MANUZIO, Aldo, il Vecchio
Nacque a Bassiano, un piccolo borgo della campagna laziale nel ducato di Sermoneta. La data di nascita è stata oggetto di discussioni. Il figlio Paolo la collocava nel 1452, il nipote Aldo attorno al 1449-50. Al di là del fatto che il padre del M. si chiamava Antonio e che ebbe alcune sorelle, poco convincenti sono tutte le ipotesi formulate nel tempo attorno alla famiglia di origine, non appoggiate su alcun documento. È probabile che il nome originario fosse Mandutio ("Mandutius"). Quanto al M., egli si sottoscrisse come Mannuccio ("Mannuccius"), trasformato nel 1493 in "Manucius" e dopo il 1497 in "Manutius".
Le notizie circa gli anni della formazione derivano per lo più da accenni posti nelle dediche e nelle prefazioni a sue edizioni, molto distanti nel tempo. Tra il 1467 e il 1475 compì studi umanistici a Roma, dove frequentò le lezioni di Domizio Calderini, vicino al cardinale Bessarione, tra i primi a intuire le potenzialità della stampa, proprio negli anni in cui a Roma A. Pannartz e K. Sweynheym avevano avviato la propria impresa tipografica, la prima in Italia. Ma soprattutto fu allievo di Gaspare da Verona, professore di retorica alla Sapienza, provvisto di vaste relazioni europee, che già nel 1467 riferì delle attività romane dei due tipografi tedeschi, sottolineandone la novità. Nessun'altra notizia lega la permanenza a Roma del M. alla successiva attività editoriale, distante circa venti anni. È peraltro verosimile che in questi anni sia stato impegnato negli studi e che solo più tardi abbia concepito il suo progetto editoriale.
Dopo il 1475 il M. dovette trasferirsi a Ferrara, dove è segnalato negli anni successivi come allievo di Battista Guarini, che ebbe grandissima influenza nella maturazione delle sue idee sull'apprendimento del greco e sulla sua importanza per una formazione umanistica e scientifica.
In questo ambiente il M. sviluppò una straordinaria fiducia in un sapere enciclopedico fondato sulla tradizione classica e la fede cristiana. Ne derivò un'intensa passione per ogni aspetto del linguaggio, inteso come mezzo di espressione delle capacità razionali dell'uomo, che lo accompagnò tutta la vita, caratterizzandone profondamente l'opera di letterato ed editore.
L'8 marzo 1480 era a Carpi. In quella data ottenne la cittadinanza e l'incarico di tutore dei principi Alberto e Lionello Pio, probabilmente su indicazione di Giovanni Pico della Mirandola, zio dei due principi, che doveva averlo conosciuto a Ferrara. Si avviò allora un rapporto che ebbe in seguito notevole importanza anche per le attività editoriali del Manuzio. Negli stessi anni ebbe come allievo il futuro poeta e letterato Ercole Strozzi e non pare avere perso i contatti con Ferrara. Nel 1482, da una lettera ad Angelo Ambrogini, detto il Poliziano, si apprende che avrebbe soggiornato per qualche mese a Mirandola presso Pico, dove strinse amicizia con il letterato cretese Manuel Adramitteno. Pico stava cercando di rendere la cittadina un centro culturale di primo piano. Cominciò a maturare l'idea di accademia, come luogo di scambio e discussione tra dotti profondamente intrisi di cultura greca, che il M. perseguì per tutta la vita.
Il soggiorno a Carpi si protrasse sino al 1489. Sembra risalire a quei tempi un primo abbozzo della futura grammatica latina, intitolato De diphthongis Graecis et ut Latine fiant libellus, identificato tra i manoscritti della Biblioteca Querini-Stampalia di Venezia. Negli ultimi tempi concepì la raccolta Musarum panegyris, la cui stampa è attribuita al tipografo veneziano Battista Torti tra il marzo 1487 e il marzo 1491, ma più probabilmente tra 1489 e 1490, poco prima dell'arrivo del M. a Venezia.
Il volume conteneva alcune elegie latine e una lettera a Caterina Pio, madre di Alberto e Lionello, sull'educazione dei due principi, da cui si desumono la grande importanza che il M. attribuiva all'apprendimento della lingua greca e della filosofia antica, e la necessità che le due lingue classiche venissero insegnate contemporaneamente.
Il trasferimento del M. a Venezia avvenne tra 1489 e 1490.
Non sono note le ragioni precise che ve lo spinsero. La tradizione vuole che vi fosse giunto attratto da una città in cui vivevano molti esuli greci, con biblioteche ben fornite di codici, tra cui spiccava la collezione che il cardinale Bessarione aveva lasciato alla Repubblica nel 1468 con lo scopo di destinarla alla costituzione di una biblioteca pubblica. Una metropoli, dunque, provvista di molte opportunità e di un'aristocrazia ricca e culturalmente vivace, che, qualche anno dopo, nella prefazione alle opere di Poliziano, il M. avrebbe definito "luogo più simile a un mondo intero che a una città".
Simili motivazioni sono tuttavia prive di sostanza documentale; è inoltre risaputo che la collezione di Bessarione era difficilmente accessibile. Il M. non vi fece mai cenno e non pare che vi abbia mai fatto ricorso anche se a Venezia era molto vivace il circolo degli umanisti vicini a Ermolao Barbaro, molti dei quali erano provvisti di grandi biblioteche e disponibili ad aprirle agli eruditi. Pur non risultando che il M. abbia avuto modo di conoscere di persona Barbaro, ne subì indirettamente l'influenza, assorbendone l'ideale educativo enciclopedico fondato sulla perfetta padronanza delle lingue classiche.
Nel 1491 Poliziano incontrò il M. a Venezia e annotò il nome di "Alto Mannuccio" su un suo taccuino insieme con quelli di noti patrizi veneziani, come Alvise Barbaro, Leonardo Loredan, Pietro Bembo e Angelo Gabriel, tutti mossi dalla comune passione nei riguardi della cultura greca e allievi dell'umanista Giorgio Valla, grande esperto di testi filosofici e scientifici. Da allora il suo nome ritorna con maggiore frequenza tra gli umanisti veneziani. Una lettera di Codro Urceo (Antonio Cortesi Urceo) del 1492 attesta rapporti con Valla. L'anno successivo, nella prima edizione della sua grammatica latina Institutiones grammaticae Latinae, stampata l'8 marzo 1493 da A. Torresano, il M. riconobbe allo stesso Valla il merito di averlo avvicinato a Plauto.
Tutto lascia dunque pensare che dopo il trasferimento a Venezia abbia proseguito la sua attività di insegnante, come del resto è attestato anche dalla grammatica, ristampata dallo stesso M. altre tre volte, con cambiamenti, sino al 1514, il cui successo perdurò per tutto il secolo. Le Grammaticae institutiones Graecae furono pubblicate postume nel novembre 1515, a cura del letterato cretese Marco Musuro.
Nessun elemento noto consente di ipotizzare che tra le ragioni che spinsero il M. a Venezia vi fosse quella di un impegno nell'editoria. Certamente, Venezia era allora il maggiore centro editoriale d'Europa, tuttavia il M. non pareva voler uscire dall'ambito filologico e linguistico, che erano le sue autentiche passioni. È però possibile che l'interesse nei riguardi della stampa sia maturato progressivamente dal proposito di estendere la sua attività educativa e dall'insoddisfazione per la qualità dei testi e dei libri su cui doveva fare affidamento. Una spinta ulteriore dovette derivare dalla crescente instabilità politica dell'epoca e dai timori che le guerre determinassero distruzioni e dispersioni nei patrimoni librari di molte illustri biblioteche. Sicché, quando, tra 1494 e 1495, la stamperia aldina prese a lavorare, il progetto culturale cui il M. stava accingendosi era definito nelle linee essenziali. La prefazione, datata 28 febbr. 1494 m.v. (1495), alla grammatica greca Erotemata di Costantino Lascaris, stampata tra febbraio e marzo 1495, ha un intento dichiaratamente programmatico.
La conoscenza della lingua - scrive il M. - è "preludio alle fatiche e spese gravissime e ai grandi preparativi" intrapresi per mettere in stampa "ogni sorta di libri greci" e per risolvere la miriade di problemi tecnici ed economici che la ostacolavano. Tale scelta non costituiva una fuga nell'erudizione fine a se stessa, ma era dettata dalla situazione politica determinatasi a seguito della discesa del re di Francia Carlo VIII in Italia. Il M. rivendicava il valore formativo della cultura umanistica in un momento tormentato da "guerre immani" "che devastano tutta l'Italia e tra breve par che sommoveranno il mondo intero fin dalle fondamenta". Il suo intento è quello di "dedicare la vita al vantaggio dell'umanità" al costo di sacrificare "un'esistenza tranquilla e pacifica" per "una piena di preoccupazioni e di fatiche". Pochi mesi dopo, presentando le opere di Aristotele, il M. ritornò sui medesimi concetti. La conoscenza della letteratura greca era una "necessità" per i giovani e per gli adulti in "tempi tumultuosi e tristi in cui è più comune l'uso delle armi che quello dei libri".
Alberto Pio non ebbe un diretto coinvolgimento finanziario nella stamperia, anche se con buone probabilità fu suo il contributo finanziario che servì al M. per avviare l'impresa o, almeno, la imponente edizione di Aristotele, che gli fu dedicata quale "doctorum aetatis nostrae alter Mecoenas". Il progetto complessivo necessitava del resto di cospicui capitali non facili da reperire. Questa lucida consapevolezza spinse il M. a combinare un accordo con altri due finanziatori che gli consentì di avviare l'impresa.
La grammatica del 1493 era stata stampata da Andrea Torresano, affermato stampatore originario di Asola, dalla metà degli anni Settanta a Venezia dove aveva appreso l'arte tipografica lavorando nella bottega di Nicolas Jenson, dalla cui stamperia nel 1487 aveva recuperato tutte le attrezzature tipografiche. Divenuto uno dei più facoltosi imprenditori del libro veneziano, è possibile che Torresano avesse manifestato interesse al progetto del M., suggestionato dal crescente interesse da parte degli italiani del tempo verso la cultura greca. Sin dagli inizi partecipò alla società anche il patrizio veneziano Pierfrancesco Barbarigo, figlio di Marco, doge nel 1485, e nipote di Agostino, doge dal 1485 al 1501, per il quale l'impegno nella stamperia fu dettato più dal desiderio di diversificare gli investimenti che da un'adesione a un progetto culturale, tanto che nessuna delle edizioni del M. gli fu mai dedicata. Al marzo del 1495 risale il contratto che univa in società al 50% da una parte Barbarigo e dall'altra Torresano e il Manuzio. Questi ultimi erano a loro volta stretti da un altro patto di compagnia, secondo il quale i 4/5 del capitale spettavano al primo e il rimanente al secondo.
La situazione societaria lascia dunque intendere che il M., detentore del 10% del capitale complessivo, non abbia mai avuto assoluta libertà di decisione, dovendo rendere conto agli azionisti principali, per quanto il suo carisma nella conduzione dell'azienda fosse sicuramente indiscusso. È in ogni caso accertato che il M., con la collaborazione dei soci, fu in grado di mettere in piedi un'organizzazione industriale e commerciale perfettamente efficiente, capace di muoversi con agilità in tutta Europa e di trasformare le sue geniali intuizioni circa la natura e il futuro del libro a stampa in un bene concreto, in grado di acquisire un preciso valore di mercato.
I primi anni di attività tipografica furono destinati alla risoluzione di una serie di questioni tecniche per la stamperia, che trovò allora sistemazione nella contrada di S. Agostin, dove, secondo le stime di Lowry, erano impegnati dai quattro ai sei torchi e una quindicina di operai.
Le maggiori difficoltà vennero dalla messa a punto dei caratteri per la stampa del greco, dato che i pochi esperimenti effettuati in precedenza non avevano risolto tutti i problemi. Fu necessaria una scrupolosa riflessione sulla natura della lingua e sulla natura di quei segni (accenti, spiriti) che occorreva combinare con le lettere, cercando contemporaneamente di evitare un'eccessiva moltiplicazione dei caratteri che avrebbe aumentato le spese e accresciuto i tempi di composizione. Fondamentale fu la collaborazione con l'incisore Francesco da Bologna, identificabile con Francesco Griffo, che sino al 1502 fu figura chiave nel disegno dei caratteri greci e latini, al punto da qualificare profondamente la casa. Griffo realizzò quattro serie di caratteri greci, sei di latini tondi e il corsivo; effettuò inoltre un tentativo di introdurre gli ebraici. In seguito, la traumatica rottura dei rapporti indusse il M. a usare sempre le stesse matrici, pur continuando a mantenere un vivo interesse per la qualità dei caratteri, al punto di raccomandarla a Torresano anche nell'ultimo testamento del 1515.
La prima opera con data certa "litteris ac impensis Aldi Manuci Romani" fu la citata grammatica, uscita tra febbraio e marzo 1495, di Lascaris, maestro di Bembo e Gabriel, strumento imprescindibile per l'apprendimento della lingua greca. L'opera era già stata stampata a Milano nel 1476, tuttavia Bembo e Gabriel, che erano appena tornati da Messina dove avevano seguito i corsi del grande grecista, avevano assicurato 150 correzioni e nuovi interventi dello stesso autore. Inoltre veniva aggiunta una traduzione latina, utile per chi era completamente a digiuno del greco.
Nel novembre 1495 seguì il primo tomo delle opere di Aristotele, che sarebbero state completate nel 1498 in cinque volumi in folio. Poi si sarebbe passato ai grammatici, ai poeti, agli oratori, agli storici e a tutti quegli autori che avrebbero potuto contribuire alla ripresa degli studi e delle lettere.
Si trattava di una scelta in assoluta coerenza con il programma maturato, in quanto la riproposizione delle opere del grande filosofo nella sua lingua originale consentiva di superare l'interpretazione averroistica dell'Aristotele latino, recuperando o contrapponendo la lezione degli antichi greci a quella araba e cristiana allora corrente, pur non aderendo alle dottrine dei neoplatonici fiorentini. Per l'individuazione dei manoscritti su cui basarsi, il M. fece soprattutto affidamento sulla fitta schiera di conoscenti e amici, contando più sulle capacità filologiche e di interpretazione dei suoi collaboratori, che sull'effettiva qualità dei testimoni. Egli era peraltro consapevole della fallibilità dell'opera di ricostruzione filologica. Evitò per questo di presentare i suoi testi come definitivi, introducendo l'uso degli asterischi per segnalare quei passaggi la cui ricostruzione gli pareva dubbiosa.
In questi anni il M. si giovò dei rapporti stretti con il patriziato veneziano colto. Fu molto legato al grande diarista Marino Sanuto, proprietario di una delle più cospicue biblioteche del tempo, ed ebbe tra i suoi principali consiglieri Bernardo e Pietro Bembo. Intrattenne relazioni con Daniele Renier e Marcantonio Morosini ai quali dedicò rispettivamente Tucidide e Lucano. Mantenne inoltre scambi non trascurabili con il gruppo di patrizi più impegnati sui temi della riforma della Chiesa. Sono documentati i legami con i camaldolesi Tommaso Giustiniani e Vincenzo Querini, autori nel 1513 del Libellus ad Leonem X, redatto in occasione dell'elezione al soglio pontificio di Giovanni de' Medici per sollecitare l'avvio di un processo di rinnovamento. Tali legami possono spiegare lo spirito vivo e appassionato di alcune prefazioni del M., prima tra tutte quella alle Epistole di s. Caterina da Siena (1500), nella cui dedica al cardinale Francesco Piccolomini, futuro Pio III, il M. dava un saggio significativo di una religiosità che, pur nella sua assoluta ortodossia, era scossa di fronte a "li tetri vitii e orrende sceleragine che se commetteno hogge nel mondo, né è chi corregga".
Il greco predominò largamente nella produzione editoriale dei primi cinque anni (1495-1500). Oltre ai cinque volumi di Aristotele, che andavano incontro alle esigenze dello Studio di Padova, la produzione fu più caratterizzata dai testi filosofici e scientifici che dalla letteratura. Prevalgono grammatiche e dizionari indispensabili per l'apprendimento della lingua, mentre le opere letterarie presenti appaiono per lo più destinate a costituire buoni modelli di espressione in greco. Tale funzione avevano le commedie di Aristofane (1498), curate da Marco Musuro, e le opere di Teocrito ed Esiodo (1496), in grado di proporre un'ampia varietà di forme stilistiche, essenziali per acquisire conoscenza della filosofia, della medicina e della matematica. L'attenzione nei riguardi dei testi scientifici è confermata dagli scritti di Dioscoride e Nicandro (1499).
I programmi del M. erano però molto più ambiziosi. Nella richiesta di privilegio avanzata al Senato il 6 dic. 1498, pochi mesi dopo essere guarito dalla peste e avere ottenuto la dispensa dal voto di prendere gli ordini sacri in caso di guarigione, espose un impegnativo piano editoriale, attuato solo in parte, che prevedeva tra l'altro le orazioni di Demostene, la retorica di Ermogene, le opere di Plutarco e Senofonte e vari commentari classici ad Aristotele. Nell'ottobre del medesimo anno aveva intanto pubblicato anche il primo dei suoi tre cataloghi editoriali (i successivi furono nel 1503 e nel 1513), comprendente allora i soli libri greci, ritenendo gli altri poco qualificanti e di minore importanza.
Certamente meno impegnativa in questa fase fu la produzione in lingua latina, parte della quale fu complementare alle edizioni greche. L'edizione di Giamblico del 1497 proponeva una serie di scritti di autori neoplatonici curati e tradotti da Ficino, che per il M. erano in funzione delle opere di Platone, già allora in programma; gli Astronomici veteres del 1499 - in parte traduzioni latine di originali greci - e Lucrezio stesso, del 1500, servivano soprattutto a illustrare Epicuro.
Le altre opere del tempo paiono invece uscire dalla linea editoriale principale, al punto che la stampa può essere stata determinata dalla necessità di soddisfare i soci, preoccupati per le difficoltà commerciali delle opere in greco. Era un'opzione preliminare aperta sul piano della ricerca scientifica che riproponeva di partire dalla filosofia greca. Vi compaiono i Diaria de bello Carolino del medico Alessandro Benedetti (1496), amico di E. Barbaro, che tuttavia il M. non sottoscrisse, gli scritti filosofici e medici di Lorenzo Maioli (1497) e Niccolò Leoniceno (1497), la Cornucopia di Niccolò Perotti (1499) e gli Opera di Poliziano, che dovettero finire nelle mani del M. solo a progetto già avviato, ma che furono integrati nel suo programma per l'ammirazione e la stima nutrita nei riguardi dell'autore.
Nel gennaio 1496 (1495 m.v.) pubblicò il De Aetna di P. Bembo, opera minore dal punto di vista letterario che racconta il viaggio del patrizio veneziano in Sicilia, dove si era recato per apprendere il greco, ma memorabile soprattutto per l'eleganza del carattere romano appositamente inciso da Francesco Griffo e destinato a prendere in seguito il nome di Bembo. Prese a modello, perfezionandolo, il tondo ideato da Nicholas Jenson, tenendo conto degli studi del tempo sulle proporzioni, e divenne un riferimento per ogni futuro ideatore di caratteri. A esso si ispirarono tutte le principali serie romane successive, da quelle incise da Claude Garamond nel XVI secolo a molti tipi in uso nella tipografia del XX secolo.
Tra 1498 e 1499 il M. iniziò a manifestare anche interesse alla stampa ebraica, in sintonia con frequentazioni di dotti come Pico, Bembo, T. Giustiniani, V. Querini, che avevano familiarità con la lingua. Egli stesso, oltre a mostrare curiosità verso le origini ebraiche del cristianesimo, ne ebbe qualche nozione al punto che è stata avanzata l'ipotesi che fosse un ebreo convertito, anche alla luce del fatto che nel ducato di Sermoneta nella seconda metà del Quattrocento esistevano importanti comunità ebraiche. Al termine delle grammatiche latina e greca pubblicate nel 1501 il M. aggiunse una Introductio perbrevis ad Hebraicam linguam, ritenuta di Gershom Soncino, che costituì il primo episodio veneziano di impiego di caratteri ebraici. Si trattava di un esperimento che avrebbe dovuto preludere alla stampa delle Scritture sacre nelle tre lingue classiche di cui già si parlava nel 1497-98. Nel luglio 1501 lo stesso M. annunciava che l'opera era in stampa, ma la Bibbia poliglotta si arenò probabilmente a causa di una rottura con il tipografo Soncino, che nella seconda metà del 1501 lasciò Venezia per Fano. Di quella esperienza resta solo la prova di stampa di un foglio di apertura della Genesi in tre colonne, ebraico, greco e latino.
In questa prima fase uscirono solo due opere in lingua volgare. La prima fu la celeberrima e misteriosa Hypnerotomachia Poliphili del 1499, sulla cui attribuzione al domenicano Francesco Colonna si continua a dibattere.
È considerata uno dei capolavori tipografici di tutti i tempi, per quanto sia completamente estranea al programma editoriale del M., che firmò il volume ma non vi aggiunse una prefazione di suo pugno. La realizzazione del libro fu commissionata e pagata dal veronese Leonardo Grassi, appartenente alla cerchia romana di Barbaro e canonico di Ravenna, ed era dedicata a Guidubaldo da Montefeltro, uomo d'arme al servizio di Venezia e duca di Urbino. Ebbe nell'immediato problemi di diffusione, al punto che Grassi, a dieci anni dalla stampa, chiedeva una proroga del privilegio poiché il libro era rimasto invenduto a causa delle guerre. Particolari erano il volgare dell'opera, rivestito di un'aura di classicità latineggiante, e, soprattutto, la veste editoriale, che combinava in modo sorprendente per tutte le 234 carte in folio testo e immagini. Le illustrazioni erano ricavate da 172 incisioni su legno realizzate da un artista rimasto ignoto, ma certamente di eccelse capacità, che studi recenti spingono a collocare negli ambienti del miniaturista padovano Benedetto Bordon, i cui rapporti con il M. sono stati accertati. L'esperienza grafica maturata servì l'anno successivo nell'edizione delle Epistole di s. Caterina da Siena, in cui la parte illustrativa ha altrettanta importanza e nella quale per la prima volta il M. sperimentò, sia pure per le sole parole "Jesu dolce Jesu amore", il carattere corsivo.
Gli anni 1501-03 registrarono un deciso mutamento nei programmi, determinato probabilmente dai condizionamenti dei soci e da una grave crisi delle attività editoriali veneziane, messe a dura prova dalle guerre e dalle incertezze economiche. Si verificò un consistente calo della produzione in greco, addirittura interrotta per due anni dopo il 1499, a favore delle edizioni latine. Furono anche anni di rilevanti innovazioni. Il 23 marzo 1501 il M. chiese al Collegio dei savi un privilegio decennale che tutelasse un nuovo carattere latino di cui aveva disposto l'incisione per avviare la stampa dei classici latini.
Il nuovo carattere latino corsivo si ispirava alle forme manoscritte in uso nelle cancellerie italiane del secondo Quattrocento e si proponeva di assicurare alle stampe l'eleganza e la bellezza del manoscritto umanistico. In combinazione con il nuovo formato in 8°, finì con qualificare l'attività del Manuzio. Egli mise in commercio nuove edizioni portatili (definite nel catalogo del 1503 "libelli portatiles in formam enchiridii") volte non tanto ad abbassare i prezzi e a diffondere il libro popolare, quanto a favorire un uso diverso del libro, meno legato allo spazio dello studio, in direzione piuttosto di un ampliamento del pubblico, non necessariamente costituito da letterati di professione, favorendo così nuove pratiche di lettura. Merito del M. non fu peraltro quello di avere utilizzato per primo il formato in 8°, già in uso da tempo per la stampa di testi religiosi e devozionali, quanto di averlo destinato alla produzione dei classici. Anche l'eliminazione dei commenti serviva a non distogliere i lettori dalla concentrazione sul testo, evitando condizionamenti pedanti.
Il M. era del resto pienamente consapevole della rivoluzione che stava suscitando. Scrivendo a Sanuto per dedicargli nel 1501 Orazio, gli faceva notare che un libro portatile consentiva la lettura nei momenti liberi dalle occupazioni politiche o di studio, mentre al condottiero Bartolomeo d'Alviano suggeriva di tenere con sé i libri di piccolo formato nelle campagne militari. Il primo esempio fu il Virgilio uscito nell'aprile 1501, seguito da molti altri: Persio e Giovenale, Marziale, Cicerone, Lucano, Ovidio, Catullo, Tibullo e Properzio. Il successo fu assicurato e le tirature furono subito molto alte. Il volumetto del 1502 che conteneva Catullo, Tibullo e Properzio superò le tremila copie. Nello stesso formato e con lo stesso carattere corsivo uscirono negli stessi anni le Cose volgari di Francesco Petrarca (1501) e le Terze rime di Dante Alighieri (1502).
Nelle edizioni in caratteri latini non meno rilevanti furono le innovazioni nella punteggiatura, derivate in parte dalla scrittura greca, che determinarono un'autentica rivoluzione tipografica, immediatamente percepita come tale, al punto di disorientare e infastidire più di un lettore dell'epoca. Con il De Aetna il M. contribuì all'affermazione della virgola uncinata, destinando al tempo stesso una cura particolare all'accentazione. Con Petrarca nel luglio 1501 e il Dante del 1502 spostò tali segni in edizioni di opere volgari, e introdusse, mutuati dal greco, l'uso dell'apostrofo, degli accenti e del punto e virgola, accogliendo indicazioni e suggerimenti che gli provenivano da Bembo.
Nel greco il M. si indirizzò verso la letteratura. Nel 1502 uscirono le tragedie di Sofocle in 8°, insieme, tra altro, con Tucidide ed Erodoto, e nel 1503 le opere di Luciano, le tragedie di Euripide in piccolo formato, oltre ai commentatori Ammonio e Ulpiano.
Mentre la fama del M. si estendeva, al suo consolidamento contribuì anche un sapiente uso di segni che rendevano facilmente riconoscibili le sue edizioni. Nel giugno 1502, nel secondo volume dei Poetae Christiani veteres, comparve la marca tipografica dell'ancora e del delfino, una prima versione della quale era già apparsa all'interno di un'illustrazione del Polifilo. La marca illustrava il motto "Festina lente" (affrettati con lentezza), citato per la prima volta nel luglio 1498 in greco nella dedica delle opere di Poliziano a Sanuto, il quale glielo avrebbe suggerito, ricavandolo da un proverbio greco.
La notorietà europea di cui già allora il M. godeva può essere comprovata anche dalle contraffazioni subite a Lione, segno tangibile del successo e della capacità di presa sul largo pubblico delle sue innovazioni nel libro latino. Malgrado i privilegi, veneziani e pontifici, con cui sin dal febbraio 1496 aveva cercato di proteggere dalla pirateria libri e caratteri, vennero colpite proprio le sue edizioni di maggior successo. A Lione Baldassarre da Gabiano realizzò imitazioni dei classici latini in 8° con un carattere corsivo che riprendeva quello disegnato da Francesco Griffo. Il M. si difese pubblicando il 16 marzo 1503 un Aldi monitum in Lugdunenses typographos, con cui denunciava la falsificazione e l'abbondanza di errori presenti, elencandoli uno per uno. Il manifesto servì poco agli scopi del M., rivelandosi invece utilissimo ai contraffattori che se ne servirono come guida per correggere le proprie edizioni. Altri plagi di migliore qualità vennero realizzati da Filippo Giunti e attorno al 1507 dovette celebrarsi a Venezia anche un processo per violazione dei privilegi che gli diede ragione.
In quegli anni ebbe anche qualche forma di concretizzazione l'idea di accademia di studi greci. È evidente nel M. il fastidio per tutte le attività che lo distoglievano dalla passione filologica e comunque di studio. Avrebbe rinunciato volentieri alle occupazioni pratiche connesse al funzionamento della stamperia, coltivò pertanto a lungo il desiderio di una sistemazione che potesse consentirgli di concentrarsi esclusivamente sugli studi. Ne derivò un sentimento ambivalente verso quei signori che avrebbero potuto garantirgli tranquillità e sicurezza. Già nella prefazione del marzo 1493 alle sue Institutiones grammaticae accusava i ricchi ("novi istos polypos") che non gli alleviavano le condizioni e non operavano come autentici mecenati. Nel rapporto durato tutta la vita con Alberto Pio, incerto signore di una piccola corte di poco peso politico, si intravede il tentativo di identificare in lui una figura simile. Se la presenza del nome di Pio nelle dediche di circa un terzo delle edizioni manuziane consente di ipotizzare un contributo del signore di Carpi, soprattutto nella fase iniziale della casa editrice, tale appoggio non bastò a evitare al M. le preoccupazioni che un'impresa industriale e commerciale inevitabilmente comportava. Da qui la necessità di doversi adattare alle richieste dei soci e di modificare l'ambizioso progetto editoriale in funzione delle tendenze del mercato. Un accenno nella dedica del De Physico auditu di Aristotele del febbraio 1497 induce a ritenere che Alberto avesse effettivamente promesso al M. terreni e un castello, probabilmente nella stessa Carpi, affinché vi si istituisse un'accademia dedicata alla letteratura e alle arti. Nel 1498 si parlò di un possibile trasferimento della stamperia a Novi, nei pressi di Carpi. Anche se in seguito il M. ottenne da A. Pio alcuni terreni, l'idea del castello in cui istituire accademia e stamperia non si concretizzò.
L'accademia, invece, parrebbe attiva a Venezia nel 1502. Nell'agosto di quell'anno un'edizione di Sofocle riportava come luogo di stampa "Venetiis in Aldi Romani Academia" e, qualche mese dopo, una ducale del doge Leonardo Loredan faceva riferimento a una "neacademia".
Gli statuti, fortunosamente ritrovati nella legatura di un volume della Biblioteca apostolica Vaticana, non danno molte informazioni a riguardo. Vi si citano i nomi di sette persone: oltre al M., Giovanni Battista Cipelli (Battista Egnazio), Paolo Canal, Girolamo Menocchio, Francesco Roseto, Scipione Forteguerri e il greco Giovanni Cretese. Tutti si impegnavano a parlare greco e a pagare, in caso di errori, una multa da destinare a un incontro conviviale. La dizione "in Aldi Accademia" è registrata solo nei due anni successivi, dopo di che i riferimenti e le notizie scompaiono per riapparire negli anni 1512-14, in coincidenza con le speranze maturate con l'elezione al soglio pontificio di Leone X, in un senso che lascia pensare, come ha notato Dionisotti (p. 73), più a un "ideale disegno da tradurre in realtà in futuro", che a un'istituzione vera e propria.
Il progetto di accademia intesa come rifugio dalle difficoltà dei tempi si intrecciò strettamente con il sogno di trasferirsi alla corte imperiale, sempre allo scopo di sfuggire alle incombenze del vivere quotidiano. Tale idea maturò per lo meno dal 1498, quando il dotto letterato Johannes Reuchlin, che in quello stesso anno aveva pubblicato per il M. un discorso tenuto a Roma a favore dell'elettore palatino, aveva iniziato a perorare la sua causa presso l'imperatore Massimiliano I. Nel tempo i progetti dovevano essere stati diversi. Una lettera del giugno 1503 a Konrad Celtis accenna a un piano del genere e la dedica al consigliere imperiale Mattheus Lang delle traduzioni di Aristotele di Teodoro Gaza sembra andare in questa direzione. Nel 1504 il segretario della Cancelleria imperiale Giovanni Kollauer assicurò al M. il proprio interessamento presso Massimiliano I, rendendolo fiducioso circa un felice esito della questione, tanto che nella dedica dell'Urania di G. Pontano dell'agosto 1505 lo ringraziava per l'opera svolta presso l'imperatore "pro academia constituenda". Tuttavia, nella seconda metà del 1505, malgrado il M. stesse già preparandosi alla partenza, chiudendo la stamperia di S. Agostin, il trasferimento non maturò, lasciando il M. incerto circa il proprio futuro.
Tra 1504 e 1505 la stamperia non riuscì a mantenere i ritmi degli anni precedenti. Proseguì con una certa lena le edizioni greche con i commenti di Giovanni Grammatico ad Aristotele, i poemi di Gregorio Nazianzeno, Omero e le orazioni di Demostene. Tra le edizioni latine spiccano le traduzioni di Teodoro Gaza. In italiano l'unica edizione fu la celeberrima princeps degli Asolani di Bembo del 1505, di cui si ebbero due diverse emissioni, una con e una senza la dedica a Lucrezia Borgia.
È questo un periodo caratterizzato da gravi incertezze. È probabile che vi siano stati dissapori all'interno della società editoriale, preoccupata per i costi delle edizioni greche a cui non corrispondeva un rapido riscontro commerciale. Tuttavia, i rapporti con Torresano si strinsero ulteriormente. Agli inizi del 1505 il M. sposò Maria, figlia appena ventenne di Andrea. Dal matrimonio nacquero cinque figli: Manuzio (1506), Alda, Letizia, Antonio (1511), Paolo (1512). Sul finire di quell'anno il M. lasciò l'originaria abitazione a S. Agostin per trasferirsi presso la famiglia Torresano a S. Paternian.
Nel 1506 tuttavia l'attività tipografica si interruppe. Il 27 marzo il M. testò a favore del suocero e, il giorno successivo, i due soci sottoscrissero un atto con cui univano le rispettive proprietà, ripartite per i 4/5 ad Andrea e per la quota rimanente al M., il quale poco dopo partì per un viaggio in Lombardia alla ricerca di manoscritti da pubblicare. A Milano ebbe modo di frequentare gli ambienti della corte e di conoscere figure come Iacopo Antiquari, Matteo Bandello, Jean Grolier e Jeffroy Charles (de Charolais). In luglio, passando da Cremona ad Asola, fu arrestato per errore dai soldati mantovani e rinchiuso "in una presona teterrima et pozulente" (Lowry, 2000, p. 130). Venne liberato grazie all'intervento personale di J. Charles, presidente del Senato di Milano, istituito da Luigi XII, al quale, riconoscente, nel 1509 dedicò le odi di Orazio.
Il M. dovette ritornare a Venezia verso la fine del 1506; l'anno successivo, rimise in moto la stamperia. Il 28 ott. 1507 gli scrisse Erasmo da Rotterdam per proporgli le sue traduzioni latine dell'Ecuba e dell'Ifigenia in Aulide di Euripide.
Gli confidava che una sua edizione del M. gli avrebbe reso fama immortale soprattutto se stampata con i caratteri corsivi, che riteneva i più eleganti possibili, e si offriva di contribuire con l'acquisto di 200 copie. L'iniziativa di Erasmo documenta il consolidamento della fama del M. in Europa. Era inoltre quanto gli occorreva per riprendere la stampa, tranquillizzando i soci con iniziative di sicuro riscontro commerciale. A fine anno l'edizione era pronta e dovette risultare di piena soddisfazione per Erasmo, che poco dopo si presentò di persona a Venezia per occuparsi personalmente della nuova edizione dei suoi Adagia, completata nel settembre 1508. Anni dopo Erasmo avrebbe tracciato in un suo famoso dialogo, l'Opulentia sordida, un gustoso ritratto della vita quotidiana nell'officina del M., mettendo in ridicolo Torresano, descritto come un ricchissimo taccagno, ma risparmiando il M., affettuosamente citato anche nell'Elogio della follia a proposito delle follie dei grammatici e degli eruditi.
Tra 1508 e prima metà del 1509, sulla spinta delle edizioni di Erasmo, la stamperia riprese vita. Videro allora la luce in greco i retori e gli Opuscula di Plutarco, grazie alla collaborazione di Demetrio Ducas, celebre ellenista e futuro curatore della Bibbia poliglotta complutense, e, in latino, in 8°, gli Opera di Orazio, di Sallustio e le Epistolae di Plinio il Giovane. Queste ultime, da poco ritrovate e trascritte a Parigi dal celebre architetto fra Giovanni Giocondo sulla base di un manoscritto molto antico, furono pubblicate insieme con altri scritti di Plinio, il De viris illustribus di Svetonio e i Prodigi di Giulio Ossequiente, anch'essi appena rinvenuti da Giocondo in un convento francese.
Ma nella primavera del 1509, le operazioni militari intraprese dalla Lega di Cambrai contro la Repubblica di Venezia causarono una nuova sospensione delle attività. Dopo la sconfitta di Agnadello (14 maggio), nella seconda metà del mese, il M. lasciò Venezia per Ferrara. Contemporaneamente una serie di atti regolarono formalmente i rapporti con Torresano. Questi cedette al M. alcune proprietà ad Asola e parte della dote della figlia, mentre il M. nominò Torresano suo agente a Venezia. Il 28 settembre venne sciolto l'atto di fusione delle proprietà.
Tali mosse celano in realtà un accordo tra i soci che avrebbe consentito loro di salvare comunque la stamperia, qualunque fosse stato l'esito della guerra. A Venezia Andrea ne sarebbe apparso il legittimo proprietario. Qualora invece avessero prevalso i collegati, il M. avrebbe potuto far conto sulle relazioni con le corti francese, imperiale e ferrarese, tanto più che A. Pio era stato consigliere della Corona francese in occasione della costituzione della Lega di Cambrai. Possono del resto essere stati anche questi legami a indurre prudenzialmente il M. a lasciare Venezia proprio nel momento più delicato, mentre una lettera dell'imperatore Massimiliano I al marchese di Mantova Francesco II Gonzaga lo definiva "fidele dilecto Aldo Romano familiare nostro" (Baschet, doc. XVIII).
Anche le dediche degli inizi 1509 portano tra gli avversari della Repubblica. Gli scritti morali di Plutarco, del marzo, sono indirizzati all'umanista Iacopo Antiquari, già uomo di fiducia degli Sforza rimasto a Milano anche dopo la conquista francese, e le Odi di Orazio dello stesso mese a J. Charles, controbilanciate dal Sallustio di aprile rivolto a Bartolomeo d'Alviano, comandante delle truppe venete. Non vi sono tuttavia testimonianze che lascino ipotizzare un coinvolgimento politico del M. in appoggio alle manovre dei collegati o rapporti diversi da quelli intellettuali.
Nel 1509 il M. si stabilì a Ferrara, pur non rinunciando a muoversi. Nel 1511 sono segnalati soggiorni a Bologna e a Siena, dove avrebbe incontrato ancora una volta Erasmo. A Ferrara il 24 ag. 1511 dettò un nuovo testamento. Nel giugno del 1512, tranquillizzato sulla situazione politica, tornò a Venezia e riattivò la stamperia, in un momento di particolare incertezza, determinata dalla difficile congiuntura e dal sorgere di nuove iniziative concorrenti in altri centri italiani ed europei. Il M. era tuttavia ancora capace di vivaci entusiasmi. Nel marzo 1513 vide con particolare favore l'elezione di Leone X, ritenuto in grado di promuovere un forte processo di riforme all'interno della Chiesa e legato ad alcuni patrizi veneziani che gli erano vicini, come V. Querini e P. Bembo. Al nuovo papa, pochi mesi dopo, dedicò le opere di Platone con appassionate parole che, nel momento in cui il mondo si stava allargando grazie alle scoperte geografiche, auspicavano la costituzione di una comunità universale dei cristiani e la possibilità di "restaurare le buone lettere" con l'aiuto dei "migliori libri", per diffondere le "arti e le discipline liberali".
La ripresa dei torchi aldini avvenne con una serie di edizioni greche di grandissimo prestigio e con la continuazione della collana in 8° di classici latini. Il M. poté tra l'altro contare in questi anni di guerra sull'afflusso in laguna di letterati e studiosi che avevano lasciato soprattutto Padova e la Terraferma veneta. Uscirono allora con la cura di Marco Musuro i retori greci, i carmi di Pindaro e soprattutto gli Opera di Platone in due volumi in folio; in latino si ebbero le edizioni in 8° di Cicerone e Cesare. Nel 1514 furono editi, sempre in latino, Catone, Quintiliano, Valerio Massimo, Virgilio e la Rhetorica ad Herennium, in volgare, oltre a una ristampa di Petrarca, l'Arcadia di I. Sannazzaro, coronando un desiderio di molti anni prima.
Ormai ultrasessantenne, il M. pare avvertire ancor più che in passato le fatiche del quotidiano impegno in stamperia. Dalla dedica ad Andrea Navagero della Rhetorica ad Herennium, traspare tutto il suo disagio per un lavoro che lo costringeva a rispondere a lettere provenienti da tutto il mondo, a ricevere visitatori curiosi di sapere cosa fosse in procinto di pubblicare e ad ascoltare importuni desiderosi di pubblicare con i suoi torchi. Nel gennaio 1515 diede alle stampe la sua ultima edizione, il De rerum natura di Lucrezio in 8°.
A pochi anni dall'esplosione dell'eresia luterana, la stampa di un classico latino quanto mai lontano dall'ortodossia cattolica, di cui il M. era pervaso, pareva suggellare la grande stagione umanistica. Nella dedica ad A. Pio il M. presentava l'autore come poeta e filosofo grandissimo "ma pieno di falsità", che dissentiva radicalmente dallo spirito del cristianesimo. Eppure gli pareva meritevole di essere letto e non in grado di porre in crisi la verità.
Il 16 genn. 1515 il M. dettò a Venezia l'ultimo testamento. Il 6 febbraio morì. L'orazione funebre fu tenuta da Raffaele Regio, lettore pubblico di umanità presso lo Studio di Padova.
Alla sua morte la stamperia attraversò un periodo di smarrimento, data la difficoltà di raccogliere l'impegnativa eredità. In vent'anni di lavoro l'oscuro maestro proveniente dalla campagna laziale e proteso verso un ideale tutto intellettuale aveva radicalmente cambiato il modo di concepire il libro. Ne aveva compreso a fondo la natura, adeguandola alle potenzialità offerte dalla tecnologia della stampa e aveva fornito un contributo essenziale alla definizione del libro moderno, favorendo il radicamento di nuove abitudini culturali. La sua lezione era stata decisiva e si era rapidamente diffusa in Europa. Il suocero Andrea Torresano rimase il capo indiscusso della stamperia sino al novembre 1517, proseguendo progetti editoriali già avviati e mantenendo vaste relazioni intellettuali, anche con Erasmo. Lo coadiuvava Battista Egnazio, che non disponeva però della necessaria pratica commerciale. Dall'autunno 1517 la direzione dovette passare al figlio di Andrea, Giovanni Francesco, giovane apprezzato e di vasta preparazione culturale, che aveva appreso il greco probabilmente alla scuola dello stesso Manuzio. Fu appunto il giovane Torresano a firmare quasi tutte le prefazioni sino al 1528, quando, con la morte del padre, si aprirono vivaci contrasti tra gli eredi, che portarono alla chiusura della tipografia tra 1529 e 1533. Dopo di che iniziò a emergere la figura di Paolo Manuzio.
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