La “fortuna” di Machiavelli, vale a dire, la sorte del fascino e della impressionante ricezione e circolazione dell’analisi contenuta nel Principe, deriva anche dalla quantità e dall’intensità delle critiche ricevute alla sua concezione della politica. Fin dalle prime traduzioni, i critici, alcuni dei quali neanche si curarono di leggere con attenzione e di studiare il suo testo, condensarono tutte le loro obiezioni nella espressione “machiavellismo”. Per loro, i caratteri distintivi della concezione della politica di Machiavelli consistevano in una deteriore combinazione, in ordine sparso, di cinismo, crudeltà, dissimulazione, immoralità. Nella prospettiva di Machiavelli, le leggi della politica non hanno nulla a che vedere con i precetti morali, tantomeno con i precetti religiosi. Di qui l’attribuzione a Machiavelli di una frase,“il fine giustifica i mezzi”, da lui mai scritta. Il “fine”, ovvero la conquista e la conservazione del potere politico, giustificherebbe l’uso, ogniqualvolta sia necessario, della crudeltà e della dissimulazione, della forza e dell’astuzia. Al proposito, uno dei riferimenti più spesso citato è il famoso invito al Principe di “pigliare la golpe e il lione: perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi”.
Gli estimatori di Machiavelli non hanno, per lo più, negato che, seppure in maniera molto cruda, il loro autore consigli al Principe di usare tutti gli strumenti che gli servano per diventare e rimanere principe. Qualche volta si sono spinti fino a cogliere in Machiavelli il desiderio di riacquisire un ruolo tecnico-politico, di consigliere del Principe, oggi diremmo consulente, forse ricorrendo all’inglese spin doctor. Dalla “cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata … con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche” Machiavelli estrae un repertorio di comportamenti che mette a disposizione del Principe, non di qualsiasi Principe, ma di colui che vorrà offrirgli un ruolo, magari più complesso e gratificante del semplice “voltolar di un sasso”.
I denigratori di Machiavelli, oltre a fare riferimento ad una non meglio precisata moralità e ai precetti religiosi che soli potrebbero assicurare l’ordine politico e garantire una gestione del potere degna di plauso, sostengono che Il Principe esprime una visione della politica altamente immorale, riprovevole, assolutamente deteriore, con insegnamenti diabolici, da respingere con sdegno. È la stessa separazione della politica dalla morale che inquieta e scandalizza i denigratori di Machiavelli.
Per quanto fin da subito non mancassero gli estimatori, per diversi secoli i denigratori furono superiori per numero e, forse, per influenza. Però, è possibile sostenere che entrambi, sicuramente in misura maggiore i denigratori, hanno sbagliato l’interpretazione. Certamente, Machiavelli stava cercando un Principe che volesse prestare attenzione alle sue riflessioni, alle sue idee e alle sue proposte. Altrettanto certamente, Machiavelli non era disposto a riformulare nulla di quanto aveva scritto semplicemente per compiacere un qualsiasi Principe. Desiderava, invece, che quel Principe adoperasse le sue considerazioni e le sue lezioni al fine di conseguire l’unificazione dell’Italia, un bene di gran lunga preferibile a qualsiasi sua ambizione personale, persino, come scrisse, alla salvezza della sua anima.
Andando alla ricerca della “verità effettuale”, l’analista non diventa “consigliere del Principe”. Non ambisce a mettersi al suo servizio a scapito della sua visione. Machiavelli non è un intellettuale che cerca un impiego dallo Stato e dai governanti. Le sue formulazioni sono al servizio di una certa idea di scienza e conoscenza, di politica e di governo, delle virtù repubblicane (ovvero del buongoverno a favore del popolo). Talvolta la conquista, il mantenimento e l’esercizio del potere di governo possono richiedere comportamenti che chi non ha cariche e responsabilità può trovare criticabili, ma tutt’altro che incomprensibili nell’ottica dell’autonomia e della libertà del Principato.
Nel corso del tempo, il Machiavellismo è stato visto e valutato in maniera sfumata non facendone più una sorta di breviario da leggere lungo la strada per l’Inferno. Peraltro, l’accusa di Machiavellismo continua ad essere rivolta contro leader politici che appaiano, talvolta con piena cognizione di causa, manipolativi, che operino con scarsa trasparenza, che, pur in situazioni democratiche, tramino nell’ombra. Per queste sue pratiche, François Mitterrand, Presidente della Quinta Repubblica francese dal 1981 al 1995, venne spesso apostrofato come “le florentin”, machiavellico come il fiorentino per eccellenza. D’altro canto, una delle prime e più importanti biografie di Franklin D. Roosevelt, scritta da James McGregor Burns, fin dal titolo, The Lion and the Fox (1956), fa riferimento in modo chiaramente positivo alle modalità con le quali il Presidente degli USA dal 1932 al 1945 fece uso del suo grande potere, combinando la forza del leone con l’astuzia della volpe. Nei comportamenti di Roosevelt e di Mitterrand al servizio delle rispettive “repubbliche”, Machiavelli avrebbe riconosciuto senza esitazioni l’uso più appropriato e più degno di ammirazione del Machiavellismo che gli veniva attribuito.