MAGISTRATO (lat. magistratus)
Nella costituzione politica greca e romana il magistrato è il cittadino investito di un potere di comando e che agisce nell'interesse della pubblica cosa, senza distinguere se eserciti una funzione militare o civile, legislativa o esecutiva, giudiziaria o amministrativa. Nell'uso comune moderno la parola magistrato designa invece più specialmente colui al quale spetta l'amministrazione della giustizia e suole scambiarsi con quella di giudice. Mentre quindi la trattazione circa i moderni giudici è svolta sotto le voci giudice; giudiziario, ordinamento, in questa voce si parlerà solo dei magistrati greci e romani.
Magistrati greci. - L'indicazione usuale astratta del magistrato in greco è ἀρλή. 'Αρχή in senso più ampio è esercizio ói sovranità, e il cittadino vi partecipa anche in quanto interviene nelle assemblee e siede fra i giudici; in senso più ristretto e tecnico, è potere magistratuale. Aristotele distingue quest'ultimo, come "un potere a tempo" (ἀρχὴ κατα χρόνον), dal primo che è "un potere indeterminato" (ἀόριστος ἀρχή), e definisce i diritti pubblici del cittadino, e ciò in piena armonia con le nozioni giuridiche e col linguaggio corrente, nei tre uffici di ἄρχειν, δικάζειν, ἐκκλησιάζειν: essere magistrato, essere giudice, partecipare alle assemblee (v. città, X, p. 479).
Nell'ordinamento cittadino la magistratura rappresenta l'autorità, in quanto, essendo fornita di mezzi coercitivi, fa valere nei riguardi dei singoli che violino l'ordine giuridico il potere della polis; la continuità, perché, essendo l'assemblea un organo che stabilisce, sì, l'azione, ma non è atto a tradurla in pratica, ed essendo i tribunali organi senza iniziativa, il sistema di magistrature consente un'ininterrotta esplicazione dell'attività dello stato; l'esecuzione perché mediante le magistrature le deliberazioni della città si traducono in atto. La posizione del magistrato è diversa secondo la costituzione: nelle oligarchie sono tratti dalla sola classe che è al potere, sono scelti ad arbitrio ed esercitano un potere non limitato dalle leggi, né controllato dai cittadini. Nelle democrazie, invece, i magistrati sono scelti dalla massa dei cittadini (esclusi i pochi ritenuti indegni), o per elezione, o per sorteggio, o con un sistema combinato di questi due; debbono governare secondo le leggi e sono sottoposti a rigoroso controllo.
Nelle città a regime popolare, come Atene, il controllo del magistrato si esercita: 1. sottoponendolo alla δοκιμασία, esame preventivo nel quale deve provare di possedere i requisiti che la legge richiede da lui e imponendogli il giuramento di osservare le leggi; 2. con l'ἔϕεσις, ricorso del cittadino ai tribunali contro il provvedimento magistratuale ritenuto lesivo; 3. con le εὔϑυναι, resa di conti del denaro amministrato e dell'opera svolta. Sinché il magistrato non ha reso i conti, non può uscire dal territorio dello stato, né essere oggetto di decreto onorifico, né essere adottato, né far testamento. Vi sono delle magistrature proprie del regime oligarchico, come i probuli (πρόβουλοι), altre che correggono il carattere oligarchico della costituzione, come gli efori a Sparta, scelti dal popolo. In ogni regime, poi, si debbono distinguere le magistrature necessarie all'esistenza e al funzionamento giuridico della polis da quelle che sono utili al benessere dei cittadini.
Nei casi in cui il magistrato greco, in virtù dei suoi poteri di coercizione, infligge pene o multe inappellabilmente, l'ufficio punitivo del magistrato rimane entro i limiti di un puro potere amministrativo: non è applicazione giudiciale di legge penale. Quando invece il magistrato deve risolvere una controversia mediante sentenza, allora esplica un potere giudiziario. Però le costituzioni popolari greche cercarono sempre di evitare nella stessa persona il cumulo del potere amministrativo e giudiziario, e quelle magistrature che, come in Atene l'arconte, il re e il polemarco, avevano in un periodo anteriore anche ufficio di giudicare, ebbero dalla democrazia ridotto tale ufficio a pure funzioni formali: ricevere l'istanza dei contendenti, regolare l'istruttoria (ἀνάκρισις), che era opera delle parti, conservare le prove, fare iscrivere la causa a giudizio (εἰσάγειν), presiedere il dibattito e tenere la polizia dell'udienza (ἡγεμονία τοῦ δικαστηρίου). Tali funzioni giudiziarie formali spettavano anche a magistrati minori, nei limiti, s'intende, delle loro attribuzioni. Chiunque fosse il magistrato al cui foro venivano presentate le istanze, giudici della controversia erano i cittadini che formavano i tribunali. È però caratteristico nel diritto attico che la pronunzia dell'autorità giudiziaria non sia mai necessaria per l'irrogazione delle pene, sia pure la pena capitale; poiché se il colpevole, che il magistrato (ἀρχή) intende mettere a morte, non può ricorrere per mancanza di ἔϕεδις (per es., uno schiavo, o un forestiero non protetto da convenzioni con la sua città), ovvero non vuole, perché riconosce l'equità del provvedimento, viene giustiziato senza che vi sia contro di lui sentenza giudiciale di morte.
Nel linguaggio usuale si tendeva a confondere la nozione di magistratura (ἀρχή) con quella di carica pubblica affidata per elezione o per sorteggio; confusione che sappiamo causa di controversie gravi. In senso stretto, però, è magistrato solo chi:1. esplica una funzione che è attività amministrativa della polis; per cui il sacerdote che esercita il suo ufficio in una sfera riconosciuta dalla polis, ma diversa, non è magistrato (ἱερωσύνη, non ἀρχαί); 2. risponde a una necessità pubblica continua e permanente; non sono dunque magistrati gli ambasciatori, i coreghi e coloro che vengono eletti per dare esecuzione a un particolare deliberato dell'assemblea, come la costruzione di opere pubbliche: in genere, tutte le funzioni straordinarie non sono magistrature (ἑπιμέλειαι, non ἀρχαί); 3. ha diritto al rispetto e all'obbedienza dei cittadini; perciò chi è semplice prestatore d'opera per conto della città (διακονία), opera meccanica o professionale, come l'araldo, il medico pubblico, ecc., non è magistrato. Tanto che alcuni di questi uffici sono esercitati anche da meteci, altri normalmente da schiavi (pubblici inservienti).
Nelle democrazie, come ad Atene, ogni cittadino è ammesso alle pubbliche cariche: ne sono esclusi gli ἄτιμοι (capite deminuti), ai quali è tolto l'esercizio di tutti i pubblici uffici; coloro che vivono della pubblica beneficenza; coloro i cui precedenti politici rendano equivoca la buona disposizione verso la città (εὔνοια εἰς τὴν πόλιν); sono esclusi dall'arcontato (come anche dal sacerdozio) i cittadini ascitizî (ποιητοὶ πολῖται). Al magistrato il cittadino deve obbedienza, in tutte le costituzioni. Accadeva tuttavia che nelle città aristocratiche, come Sparta, i maggiori cittadini fossero i primi a obbedire ai magistrati, mentre invece nelle democrazie si ostentasse di non tenerli in gran conto. Il magistrato è inviolabile e, come segno di tale inviolabilità, porta la corona. In Atene il cittadino che gli manchi di rispetto decade ipso iure dai diritti di cittadinanza.
I maggiori magistrati hanno alle loro dipendenze degl'inservienti, anche armati (gli Σκῦϑαι in Atene, corpo armato di polizia; i ῥαβδοῦχοι, uomini armati di bastone, alle dipendenze degli ordinatori dei pubblici spettacoli). Nelle città democratiche ricevono un piccolo onorario; alcuni sono mantenuti a spese pubbliche (in Atene i pritani hanno la σίτησις ἐν τῷ Πρυτανείῳ). Gli arconti hanno alla loro dipendenza un araldo (per le comunicazioni al pubblico) e un flautista (per i sacrifici).
I magistrati ateniesi. - In Atene la scelta dei magistrati è connessa con la divisione della polis in tribù. L'elettorato, l'eleggibilità e il controllo del cittadino sul magistrato sono esercitati attraverso l'appartenenza a una tribù. Delle magistrature alcune sono collettive, altre individuali. La massima fra le magistrature collettive è la bulè, che sbriga le pratiche più importanti di politica interna ed esterna. Il suo potere è effettivamente esercitato dalla tribù i cui rappresentanti per un decimo dell'anno siedono come pritani. I pritani ricevono le comunicazioni e le notizie urgenti e provvedono in caso di necessità immediata; il loro presidente, l'ἐπιστάτης, risiede con un terzo dei pritani in ufficio (nella ϑόλος) giorno e notte e ha in consegna il sigillo dello stato e le chiavi del tesoro. I pritani ricevono gli ambasciatori ed esercitano la pubblica ospitalità. La bulè redige l'ordine del giorno dell'assemblea e ne prepara i decreti. È il principale organo esecutivo: compila e rivede i quadri delle forze militari; provvede alla costruzione delle navi; sorveglia lo stato di manutenzione della flotta e degli arsenali; controlla tutta l'amministrazione dello stato. Ha diritto di vita e di morte su tutti coloro che risiedano nel territorio dello stato (salvo il diritto di appello ai tribunali). Delle altre magistrature, individuali e collettive, le più importanti sono:
a) L'arconte (detto da moderni, impropriamente, arconte eponimo, espressione venuta in uso solo nell'età romana); ufficio, secondo la tradizione, prima vitalizio, poi decennale e da ultimo annuale, venne sempre scemando di autorità. Primo magistrato dello stato nel periodo della repubblica aristocratica, nei secoli V e IV ha come uf6cio la sorveglianza dei rapporti familiari, la giurisdizione formale nelle cause familiari e l'organizzazione di alcune pubbliche feste (le grandi Dionisie e le Targelie).
b) Il re, la più alta carica sacrale in Atene, compie i sacrifici pubblici maggiori; presiede all'organizzazione delle feste dei Misteri, delle Lenee e di altre feste religiose; ha giurisdizione sugli altri sacerdoti. Al suo foro sono esperite le azioni per empietà (γραϕὴ ἀσεβείας) e per omicidio (δικη ϕόνου).
c) Il polemarco organizza le celebrazioni in onore dei caduti in guerra, le onoranze funebri per Armodio e Aristogitone, e altri riti. Ha giurisdizione sui meteci (v. meteci). Il carattere militare di questa magistratura con lo sviluppo della democrazia si andò attenuando.
Essendo eletti a sorte e potendo perciò essere privi di ogni pratica ciascuno di questi tre magistrati era obbligato a scegliersi sotto la sua responsabilità due assessori (πάρεδροι), uomini esperti di cose pubbliche.
d) I tesmoteti, magistratura collegiale (che non formava collegio coi tre arconti nominati), avevano come ufficio il dar corso alle istanze pubbliche (γραϕαί), o private (δίκαι) per fatti che direttamente o indirettamente ledessero l'organismo o i vitali interessi deila polis (v. nautodici).
e) Gli undici, sono magistrati di polizia che sopraintendono alle prigioni e alle esecuzioni capitali.
f) Gli strateghi, eletti per χειροτονία uno per tribù, sono i capi dell'esercito e hanno giurisdizione formale nei reati militari. La loro influenza politica, grande nel sec. V, andò scemando nel secolo successivo.
g) Accanto a queste, che erano le magistrature ordinarie più importanti, altri magistrati venivano scelti, di regola per sorteggio: 1. Magistrati il cui ufficio consisteva solo nel dar corso a determinate azioni: i Quaranta, gli εἰσαγωγεῖς. 2. Magistrati di polizia, preposti a servizî nunicipali: polizia delle strade cittadine e sorveglianza delle costruzioni prospicienti le strade (ἀστυνόμοι), sorveglianza del mercato, contro le frodi (ἀγορανόμοι); controllo dei pesi e delle misure (μετρονόμοι); del prezzo e del peso del pane (σιτοϕύλακες); del grano importato, affinché i mercanti ne trasportino i 2/3 ad Atene (ἐμπορίου ἐπιμεληταί); la riparazione dei templi (ἐπισκευασται ἱερῶν), delle strade (ὁδοποιοί). Speciale importanza aveva in Atene la magistratura incaricata di sorvegliare le sorgenti d'acqua in città (ἐπιμελητὴς τῶν κρηνῶν) v), ufficio affidato per elezione a un tecnico. 3. Magistrati finanziarî. Erano tratti a sorte i ricevitori del denaro dovuto all'erario dai privati (ἀποδέκται), i quali avevano anche giurisdizione in materia fiscale con limitato potere di giudicare (entro il valore di 10 dracme); inoltre i tesorieri (ταμίαι) di Atena, i πωκηταί (locazione di beni demaniali; vendita dei beni confiscati). Erano elettivi: l'amministratore della cassa per le spese militari (ταμίας τῶν στρατιωτικῶν) e della cassa per le spese teatrali (ταμίας τῶν τὸ ϑεωρικόν). 4. Magistrati preposti al controllo dei magistrati uscenti: λογισταί (controllo finanziario), εὔϑυνοι (che accolgono le amuse del cittadino contro il magistrato uscente).
h) Magistrature militari, oltre lo stratego (v. sopra), per la fanteria, i tassiarchi, uno per tribù; per la cavalleria, gl'ipparchi, due in tutto, e i filarchi, uno per tribù; e, per la cavalleria in Lemno, un ipparco; per la marina, i sorveglianti degli arsenali (ἐπιμεληταὶ τῶξ ξεωρίων); tutti questi uffici erano elettivi.
i) Magistrature speciali erano l'arconte per Salamina, il demarco del Pireo, il tesoriere della nave Paralos; magistrature straordinarie, i σύνδικοι e i συλλογεῖς, che istruivano il processo per il recupero di beni appartenenti al fisco; gli ζητηταί, eletti in casi speciali per formare una commissione d'inchiesta; gli ἀποστολεῖς, altra commissione nominata in caso di urgenza per curare il celere allestimento di navi.
Magistrature non ateniesi. - Negli stati retti a oligarchia, se anche vi è un'assemblea di coloro che godono pieno diritto di cittadinanza (esclusi, quindi, i più), il potere è concentrato nel consiglio e nei magistrati, che hanno vario nome e potere diverso secondo le costituzioni: i πρόβουλοι a Corinto, i κόσμοι in Creta, gli ἄρτυνοι in Argo. Tanto il consiglio quanto i magistrati, hanno di regola potere giudiziario. I magistrati minori rispondevano alle esigenze tecniche e insopprimibili dell'amministrazione dello stato. Magistratura singolare di Sparta fu l'eforato (v. efori).
Fra le magistrature minori che non hanno riscontro nelle costituzioni ateniesi dell'età democratica, sono particolarmente importanti quelle destinate a mantenere il buon costume: i gineconomi che sorvegliano la condotta delle donne e ne vietano il lusso, e i pedonomi a cui spetta la cura morale dei bambini sotto i sette anni, e che hanno potere d'intromettersi nell'educazione domestica.
Bibl.: G. Busolt, Griechische Staatskunde, 3ª ed., Monaco 1920; B. Keil, Griechische Staatsaltertümer, nella 1ª e 2ª ed. (Lipsia 1912-1914) della Einleitung in die Altertumswissenschaft del Gercke e Norden; sostituito nella 3ª ed. da V. Ehremberg, Der griechische und hellenistische Staat, Lipsia 1932. Per le magistrature in Atene: G. De Sanctis, 'Ατϑίς, 2ª ed., Torino 1912; U.E. Paoli, Studi di diritto attico, Firenze 1930, p. 197 segg.; id., Studi sul processo attico, Padova 1933, p. 23 segg.
Magistrati romani. - Magistratus è in latino tanto la carica o potestà pubblica, detta anche honor, quanto la persona investita di questa potestà (ordinariamente nell'età repubblicana per elezione dei cittadini), che la qualifica ad agire per conto dello stato verso i cittadini, i terzi e gli dei (auspicia). I giuristi romani consideravano tuttavia i re come i più antichi magistrati, il cui potere sarebbe poi passato, assumendo forme diverse, ai magistrati repubblicani; e dalla riunione di magistrature repubblicane si costituì infine una singolare formazione: il principato imperiale romano.
Fonte del potere dei magistrati romani (esclusi il dittatore e il magister equitum) sarebbe stata per gli antichi sino dall'epoca regia l'elezione nell'assemblea popolare; i moderni invece, con esagerazione forse ancora più grave, tendono a considerare la nomina popolare come fonte relativamente recente del potere dei magistrati, i quali ancora nel periodo più antico della repubblica avrebbero ripetuto la loro potestà dalla designazione dei loro predecessori; il riconoscimento chiesto al popolo dei magistrati creati dai predecessori, si sarebbe poi convertito in vera e propria elezione.
Magistrati erano propriamente quelli del comune romano, eletti dalle assemblee generali dell'intero popolo e, fino a una certa epoca, scelti solo fra i patrizi (m. patricii); ma poi si dissero magistrati anche i capi particolari della plebe romana e da essa soltanto eletti, i tribuni e gli edili plebei; e questa estensione del termine corrispose alla trasformazione di essi in organi dell'intera comunità. Noi distinguiamo i magistrati in ordinarî e straordinarî: i primi eletti ogni anno o almeno a periodi più o meno regolari, come i censori; i secondi o previsti per circostanze particolari dalla tradizione e dalle leggi, come i tribuni militari con potestà consolare e i dittatori o creati in via eccezionale da una legge speciale, come i decemviri legibus scribundis.
Soli magistrati ordinarî della repubblica romana erano originariamente i consoli, investiti della totalità del potere (auspicium imperiumque); ma gradatamente si vennero istituendo altre magistrature elettive, di solito con competenze particolari e con poteri quindi più limitati. Si distinsero perciò i magistrati in maiores e minores, con auspicia maxima o minora: ai primi appartenevano il dittatore, il console, il pretore, il magister equitum, il censore; ai secondi l'edile curule, il questore, il tribuno militare elettivo e le altre cariche di minor conto. I primi, e l'edile curule fra i secondi, avevano tutti diritto a sedere sulla sella curulis, segno della giurisdizione, ed erano perciò anche detti m. curules. I m. maiores venivano eletti dai comizî centuriati, i minores dai comizî tributi del popolo.
Il dittatore, il console e il suo collega minore, cioè il pretore, il maestro dei cavalieri e i cittadini eccezionalmente forniti di poteri d'ordine superiore, detengono l'imperium, cioè il potere totale (m. cum imperio), che comprende fondamentalmente il comando militare, ma non solo quello; gli altri sono sine imperio, hanno quindi poteri limitati o, come si diceva, adoperando in senso specifico il termine potestas, col quale però si designa anche il potere in generale, sono m. cum potestate; per es., il censore, in forza della sua potestas censoria, può procedere solo al censo e agli atti con questo connessi, ma non può levare e comandare un esercito ed esercitare la giurisdizione generale. Solo i m. cum imperio hanno i littori coi fasci. La pluralità delle cariche condusse a stabilire una gerarchia delle cariche stesse, che si espresse in due modi. I magistrati cum imperio hanno infatti una maior potestas di fronte a quelli che ne sono privi e fra loro hanno maior potestas i dittatori sui consoli, questi sui pretori; i magistrati sine imperio non hanno maior potestas su nessun'altra carica e il censore è estraneo a ogni rapporto di potestas. I tribuni della plebe hanno maior potestas su tutti i magistrati, tranne il dittatore. Fra di loro i magistrati, che detengono la stessa carica (colleghi, v. sotto), hanno par potestas. Questi rapporti sono la base del diritto di proibire (vetare della maior potestas) e di opporsi (intercedae della maior e par potestas) a un atto d'un altro magistrato. Nel sec. II a. C., fu definitivamente stabilito che alle cariche ordinarie si doveva accedere secondo un ordine corrispondente alla loro importanza: la questura era il primo gradino e il consolato l'ultimo della carriera, e dopo il consolato si ambiva eventualmente la censura. Carattere fondamentale delle magistrature repubblicane è la temporaneità: esse sono generalmente annuali (la dittatura non va oltre i sei mesi, i censori stavano in carica diciotto mesi). Introdotta in antitesi al potere regio vitalizio e per impedirne la risurrezione in altra forma, la temporaneità della funzione ebbe per conseguenza la responsabilità del magistrato che, deposta la carica (e in via. normale e secondo la buona tradizione romana solo allora), può essere chiamato a rispondere dei suoi atti. Altra caratteristica essenziale e originalissima delle magistrature romane ordinarie è la collegialità, cioè che di esse sono investiti contemporaneamente almeno due colleghi. Ciò non significa che il potere sia diviso fra i colleghi o sia da essi esercitato collegialmente nel senso moderno; ciascuno dei colleghi è investito di tutto il potere spettante alla sua carica e gli atti che egli compie da solo hanno piena efficacia, purché non intervenga ad arrestarli l'opposizione del collega (intercessio), la quale senz'altro prevale. La collegialità fu istituita in antitesi al potere monarchico dei re, ma escludeva il reggimento corporativo e conservava al magistrato l'unità e quindi l'efficacia del suo potere. Anzi, molti atti non possono essere compiuti che da un solo magistrato, per es., la giurisdizione. Perciò e per ovviare al pericolo di un abuso dell'intercessio e dell'arresto della vita dello stato, servivano, oltre al senso di responsabilità del magistrato e al peso morale dell'opinione del senato e del popolo, dei temperamenti, quali il turno (per i consoli mensile in città, giornaliero al campo; questo uso venne meno per tempo), l'assegnazione delle incombenze per accordo fra i colleghi (comparatio) o a sorte (sortitio) e l'attribuzione ai colleghi di diverse sfere territoriali militari (provinciae). Ma questi ripieghi non toglievano per nulla a uno dei colleghi la competenza a esercitare qualsiasi delle sue attribuzioni e a intervenire nella sfera d'azione praticamente assegnata al collega. L'intercessio era però inammissibile contro il collega che al campo deteneva il comando, e l'esercizio di questo non veniva tratto a sorte fra due colleghi presenti. La collegialità era soltanto nominale fra i magistrati (pretori e questori) creati dal sec. III a. C. per le provincie. Per molti atti importanti, nella città, scomparso il turno, s'introdusse la cooperazione dei colleghi.
Le elezioni dei magistrati avevano luogo in ordine d'importanza qualche mese prima dell'entrata in carica, per i magistrati cum imperio e i censori nei comizî centuriati sotto la presidenza di un console o di un dittatore, per i magistrati minori nei comizî tributi del popolo sotto la presidenza di un pretore, per i magistrati plebei nei concilia tributa della plebe. Il magistrato presidente dei comizî elettorali aveva ampî poteri; egli doveva prendere gli auspici, esaminava e accettava o respingeva le candidature presentate, invitava il popolo a votare sulla lista dei candidati da lui accolti e, in seguito al voto dell'assemblea, proclamava gli eletti. Per aspirare alle magistrature era necessario possedere in generale la cittadinanza completa, l'ingenuità, l'onorabilità, la sanità di mente e di corpo, essere di sesso maschile, non essere rex sacrorum e, fino a una certa epoca, appartenere al patriziato, la plebità fu sempre richiesta invece per le cariche plebee e, dopo una certa epoca, per essere eletti a uno dei posti di console o censore. La mancanza di questi requisiti rendeva nulla anche l'elezione avvenuta. Inoltre vennero gradatamente vietati il cumulo delle cariche, la continuazione (gestione delle cariche senza intervallo) e infine l'iterazione. La legge Villia del 180 stabilì poi che le cariche dovessero essere gestite in un certo ordine (cursus honorum) e con determinati intervalli minimi; inoltre, per presentarsi alla questura, si richiedevano almeno dieci anni di servizio militare.
Fino all'entrata in carica, i magistrati eletti si dicevano designati e avevano certi diritti e speciale auctoritas; i magistrati del comune entravano in carica prima a epoca non fissa, dalla fine del sec. III a. C. il 15 marzo e dal 153 a. C. il 1° gennaio (di qui l'origine del capo d'anno dei popoli civili moderni); i questori però il 5 dicembre. I tribuni della plebe assumevano l'ufficio il 10 dicembre. Entro cinque giorni dell'entrata in funzione, i magistrati dovevano iurare in leges dinnanzi al questore urbano. Una lex curiata del popolo dava al magistrato maggiore l'imperium, una lex centuriata la potestas ai censori. Il magistrato cessava dalla sua funzione per decorso del periodo legale assegnato alla carica, per morte o per abdicazione; ma il potere non gli poteva essere tolto coattivamente e i pochi casi di deposizione di magistrati degli iltimi tempi della repubblica sono da considerarsi come atti rivoluzionarî. Anche se dichiarato vitio creatus, cioè eletto con auspici sfavorevoli, il magistrato non poteva essere deposto; si poteva solo invitarlo a dimettersi. Giunto alla fine della carica, il magistrato giurava in contione d'avere governato secondo le leggi e la sua coscienza (eiurare magistratum) e spesso illustrava in un discorso l'opera sua. Al magistrato, che impersonava la maiestas del popolo romano, spettavano onori particolari. I magistrati curuli avevano diritto alla toga praetexta, cioè orlata di porpora, e, come generali in guerra, al mantello rosso (sagum, paludamentum); nel trionfo, alla presidenza dei ludi e in certi sacrifici i magistrati portavano, come un tempo i re, la tunica e la toga tutte di porpora con ricami d'oro. Tutti dovevano levarsi al passaggio del magistrato e riverirlo. Sulla sella curulis v. sopra: i questori avevano una sella semplice, i tribuni il subsellium. I magistrati avevano diritto a posti speciali nei giuochi e d'essere preceduti da lampade di notte. Gli ex magistrati avevano diritto di sedere in senato nella categoria corrispondente alla carica sostenuta, di portare la toga praetexta o trionfale nelle solennità, di essere con essa sepolti e a essi solo spettava un tempo la laudatio funebre nel foro alla presenza delle imagines maiorum, che avevano sostenuto magistrature curuli.
La magistratura è un honor ed è perciò gratuita; ai magistrati spettano solo indennità e diritti di requisizione per l'equipaggiamento, il mantenimento e il trasporto proprio e del seguito. Se le indennità erano superiori alle spese incontrate, era ritenuto lecito che il magistrato si tenesse l'avanzo. Se le indennità assegnate per i ludi non erano sufficienti, il magistrato sopperiva del proprio. Della preda di guerra il magistrato poteva disporre come credeva, senza l'intervento del questore (obbligatorio per i fondi assegnati dallo stato per la guerra), ma a favore dei soldati o in altro modo, sempre però nel pubblico interesse; e così gli edili dovevano devolvere a scopi di pubblica utilità i prodotti delle multe. Nella realtà, specialmente dopo una certa epoca, le magistrature furono sempre più comunemente considerate come fonti di arricchimento per mezzo della preda di guerra e delle più o meno larvate estorsioni agli abitanti delle provincie. Ciò spiega, accanto all'ambizione, le enormi somme che i candidati profondevano per accaparrarsi i voti degli elettori.
Il magistrato superiore aveva il diritto di scegliersi e nominare degli aiutanti di vario ordine; e a seconda dell'importanza della carica e delle mansioni specifiche, spettava ai magistrati un personale più o meno numeroso (apparitores): scribae, lictores, viatores, praecones, accensi, ecc.; parte di questo personale era scelto dai singoli magistrati, parte era di fatto permanente e assicurava una certa continuità all'amministrazione.
Il magistrato, nell'ambito della sua competenza, è arbitro dei suoi atti; ma egli ha l'obbligo morale d'interpellare, prima di prendere decisioni definitive, o il senato o un consilium di persone autorevoli da lui stesso scelte. In certi casi, e sotto la sua responsabilità, egli poteva delegare ad altri speciali funzioni militari e giurisdizionali.
L'imperium dà in primo luogo il potere militare, cioè di fare leve, di ricevere il giuramento dei soldati, di nominare gli ufficiali ai quali non sia stata estesa l'elezione popolare, di condurre la guerra, di battere al campo moneta, di esercitare la giurisdizione militare, di riportare il trionfo. Per far rispettare i suoi ordini e la sua autorità, il magistrato ha la coercitio e può servirsi specialmente della pena capitale, della multa, del pegno, dell'arresto e delle pene corporali; ma la pena capitale e, oltre certi limiti, la multa, sono sottoposte alla provocazione al popolo in città. Le pene corporali furono presto vietate nella città. Il diritto alla coercitio era posseduto anche da magistrati minori, in forme e con limiti varî, e dai tribuni della plebe con estensione massima. L'imperium dà ai magistrati che ne sono forniti la giurisdizione; quella civile fu però a un certo momento affidata al pretore (v.) e quella criminale fu abbandonata dai magistrati superiori ai questori o ai duoviri perduellionis, mentre i tribuni continuarono a esercitarla nel campo politico e gli edili per le multe di qualsiasi specie. Ma nella città per le accuse capitali e per le multe oltre certi limiti, il magistrato fu obbligato a sottoporre l'eventuale condanna da parte sua del reo all'approvazione dell'assemblea popolare. Nell'ultimo periodo della repubblica la giustizia criminale fu deferita a tribunali appositi (quaestiones). I magistrati con competenza amministrativa (censori, edili, questori) esercitavano la giurisdizione fra i privati e lo stato.
Ai magistrati compete poi il ius edicendi, in generale il diritto di far note le loro volontà al popolo per mezzo di edicta orali o scritti o di tener un discorso pubblico in contione; ai magistrati superiori, e per la giustizia criminale anche ad alcuni dei minori, il ius agendi cum populo (e i tribuni della plebe cum plebe), cioè di convocare il popolo o la plebe per le elezioni e per le votazioni sulle leggi o sulle proposte di pene; il ius referendi, cioè il diritto dei magistrati maggiori e dei tribuni di convocare il senato e provocarne il parere consultivo, mentre tutti i magistrati possono fare a esso comunicazioni. Ma il parere consultivo del senato finì per soverchiare, almeno dal sec. III a. C., l'iniziativa del magistrato e ridurlo spesso a un puro organo esecutivo. Al magistrato cum imperio infatti spetta fare le leve, ma il senato decide della loro entità e della loro destinazione; le trattative dei magistrati con le potenze straniere sono sorvegliate da commissioni senatoriali e i trattati di pace e di alleanza sono approvati dal senato, prima che dal popolo. Senato e popolo potevano poi disapprovare le obbligazioni che il magistrato aveva assunto di fronte ad altri popoli, e si producevano allora situazioni come quelle che seguirono al trattato di Claudio e a quello con i Numantini. Il magistrato mantiene sempre il suo diritto d'iniziativa di fronte al senato e al popolo; l'uno e l'altro non possono deliberare che dietro convocazione e su proposta del magistrato; l'iniziativa in ogni campo manca specie alle assemblee popolari, che pure sono sovrane. I magistrati maggiori possono fare voti e dedicazioni agli dei; ma in dati casi con l'approvazione del popolo e del senato. Essi rappresentano giuridicamente il popolo e quindi possono, a seconda delle loro attribuzioni, conchiudere negozî giuridici con privati a nome del popolo; però, dopo una certa epoca e nei casi più importanti, con il consenso del senato e se si tratta di alienazione d'immobili a titolo gratuito devono chiedere l'autorizzazione al popolo. Deposta la carica, i magistrati possono essere chiamati a rispondere dei loro atti: contro un magistrato in carica si procede solo se volontariamente si sottopone a processo o per legge speciale. I procedimenti contro ex magistrati assunsero di solito la forma di processi tribunizî dinnanzi alla plebe, e dal sec. II a. C. di processi dinnanzi a quaestiones speciali o permanenti.
Con l'estendersi del territorio romano e per far fronte alle esigenze della condotta della guerra, si dovette dal sec. III a. C. e in deroga al principio dell'annualità delle magistrature, concedere spesso ai magistrati delle provincie di conservare l'imperium per un tempo determinato (di solito un secondo anno), ciò che prima avveniva solo se per qualche ragione al magistrato non era ancora subentrato il successore. Essi si chiamavano allora promagistrati (proconsul, propraetor, proquaestor). A un magistrato poteva inoltre essere delegato il potere spettante a un'altra carica: per es., a un questore l'imperio pretorio (quaestor pro praetore). Anche colui che un magistrato delega a sostituirlo in caso di sua assenza è pro magistratu. La promagistratura divenne istituto normale con Silla e servì di base al potere personale dei capiparte dell'ultimo periodo della repubblica; assieme con l'affievolirsi del principio della collegialità, essa preluse al ristabilimento della monarchia.
Le magistrature repubblicane continuarono a esistere sotto l'impero. Ma con Tiberio l'elezione dei magistrati passò al senato, e la commendatio del principe e il suo invito a includere certe persone nella lista di candidati resero illusoria anche l'elezione senatoriale; Nerone attribuì senz'altro al principe l'elezione dei consoli. L'età necessaria per presentarsi alle cariche e l'ordine nel quale esse dovevano essere rivestite, dagli uffici minori ai gradi più elevati, furono minutamente fissate sotto il principato; vantaggi furono attribuiti ai padri e ai coniugati. Il principe poteva però dispensare dalle norme comuni e inoltre concedere i diritti politici e onorifici (adlectio inter consulares, ecc.) o i soli onorifici (ornamenta consularia, ecc.), derivanti dalla gestione di una carica, anche a chi non l'aveva sostenuta. Ma l'importanza politica delle magistrature repubblicane diminuì sempre più durante l'impero quanto più crescevano i poteri del principe e dei nuovi organi amministrativi e militari da questo creati; da un certo momento esse valevano solo ad aprire l'adito al senato e quindi ai gradi più elevati della gerarchia militare e amministrativa, quando non servivano ad altro che a soddisfare la vanità delle classi elevate. Dopo Diocleziano le magistrature repubblicane sono nomi vuoti di ogni contenuto.
Sui magistrati municipali v. colonia; municipio.
Bibl.: Fondamentale è il vol. I di Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, 3ª ed., Lipsia 1887, per la teoria generale della magistratura e il vol. II per le singole magistrature (voll. I-IV della trad. francese Le droit public romain, Parigi 1887 seg.). Vedi poi, oltre alle grandi storie di Roma, P. Bonfante, Storia del diritto romano, 3ª ed., Milano 1923, passim; P. De Francisci, Storia del dir. rom., I, Roma 1926 (2ª ed.), II, i, 1929, passim; B. Kübler, s.v. Magistratus, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIV (1928), col. 400, questi due ultimi con ricca bibl., alla quale si può aggiungere: A. Hägerström, Das magistratische ius in seinem Zusammenhang mit dem röm. Sakralrecht, Upsala 1929; E. Leifer, Studien zum antiken Ämterwesen, I: Zur Vorgesch. des röm. Führeamts, Lipsia 1931 (Klio, n. s., fasc. suppl. 10°). V. pure la bibl. alle singole magistrature.