Magnati
Magnas ha origine dal latino magnus, come primates da primus: quindi il " grande " dei cronisti del tempo di D. ne è la traduzione letterale, mentre " potente ", termine altrettanto usato nel linguaggio comune dai contemporanei dell'Alighieri, ha la sua radice nel latino potens. Ma i termini volgari nella traduzione perdono il significato pregnante insito in magnas: quella del m., infatti, più che grandezza è grandigia, nel che sono implicite alterigia e superbia, mentre la potenza è tracotanza. Va inoltre sottolineato il fatto che m. non è termine che denota un ceto definito e definibile, bensì un condensato di qualità sostanzialmente negative, per contenere le quali lo stato è costretto a ricorrere a misure di carattere eccezionale.
Elenchi ufficiali di m. fiorentini della fine del Duecento non sono a noi pervenuti, ma sono a nostra disposizione le liste edite dal Salvemini in appendice alla prima edizione del suo Magnati e popolani, che sono alla base delle nostre osservazioni.
Si tratta, com'è noto, degli elenchi riferiti agli anni 1293 e 1295, il primo dei quali riporta 70 casate, mentre l'altro ne enumera 72, cioè due in più. Di queste famiglie poche sono quelle di antica nobiltà, mentre la massa è di origine villereccia e di più o meno recente immigrazione: quindi nei m. fiorentini non si riscontra omogeneità di origine e di condizione, per cui sarebbe assurdo affermare che alla fine del Duecento essi costituiscono un ceto nettamente differenziato dagli altri. Ancora: la maggior parte risulta proprietaria di case, torri, fondaci in città e di terre nel contado, ma nel contempo non sono estranei all'ambiente economico e finanziario cittadino, di cui essi generalmente fanno parte e addirittura in posizioni di preminenza, né hanno caratteri peculiari di differenziazione dagli elementi più in vista del popolo grasso. In conclusione, m. e popolani, naturalmente questi ultimi nel senso di popolani grassi, non esprimono affatto ceti diversi ma, anzi, sono entrambi espressione dell'ambiente plutocratico e borghese; perciò nobiltà e plutocrazia, per usare un'espressione cara al Salvemini, sono praticamente un tutt'uno e non presentano tra loro differenziazioni apprezzabili: da qui la mancanza di toni drammatici di contrasto sociale, come hanno dimostrato in maniera chiara e convincente le ricerche dell'Ottokar per il comune di Firenze alla fine del Ducento. Ma se anche è omogeneo dal punto di vista socio-economico, il ceto dirigente del comune della fine del sec. XIII è ancora profondamente diviso e lacerato da odi profondi: è gente riottosa (ed è l'aspetto messo di continuo in evidenza dalla cronistica del tempo); lo spirito di fazione agita ancora fortemente questa società, il che non turba, tanta è la vitalità della stessa, il continuo meraviglioso sviluppo del periodo.
Il gruppo di governo, sintetizzato nella formula nobiltà-plutocrazia, logicamente non esaurisce in sé stesso la società politica del comune: esso costituisce il ceto dirigente, ma accanto coesiste una numerosa schiera di persone (artigiani minuti o anche maggiori), la quale è esclusa dalla vera gestione del potere e partecipa alla vita politica della città in tono minore e con scarse possibilità di successi durevoli. La vocazione antimagnatizia della società comunale della fine del Duecento e la spinta all'emanazione della legislazione contro i m. dello stesso periodo va ricercata in quest'ambiente, che poi in definitiva è l'oggetto della grandigia dei potenti. Atteggiamenti di prepotenza da parte di elementi posti al vertice della società comunale sono rilevabili un po' dovunque e in ogni periodo: è certo, però, che a Firenze dopo Campaldino (giugno 1289) la superbia dei grandi rinverdisce (" Campaldino li aveva insuperbiti ", dicono i cronisti) per il semplice fatto che la vittoria si doveva specialmente al loro apporto; e ciò favorisce il coagulo di forze diverse contro i m. e l'ambiente che essi esprimevano, tra le quali un posto di rilievo fu coperto dalla massa popolare, cioè dagli artigiani medi e minori e anche da quei maggiori non necessariamente legati all'ambiente di governo: si preparano così gli eventi maturati nel tardo autunno del 1292 che poi, con Giano della Bella, porteranno a un vero e proprio capovolgimento politico.
Le ricerche storiche di questi ultimi tempi hanno ormai chiarito la natura e le forze che sostenevano il governo giunto al potere nel gennaio del 1293: elementi politicamente nuovi, naturalmente anche artigiani minori, entrano nel priorato e costituiscono il nuovo ceto dirigente, alla spinta del quale si doveva l'emanazione della legislazione antimagnatizia del decennio precedente.
Il nuovo ambiente politico dominante, sorretto da un vasto movimento di opinione della massa artigiana cittadina (è la pressione di piazza di cui parla l'Ottokar), accomuna nella condanna il passato ceto dirigente globalmente considerato e colpisce duramente, e forse anche con parzialità, il gruppo magnatizio che ne era l'espressione più vistosa: si arriva così non solo a una nuova rigida legislazione contro i m., questa volta applicata con rigore, ma addirittura all'ostracismo politico degli elementi così duramente colpiti in materia civile e penale dagli Ordinamenti di Giustizia.
I grandi e l'ambiente che essi sottintendono, cui si affiancano elementi popolari scontenti e ostili a Giano, di fronte alla minaccia concreta e reale di un'affermazione duratura del regime popolano ritrovano la perduta unità, della quale sono il sintomo eloquente le paci e i matrimoni celebrati nel maggio del 1295 tra famiglie state sempre tra loro ostinatamente avversarie (Adimari e Tosinghi, Mozzi e Bardi, Adimari e Cerchi, ecc.): così si può ricostruire nella sua interezza il gruppo di governo degli anni 1282-1293, cui segue, come immediato corollario, il temperamento degli Ordinamenti di Giustizia del luglio del 1295, alla preparazione del quale, com'è noto, partecipa anche D. e delle cui norme egli stesso poi fruirà per partecipare alla vita politica della città. Ma l'equilibrio faticosamente raggiunto tra il vecchio ceto dirigente nella primavera-estate del 1295 era instabile e artificioso per i troppi odi che laceravano quest'ambiente: la discordia investe di nuovo tutto il ceto di governo (m. e popolo grasso) e si arriva alla divisione in Bianchi e Neri, nelle cui file si trovano equamente distribuiti elementi magnatizi e popolani grassi; ancora una volta lo spirito di fazione trionfa sull'unità e travolge il ceto di governo del comune di Firenze.
La sostanziale unità socio-economica dei m. col popolo grasso ha conseguenze importanti nella vita politica cittadina e nel godimento degli onori e degli utili (per adoperare un'espressione cara al successivo pensiero politico cittadino) del comune: fino al 1293 i m. sono parte integrante del regime (Ottokar) e partecipano intensamente alla vita politica della città a ogni livello, dal priorato in giù: ma particolarmente richiesta è la loro partecipazione nelle questioni di politica estera e militare, come mostrano senza ombra di dubbio le Consulte fiorentine edite dal Gherardi. La legislazione antimagnatizia di questo periodo tende a colpire penalmente e civilmente non un ceto definito e definibile, ma unicamente individui (i m.) possenti e tiranni, che costituiscono una continua minaccia per i popolani deboli e impotenti (Ottokar).
Ben diverso è il panorama politico degli anni 1293-1295, quando il potere passa in mano a forze nuove e sostanzialmente ostili al ceto di governo del decennio precedente: si assiste allora a un rincrudimento della legislazione contro i m. (Ordinamenti di Giustizia), che poi è applicata con scrupolo, se non addirittura con livore; dal campo penale e civile si passa rapidamente a quello politico e i m. sono praticamente esclusi dalla direzione politica del comune. Dopo il 1295, cioè dopo i noti temperamenti del luglio, le norme contro la partecipazione alla vita politica dei m. saranno mantenute in vigore, ma bisogna anche dire che nella pratica esse saranno sistematicamente svuotate di ogni contenuto perché ai m., con accorgimenti di varia natura, sarà data la possibilità di godere di tutti gli onori del comune.
Uno degli aspetti che meglio caratterizza il ceto dei grandi è il rifiuto della giustizia del comune, alla quale troppo spesso essi vogliono sostituire la propria: si spiega così l'azione violenta e prepotente di Corso Donati del 1287 e si capisce anche come i Bostichi ancora nel 1301 " collavano gli uomini in casa loro " (Compagni II 20). Questa mancata adesione al vivere civile, questo aperto dispregio delle leggi suscita naturali reazioni: e logicamente il disagio e il malumore serpeggiano specialmente nell'ambiente popolare, principale bersaglio della prepotente grandigia dei m.; d'altra parte lo stato, fattosi più adulto e più sensibile a problemi del genere per una diversa base di sostegno, deve intervenire più di una volta in difesa dei popolani impotenti contro le offese dei grandi. Matura così la legislazione eccezionale contro i m., veri perturbatori della quiete pubblica, tendente a raffrenarne la naturale violenza, mentre solo in un secondo momento passerà nel campo politico e i grandi saranno esclusi dalle cariche pubbliche più importanti.
L'emanazione della legislazione contro i m. è stata vista come un momento necessario nel consolidamento della vita dello stato (Rubinstein), mentre altri (Cristiani) giustamente la mettono in relazione con l'affermazione politica delle associazioni di popolo.
C'è del vero in tutte e due le interpretazioni, ma particolarmente importante ci sembra la spinta operata dalla massa popolare che, tutto sommato, era l'ambiente che subiva le conseguenze della superbia dei m. e che aveva tutto da guadagnare dal consolidamento dello stato: situazioni locali particolari (per esempio il generale desiderio di pace aleggiante a Firenze nella primavera del 1280 durante il soggiorno del cardinal Latino) possono aver favorito in qualche misura l'emanazione dei provvedimenti in parola, ma questo non infirma affatto l'assunto sulla parte decisiva sostenuta dal popolo nella questione dei magnati.
A Firenze il problema viene affrontato giuridicamente per la prima volta nella primavera del 1280, ed è da collegare col soggiorno fiorentino del cardinal Latino (Rubinstein): nell'ottobre del 1286, in concomitanza con una maggiore influenza politica della massa artigiana, viene approvata la legge sul sodamento, considerata da tutti gli storici come una tappa fondamentale sulla questione magnatizia. La provvisione ci è giunta in una redazione mutila: supplisce la minuziosa ricostruzione salveminiana, alla quale tutti ricorrono nell'affrontare il problema dei magnati.
Alla domanda: chi si deve intendere per magnate? la legge risponde come segue: " item, ut de potentibus vel magnatibus de cetero dubietas non oriatur, illi intelligantur potentes, nobiles vel magnates et pro potentibus, nobilibus vel magnatibus habeantur, in quorum domibus vel casato miles est vel fuit a XX annis citra, vel quos opinio vulgo appellat et tenet vulgariter nobiles vel magnates ".
Nella pratica, però, la risposta data dalla legge era evasiva e incerta: ma tutto sommato, il legislatore non ne aveva colpa alcuna perché i m., l'elemento da colpire, non costituivano affatto una categoria fissa, delimitata e delimitabile di cittadini; essi, all'opposto, risultavano essere persone cangianti di continuo e il gruppo era formato da individui possenti e grandi, nobili ma anche popolani, elementi tutti quanti turbolenti prepotenti e asociali e come tali meritevoli di essere colpiti civilmente e penalmente da una legislazione eccezionale, come eccezionale e fuori della norma era da considerare la loro condotta.
La condizione di m. non era uno status permanente della persona, bensì una condizione speciale che diveniva giuridicamente rilevante con l'inclusione dell'individuo nelle liste, la cui compilazione era alla base di tutto il problema dal momento che un cittadino era considerato grande, e quindi sottoposto alla legislazione eccezionale, solo se inserito nelle medesime.
Sulla compilazione delle liste, momento veramente cruciale dell'intero problema, sono state fatte varie ipotesi, anche perché nessun elenco ufficiale è a noi pervenuto, mentre quello edito dal Salvemini è una ricostruzione tratta da varie fonti, di cui alcune molto più tarde. È da scartare l'idea patrocinata da alcuni che gli elenchi fossero opera dei Consigli del comune perché questo è contraddetto dalle fonti del tempo e dal fatto che, di massima, quegli organi si occupavano di problemi generali lasciando ad altri l'incombenza del particolare.
Gli organi legislativi, i consigli, fissano i criteri di massima in base ai quali debbono farsi le iscrizioni (tali, ad esempio, le norme contenute nella provvisione del 2 ottobre 1286) e i priori delle Arti (prima i Quattordici), vale a dire il potere esecutivo in senso lato, li stendono poi praticamente. Questo ci permette di chiarire molte cose: prima di tutto la scomparsa di ogni elenco ufficiale dal momento che tutto il materiale archivistico di quest'ufficio della fine del Duecento e dei primi del Trecento è andato completamente distrutto, mentre l'unità socio-economica dell'ambiente nobiliare e plutocratico, cui di massima appartengono i priori e i m., chiarisce molto bene lo scarso numero di famiglie contenute nei medesimi nel periodo 1286-1293, stante la riluttanza dei priori a colpire parenti amici soci, o comunque persone del proprio ambiente.
Questo ci aiuta anche a capire come nel periodo 1282-1293 la legislazione antimagnatizia a Firenze sia male applicata e quasi a malincuore, fenomeno questo non solo fiorentino perché altrove, com'è stato accertato (Fasoli, Cristiani), avveniva pressappoco lo stesso: panorama ben diverso, l'abbiamo già sottolineato, si presenta nel periodo 1293-1295, quando le casate dichiarate magnatizie vengono quasi raddoppiate e la legislazione contro i grandi è rafforzata e applicata rigidamente, se non addirittura con parzialità: il nuovo atteggiamento politico del comune è comprensibile e spiegabile dal cambiamento del ceto di governo, costituito ora da gente politicamente nuova e sostanzialmente ostile al gruppo di potere del periodo precedente, di cui i m. erano gli elementi di maggiore spicco.
Com'è noto, non ci è pervenuto nessun elenco ufficiale di m. e noi più sopra ne abbiamo spiegato il perché: da Leonardo Bruni sappiamo solo che prima dell'emanazione degli Ordinamenti di Giustizia le casate fiorentine dichiarate magnatizie erano solo 38, mentre al tempo di Giano della Bella furono quasi raddoppiate, come risulta dall'elenco ricostruito dal Salvemini e che noi qui di seguito riproduciamo:
Sesto d'Oltrarno: Rossi, Frescobaldi, Mannelli, Ubriachi, Bardi, Mozzi, Gangalandi, Nerli.
Sesto di San Pancrazio: Lamberti, Pigli, Cosi, Mascheroni, Cipriani, Vecchietti, Tornaquinci, Migliorelli, Mazzinghi, Manieri, Sizi.
Sesto di San Pier Scheraggio: Cavalcanti, Infangati, Uberti, Compiobbesi, Tisi, Malespini, Fifanti, Bogolesi, Galli, Gherardini, Sichelmi, Pulci, Amidei, Guidalotti, Bagnesi, Da Volognano, Galigai, Franzesi, Balsami, Ghiandoni, Sacchetti, Foraboschi, Lucardesi, Della Vitella.
Sesto di Borgo: Buondelmonti, Giudi, Giandonati, Bostichi, Soldanieri, Gianfigliazzi, Scali, Spini, Gualterotti, Scolari, Cappiardi, Petriboni, Corbizzi.
Sesto di Porta del Duomo: Della Tosa, Caponsacchi, Arrigucci, Brunelleschi, Agli, Strinati, Da Castiglione, Agolanti, Sommarensi, Amieri.
Sesto di Por San Piero: Adimari, Abati, Cerchi, Pazzi, Tedaldini, Visdomini, Donati, Alisei.
D. conobbe certamente gli elenchi ufficiali, anche perché egli, già l'abbiamo sottolineato, partecipò di persona ai lavori che portarono agli emendamenti degli Ordinamenti di Giustizia del luglio del 1295, in forza dei quali egli poté poi partecipare alla vita politica della sua Firenze.
Di un certo interesse è il raffronto di questi elenchi con le casate cittadine di cui D. fa menzione nel canto XVI del Paradiso: delle 40 famiglie qui menzionate, ben 23 - Adimari, Amidei, Arrigucci, Bostichi, Buondelmonti, Caponsacchi, Cerchi, Donati, Fifanti, Galigai, Galli, Gualterotti, Infangati, Lamberti, Pilli o Pigli, Sacchetti, Sizi, Soldanieri, Tosinghi (Della Tosa), Uberti, Visdomini, Nerli, Vecchietti - figurano negli elenchi magnatizi della fine del Duecento: si tratta di casate di origine lontana o di recente immigrazione, come D. stesso, d'altronde, sottolinea, le quali in quello scorcio del sec. XIII occupavano tuttora un posto di rilievo nell'economia e nella politica del comune; delle restanti 17 famiglie di cui parla D. le più erano estinte, oppure così decadute da non svolgere più un ruolo di rilievo nella vita della città. Facevano eccezione a questa regola solo poche di esse (ad esempio i Peruzzi e i Della Bella), le quali non erano da meno delle famiglie incluse negli elenchi: e la loro esclusione è sostanzialmente la conferma che lo spirito di fazione, di parte, giocava anche in questo un ruolo veramente determinante.
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