Acque; nel dicembre 1628 savio del Consiglio; nel settembre 1631 fece parte del Consiglio dei dieci; dall'ottobre 1632 al marzo dell'anno successivo fu savio alla Mercanzia; nel 1636 fu dei cinque inquisitori sopra il Campadego. Nel 1637, secondo le fonti biografiche, venne eletto inquisitor sindico e avogador in Levante e partì oltre mare per controllare su abusi contro il pubblico patrimonio. Questo viaggio l'avrebbe molto affaticato fino a condurlo a rapida morte l'anno successivo. Nelle fonti documentarie non si trova conferma di ciò; è certo invece che dall'ottobre 1637 al marzo 1638 fu nuovamente savio grande del Consiglio. Morì a Venezia nell'agosto 1638 (secondo la sua biografia in Mss. Correr 1465, c. 190, l'8 apr. 1638; ma è un errore: il suo testamento data 9 apr. 1638).
Ritenuto uomo di "intendimento e prudenza", fu anche considerato persona erudita; fece parte dell'Accademia dei Ricovrati. Nel suo testamento si mostra particolarmente legato alla moglie Elisabetta, "che resti al governo dei beni non già destinati ad altri" e "assoluta governatrice" di tutte le rendite e all'"amatissima" nuora Giulia Gritti, vedova del suo primogenito Vincenzo. Fu seppellito a S. Pietro di Castello.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia: Misc. Cod., I, Storia veneta 19: M. Barbaro, Arbori de' patriti veneti, III, cc. 135, 142; Inghilterra, filza VII, nn. 39-47, 52 s., 56 s., 60-62, 64-68, 70-73, 75-77, 79; filza VIII, nn. 1-45, 48, 50 s., 53-57, 59-65, 67-76; filza IX, nn. 1-4, 6 s., 9-60; filza X, nn. 1-10, 12-19, 37 s.; filza 28 bis, nn. 1-20; Segretario alle voci, ElezioniMaggior Consiglio, registri 8, 11-16; Elezioni, Senato, registri 6-13; Capi Consiglio dei dieci, Lettere rettori, busta 28, ff. 219-236, 239 s., 245 s., 249-253, 257-262; busta 153, f. 194; Testamenti, Atti Erizzi 1179. 354; 1182. 22; Venezia, Bibl. del Civ.Museo Correr, Mss. Cicogna 3381: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, c. 209v; Ibid., 1720/6; Ibid., 3490, fasc. 24, 1, 8; Ibid., 3157; Ibid., Mss. Correr 1465: Comp. di storie di ciascun individuo della fam. Correr, cc. 188-190; Ibid., 1481: Storia e serie cronol. della nobiliss. fam. Corraro, cc. 28-29; Ibid., 1466/13. 15; Ibid., 1490/3; Mss. P. D., C2172/11, c. 17; C 2271/6, c. 4v; C 2383/1 (1); C 2383/2, c. 2; Mss. Dandolo P. D., C1049/4. 351; Ibid., Bibl. naz. Marc., Mss. It., cl. VII, 926 (= 8595), c. 33r; Ibid., 15 (8304), c. 341r. Per la stampa delle relazioni vedi: Relaz. d. Stati europei lette al Senato d. ambasc. veneti, a cura di N. Barozzi-G. Berchet, IV, Venezia 1863, pp. 85-143 (relaz. del 1611); pp. 291-293 (sull'ambasceria del 1626); Relazioni degli ambasc. venetial Senato, a cura di L. Firpo, I, Inghilterra, Torino 1965, pp. XIX, XX, XXV, 559-617 (relazione del 1611), 621-627 (sull'ambasceria straordinaria di Francesco Contarini); Relation d'Angleterre par monsieur Marc'Antoine Correr... fidellement traduite des manuscrits italiens, Montébeliard 1668; P. J. Blok, Venetiaanische Berichten over vereeidigte Nederlanden van 1600-1795, 'S-Gravenhage 1909, pp. 68-92; Un'ambasceriaveneta attraverso il Gottardo, in Boll. stor. dellaSvizzera italiana, XIX (1897), 1-2, pp. 72-87; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, XI, Podestaria e capitanato di Brescia, Milano 1978, pp. 267-278. Per i dispacci vedi: Calendar ... State Papers ... Venice, XI (1607-1610), London 1904; XII (1610-1613), ibid. 1905, a cura di M. F. Brown; XIX (1625-1626), ibid. 1914; XX (1626-1628), ibid. 1915, a cura di A. B. Hinds, ad Indices; Un dispaccio ined. di Marc. Correr, a cura di P. G. e G. Venier, Venezia 1870. Le ambascerie del C. sono entrate nella tradiz. Storiografico-celebrativa veneziana: A. M. Vianoli, Historia veneta, II, Venezia 1684, p. 404; B. Nani, Historiadella Repubblica veneta, in Degl'istorici venez. i qualihanno scritto per pubblico decreto, VIII, Venezia 1720, p. 328; A. Morosini, Historiae venetae, ibid., VII, ibid. 1720, p. 422; G. B. Contarini, Della veneta istoria, II, Venezia 1663-65, p. 243; J. Gratiani Historiarum Venetarum libri XXXII, I, Patavii 1728, p. 231; G. Diedo, Storia dellaRepubblica di Venezia dalla sua fondaz. sino l'annoMDCCXLVII, VII, Venezia 1793, pp. 193-197. Si veda inoltre: P. Sarpi, Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Milano-Napoli 1969, p. 678; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni Venez., V, Venezia 1842, pp. 34, 44, 125; Id., Saggio di bibliografia venez., Venezia 1847, p. 165; G. Soranzo, Bibliogr. venez., Venezia 1885, p. 126; F. Antonibon, Le relazioni a stampa di ambasciatori veneti, Padova 1939, p. 78; F. De Paola, Vanini e il primo '600anglo-veneto, Taurisano 1979, pp. 238, 240, 273 s., 318, 322; V. Spreti, Encicl. storico-nobiliare italiana, II, p. 547.