LUCREZIO (T. Lucretius Carus)
Poeta romano del sec. I a. C. Nulla sappiamo della sua vita, se non due date incerte della nascita e della morte, e una tragica notizia di suicidio per un filtro amoroso che lo avrebbe tratto fuor di senno. Discordi sono i dati sulla nascita e sulla morte che abbiamo in Donato (Vita Verg., 6), in San Girolamo (Chron. Euseb., VII,1), in Cicerone (Ad Quint. fr., II, 9, 3), e in altre fonti di minor valore come la Glossa Monacensis e la cosiddetta Vita Borgiana. I limiti estremi vanno dal 99 al 95 a. C. per la nascita, dal 55 al 51 per la morte: gli anni della vita, secondo S. Girolamo, furono quarantaquattro. La notizia della pazzia e del suicidio è riferita da S. Girolamo (che può averla desunta, come di solito fece, dall'opera perduta De viris illustribus di Svetonio) con le note parole: "amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit". Notizia assai discussa e di cui si cercò conferma nel carattere severo, nella passione austera e contenuta che si rispecchia in tutto il poema, nella drammatica descrizione dei turbamenti d'amore nell'epilogo del libro IV. Tali filtri e tali insanie, prodotte da droghe, non erano senza esempio nell'età classica. Ma non si può neppure escludere un'origine leggendaria, forse anche di fonte cristiana, per il carattere empio che per i cristiani aveva il poema di Lucrezio. Le parole quos postea Cicero emendavit, non altro indicano se non un'edizione fatta fare da Cicerone dopo la morte del poeta. E dei due Ciceroni pare certo che, non essendovi prenome, sia da intendersi l'oratore M. Tullio il quale bramava essere considerato protettore e amico di poeti, e che certo di Lucrezio lesse e apprezzò il poema (secondo appare dal giudizio che ne diede, scrivendo al fratello Quinto, nel 54 a. C., subito dopo la morte del poeta, lodandolo come opera "di molto splendore d'ingegno e nel medesimo tempo di molta arte"). Che in Lucrezio Cicerone dovesse anche ammirare l'arte (e che perciò il giudizio sia quale l'abbiamo tradotto e non ne vada corretto variamente il testo), appunto per il suo carattere di voluto e solenne arcaismo nell'espressione stilistica, che corrisponde ai gusti letterarî del grande oratore, è cosa affatto naturale. Che il poema fosse lasciato da Lucrezio non condotto all'ultima pulitura, appare assai verosimile per varî caratteri interni (ripetizioni, di cui alcune probabilmente avrebbe fatto sparire, doppie redazioni, ecc.).
La vita di Lucrezio si svolge in un'età profondamente tragica della storia di Roma. Recenti erano ancora gli echi della guerra sociale e il lutto delle molte decine di migliaia di vittime di quella sanguinosa ecatombe, a cui si aggiunsero presto le stragi delle guerre civili di Mario e Silla, gli odî, i tradimenti, le vendette che insanguinarono le più potenti casate romane. Roma era senza pace. La congiura di Catilina rinnovava gli odî e le repressioni. L'Italia era spopolata dalle guerre, i campi abbandonati, l'agricoltura trascurata, le terre intristivano, la grande madre di biade s'isteriliva. Di questa desolazione sorgono molteplici i lamenti negli altri scrittori latini, non meno che nel poema di Lucrezio stesso, che vede la terra madre stanca di generare vite su vite, e prossima ormai la fine del mondo (v. fine libro II). Tutte queste sventure e tutte queste inquietudini Lucrezio sentì con grande cuore di poeta. Nessuno ha descritto con più profondi risalti drammatici l'agitazione degli animi nelle contese civili e nei travagli dell'ambizione (v. proemio libro II e III) e i gravi tedî della vita di generazioni stanche del semplice godere (III, 1060 seg.); pochi come lui hanno saputo rendere l'aspirazione alla pace, alla serenità, al conforto di sentimenti più umani, in un'età che ha profondamente sofferto. L'opera sua non è così solamente un poema di scienza, ma una conquista di fede e di salute dell'anima. Lucrezio è un degno spirito romano, per cui il sapere non è fredda dottrina astratta, ma strumento di vita e di elevazione morale. Che egli fosse di bassa nascita è erronea illazione del Marx, purtroppo meccanicamente ripetuta spesso, che non trova nell'onomastica romana quella conferma che egli credette darle. Aristocratico era certo un ramo della gente Lucrezia; e di nobile famiglia fu quel Memmio amico di Lucrezio a cui egli dedicò il poema, che può essere (senza che però sia sicura identificazione) quel Gaio Memmio, dilettante di poesia, più dotto di lettere greche che romane, come lo giudica Cicerone, che da propretore in Bitinia ebbe al suo seguito Catullo. Ma solo il nome ne appare nel poema: ché Lucrezio non parla né di sé né dei suoi. L'opera sua dedica in realtà al tempo e all'eternità, non ai contemporanei. In quest'opera di scienza e di esaltazione della potenza della natura, vangelo di vita per gli uomini, con quel suo tono e quell'altezza quasi epica e profondamente drammatica a cui Lucrezio innalza il poema didascalico, non vi è luogo a precisi episodi di vita contemporanea. Del presente non vi è che qualche eco nelle vaste prospettive degl'infiniti sfondi naturali. Una anima come quella di Lucrezio ha bisogno di una fede; ed egli la trovò nella scienza della natura e nella dottrina della serenità di Epicuro. Maestro di saggezza agli animi che cercavano la via di salvezza era già stato Epicuro per più generazioni dell'età ellenistica, che lo proclamarono il "salvatore", lo scopritore di una nuova dottrina, liberatrice degli uomini. Egli aveva rinnovato l'atomismo di Democrito, più saldamente collegandolo all'edonismo e soprattutto dandogli una vivida fede nella possibilità e sicurtà della conoscenza scientifica, contro lo scetticismo gnoseologico che serpeggia nella filosofia di Democrito, e aveva fondata la sua morale nella libertà e autonomia del volere, contro il determinismo democriteo. In un'età avida di sicurezza e di fede, qual'è l'età ellenistica e romana, questo nuovo verbo doveva avere grandi risonanze. E fedelissimi a Epicuro furono i discepoli; e la sua fu una religione della verità e un culto sincero per lo stesso fondatore, Epicuro, quasi senza apostasie, né innovazioni. In Roma questo tono di profonda sicurtà, di dogmatismo robusto, questa fede nel reale e nel sapere, questa religione della serenità e della sicurezza morale, ebbero un fascino singolare. Anche uomini di ardente e ferma azione politica come Cassio, l'amico di Bruto, non meno che spiriti ombratili e squisiti voluttuarî di piaceri intellettivi, come Attico, l'amico di Cicerone, furono epicurei. Prima di Lucrezio però l'epicureismo aveva avuto in Roma interpreti oscuri e scrittori senz'arte. Con Lucrezio ascende alla più alta ispirazione poetica. L'idea di esporre la dottrina filosofica di Epicuro in un ampio poema, venne a Lucrezio particolarmente da Empedocle, di cui egli esaltò la figura quasi a grandezza divina (I, 716 seg.) e che imitò in più luoghi del suo poema. E comune con Empedocle è in Lucrezio la profonda ispirazione quasi religiosa dell'arte, il senso austero della propria missione di poeta, la sicurezza della verità conquistata, l'ardore polemico contro chi ne dubiti, la pietà pervasa di passione dolorosa per l'umanità travagliata ed errante senza meta, e quella severità di tono che talora confina con il pessimismo, mentre pur tuttavia traluce la limpida gioia per la vivida bellezza e forza creativa della natura. Ma il poema di Empedocle aveva ancora molto dell'antica ingenuità epica: il poema di Lucrezio invece tiene della struttura dottrinaria dei trattati filosofici; sebbene quell'aridità scientifica, per lo più, sia da lui animata con un possente spirito di umanità e di poesia. A Epicuro si professa ed è certo fedelissimo; le innovazioni di dottrina che gli si attribuiscono sono illusorie; quanto meglio conosciamo la dottrina del maestro, tanto più scorgiamo l'aderenza dell'opera di questo suo ispirato discepolo poeta, che all'antico eleva un inno in quasi tutti i proemî dei suoi libri (I-III-V-VI) e lo esalta sopra l'umanità, pari a un Dio. Il titolo del poema di Lucrezio De rerum natura (Della natura) riproduce quello dell'opera capitale in 37 libri di Epicuro (Περὶ ϕύσεως). Ma se prosastico, e comune nella tradizione scientifica anteriore e posteriore a Epicuro, è tale titolo, Lucrezio seppe dare all'opera sua un'artistica struttura; tanto che il suo poema fu definito una vasta partitura in sei libri, con sei introduzioni e sei finali. Ogni libro ha infatti il suo proemio e il suo epilogo, o lirico o drammatico, e in questi proemî ed epiloghi più vigorosamente si esprime la poesia di Lucrezio. Il primo libro infatti si apre con un inno a Venere, la forza creatrice della natura e con una preghiera alla dea, la madre degli Eneadi, che ammansi l'ardore di Marte e plachi il furore di guerra che turba l'umanità. Inno a cui si associa il vanto della nuova dottrina di Epicuro che ha liberato gli uomini dai terrori della morte e degli dei. Un inno alla scienza apre il secondo; e con un sempre rinnovato inno a Epicuro si chiudono il terzo, il quarto, il quinto. E infine un inno alla propria poesia, conquista di nuove vette di bellezza, costituisce il proemio del sesto. Non meno poetici e volutamente più grandiosi, sono i finali. Quelli dei due primi libri schiudono vasti sfondi cosmici: l'infinità dell'universo nell'epilogo del primo, l'infinità dei mondi e il loro sorgere e dissolversi in quello del secondo. Profondi drammi, non più di natura ma di umanità, chiudono gli altri libri. La vanità del timore della morte nel terzo, la travagliosa passione d'amore nel quarto; l'origine della civiltà nel quinto, la peste di Atene, quale era stata descritta da Tucidide, nel sesto. E questo voluto valore tragico dato al poema, appare evidente anche dalla struttura di esso. Fu provato infatti, con sicuri argomenti (v. la nota di H. Diels e il commento di A. Ernout ai primi versi del IV libro) che, originariamente, al secondo libro doveva succedere quello che è ora il IV, ordine che riprodurrebbe quello dato alla trattazione corrispondente da Epicuro nell'Epistola a Erodoto; cioè l'esposizione della dottrina dei simulacra (argomento del libro IV di Lucrezio e del § 46 seg. dell'Epistola a Erodoto) fatta seguire alla dottrina atomica. Ma Lucrezio mutò questo ordinamento primitivo, per porre al centro del suo poema la trattazione della mortalità dell'anima (nel III libro) con la sua serrata falange di argomenti, contro i vani terrori della morte, i quali formano uno dei più alti e solenni episodî del suo poema. Poema che per tal modo si compone di tre serie di due libri ciascuna: i primi due sulla dottrina atomica, il terzo e il quarto sull'anima e sulla conoscenza il quinto e il sesto sull'universo e i mondi, sul loro sorgere e perire, sui fenomeni atmosferici, sulle collere e le distruzioni della natura nei terremoti, nelle eruzioni vulcaniche, nelle inondazioni, nelle pestilenze. Dopo questi grandi drammi cosmici, la descrizione della peste di Atene getta sulle ultime pagine del proemio la sua vasta ombra di desolazione e di morte. È probabile che Lucrezio non volesse così finire il poema; ché due volte accenna al proposito di descrivere le sedi beate degli dei; ma questo proponimento non poté compire, probabilmente per la morte prematura.
Nel primo libro, alle varie prove sull'esistenza della materia e del vuoto, e alla dimostrazione che i primi elementi sono atomi, cioè indivisibili e indistruttibili, si aggiunge una serrata argomentazione contro i maestri di altre dottrine, Eraclito, Empedocle, Anassagora, che ha impeti mirabili di passione filosofica. Nella verità della dottrina di Epicuro e nella conquistata scienza della natura L. ha una fede ardente che illumina tutta l'opera sua. Quegli atomi che quasi inerti aveva studiati nel libro I, sono tratti nel II in turbinio infinito di moti e di reazioni perenni, ma non pure meccanicamente sommessi a un ferreo determinismo, ché qui si rivela quel moto spontaneo di deviazione dalla linea retta di caduta (il clinamen) che è per Epicuro (a cui a torto si volle togliere questa dottrina, considerandola come un'innovazione dei discepoli, contro l'attestazione precisa degli antichi) il fondamento dell'autonoma volontà umana e l'epicurea conquista di libertà sull'indeflettibile destino degli atomisti e degli stoici. Esposta nel III libro la natura dell'anima, degli elementi che la compongono e in cui essa si dissolve, e svolta una lunga serie di argomentazioni per provare che essa non è immortale e che è vano il terrore della morte, il IV libro presenta la dottrina dei simulacra (sottili strati atomici che si staccano dalle cose e da cui risultano sia la visione dei corpi, sia le immagini mentali) e la spiegazione dei processi delle altre sensazioni, del pensiero, dei sogni. Dalla vanità dei sogni è rapido il passaggio alla travagliosa vanità d'amore. All'origine del mondo, che è l'argomento del libro V, si riconnette la teoria dei moti astronomici e la dottrina dell'origine dell'umanità e dell'incivilimento. I fenomeni atmosferici e tellurici sono la materia del VI. Dell'etica non sono che accenni, qua e lì, appunto perché etico è tutto il tono del poema e il fine di esso è la conquista di sicurezza e di serenità contro i terrori degli dei e della morte, per mezzo della scienza della natura. Ché, raggiunta questa sicurezza, pare a L. che conquistata sia anche quella pace dell'animo, che ci concede di vivere una vita degna degli dei.
L. è spirito culto, e trae ispirazione e movimenti poetici, da varî poeti e scrittori greci e latini, da Omero, da Sofocle, da Euripide, da Empedocle, da Ippocrate, da Tucidide, da Ennio, da Pacuvio e forse in qualche verso, anche dall'opera poetica giovanile di Cicerone, la traduzione del poema di Arato; ma tutto trasforma con magico tocco di poesia. In nessun altro poeta latino, se non in Catullo, ma in altra maniera, maggiore è la spontaneità inventiva, l'originalità artistica, non solo nell'espressione poetica, ma anche nella vita che sa infondere alla dottrina, nel nuovo spirito romano di cui tutta la permea. Fiera è la sua polemica contro la superstizione e la gretta religione che ci fa trepidi sempre delle collere degli dei; ma questa stessa polemica contro la religione volgare, egli impronta di un suo austero e romano spirito religioso, che non solo vede negli dei di Epicuro (beati e incuranti delle cose umane, viventi in spazî intermondani, nei metacosmia) le ideali e supreme espressioni di felicità e di saggezza, ma sente profonda la religione della scienza sollevatrice dell'umanità e il culto religioso dell'umanità, nelle più alte figure dei suoi poeti e filosofi. Profonda è la sua sensibilità della vita e della bellezza della natura, e vivida la sua ricchezza poetica nel descriverla. Né è meno grande e vivido pittore di scene umane, come il sacrificio di Ifigenia (I, 84 segg.), la processione di Cibele (II, 235 segg.), le evoluzioni di un esercito visto da lontananze aeree di colli. Pur tuttavia nessun poeta è meno esornativo di L.; le sue descrizioni non sono poetici riposi dello spirito, pezzi di bravura, ma drammatici episodî dell'esposizione della sua dottrina. Come i miti platonici, esse continuano e compiono in intuizione poetica l'astratta trattazione della dottrina. E non meno che gli aspetti esterni del mondo e le scene di vita esteriore egli sa cogliere e descrivere le passioni, i più segreti sentimenti dell'uomo, l'ebbrezza della conquistata verità della filosofia (III, 14 segg.), i terrori della morte (epilogo del libro III), i gravi tedî della vita (III, 1068 seg.), il tormento della gelosia (epilogo del libro IV). Nessun poeta romano è più osservatore di lui, e in nessuno l'osservazione diviene più alata creazione fantastica. Alla facoltà immaginativa e alla passione interiore si adegua mirabilmente la virtù espressiva della lingua, dello stile, del verso. Vissuto in un'età in cui la lingua è ancora tutta verde di forza creativa, egli sa foggiarla mirabilmente all'espressione di concetti scientifici. Non già che crei aridi e astratti termini tecnici, ma sa dare una plasticità mirabile all'espressione delle idee. Il suo arcaismo è, piuttosto che il carattere retrivo di uno spirito scontento del presente, un conscio ed elevato tono religioso che pervade tutta l'opera e cerca le forme più solenni e più severe nell'antica poesia del suo popolo. Ma l'arcaismo non toglie limpidezza alla poesia; perché sotto quella lieve patina arcaica, nell'arditezza stilistica creativa si sente il fresco pullulare d'intime sorgenti di espressione. Le inflessioni arcaiche nella declinazione (come i genitivi in -ai) o nella flessione (come i gerundî in -undi) gli antichi vocalismi (come moenera), certa gravezza di prefissi (come indugredi), le tmesi ardite (disque supatis, conque globata), l'abbondanza di audaci composti (come frondifer, squamiger, terriloquus), l'uso dell's caduco (come omnibu rebus), servono artisticamente a L. come austere tonalità che compongono alla poesia scientifica una strumentazione solenne e severa di concentrazione profonda. E elementi antichi romani sono pure l'allitterazione, di cui fa un uso più parco e intelligente di Ennio e di Pacuvio, ma più ampio e libero di Virgilio, con bellissimi giochi espressivi (come nel bel verso viva videns vivo sepeliri viscera busto), l'abbondanza verbale che bene si accorda alla passionalità del suo animo, le perifrasi (come humor aquai, aquarum liquidus humor, equorum duellica proles) le paronomasie (p. es. adlaudabilia laudare), l'ampiezza del periodo, che si muove ancora un poco greve e solenne, senza la snellezza e varietà che prenderà in Virgilio. Ma tutti questi caratteri non sono impacci d'arte ancor rude, bensì riflessi di un'anima antica, che sa pure, quando occorre, vibrare di moderni ardimenti passionali. Né minore è la facoltà espressiva del suo verso, che è già divenuto un mirabile strumento di espressione poetica, sebbene ami molte delle solenni intonazioni antiche, come l'abbondanza degli spondei, la gravità, un poco impacciata, ma usata spesso ad arte, di certi principî e certe clausole, o spondaiche o ioniche a minori, le quali ultime Virgilio userà quasi solamente con nomi proprî greci, e che Lucrezio ama, perché sottolineano, con la loro gravità, l'austerità morale del suo messaggio di saggezza e di vita. Anche le cesure sono meno variate che non saranno nell'esametro virgiliano, e il verso procede spesso come impacciato nella sua ricerca di maestà. Ma d'altra parte raramente il verso ha tradotto meglio che in L. i movimenti dello spirito e i riflessi della realtà, in rapidi passaggi dal grave e maestoso all'alacre e all'audace.
La fortuna di L. fu profonda e duratura. Orazio e Virgilio, sebbene non lo nominino, si sente che lo considerano come un maestro d'arte e di dottrina. Quasi certamente Virgilio vide in lui uno spirito privilegiato che seppe liberarsi dal terrore degli dei e penetrare i più intimi misteri della natura. Ovidio lo dice sublime. Tacito ricorda coloro che lo preferivano a Virgilio. Manilio cerca di emularlo, con poca fortuna. Stazio esalta il suo arduus furor. Gli scrittori cristiani lo combattono aspramente, per la dottrina, ma segretamente ne ammirano poi l'arte e l'imitano. Arnobio lo riecheggia continuamente. Lattanzio (Inst., III, 14, 2), quando deve levare il suo inno di riconoscenza al Cristo salvatore, toglie a Lucrezio i suoi più bei versi in lode di Epicuro. Donato ne scrisse un commento per noi perduto. Nel Medioevo lo si conosce solo dalle citazioni di grammatici; anche il Petrarca e il Boccaccio non ne hanno conoscenza diretta, benché ne ammirino l'ingegno, attraverso alle lodi e agli echi degli antichi. Poggio Bracciolini lo rivelò all'umanesimo da un codice di cui mandò copia dalla Germania a N. Nicoli (circa 1417). Nel Rinascimento fu tra i più letti e ammirati poeti latini. Largamente lo imita M. Marullo e fresca ispirazione ebbero dal suo poema G. Pontano e M. G. Vida. G. C. Scaligero lo giudica "divino e incomparabile poeta", G. Bruno lo riecheggia frequentissimamente nei suoi poemi latini; P. Gassendi ne diffonde la dottrina e fa rivivere l'atomismo epicureo; il Foscolo ammira l'austera anima di poeta filosofo, îl Leopardi toglie, nella Ginestra, da lui la lode di quella "nobil natura" che osa affissarsi senza trepidazione nel vero; A.-M. Chénier vuole emularlo in un poema filosofico di cui non lascia che frammenti; P. B. Shelley ne riprende la polemica religiosa e l'entusiasmo per la vita della natura; il Goethe l'ha caro sopra ogni altro poeta romano. L'età romantica della filologia germanica che è così poco congeniale a Orazio e Virgilio, contrappone a questi poeti, che furono gl'ideali del classicismo, Catullo e L. Th. Mommsen non salva quasi altri che Cesare e L. nell'ecatombe di spiriti latini che egli offre ai mani dell'ellenismo e del germanesimo.
Ediz.: L'editio princeps è quella di Brescia del 1479; interessanti sono l'Aldina 1500 di Gerolamo Avanzio che segna già un progresso. Alla correzione del testo di L. contribuirono il Marullo e il Pontano. Il primo commento di notevole valore è quello di D. Lambin (3ª ed., 1570). C. Lachmann stabilì su nuove basi la critica del testo, con l'uso razionale dei codici leidensi (Oblongo e Quadrato) e delle Schedae. Utile è pure il suo commento (1ª ed., Berlino 1850). Un nuovo progresso nel testo e nell'interpretazione si deve all'edizione con commento inglese di H. Munro (4ª ediz. definitiva, 1886). Grande valore, unanimemente riconosciuto, hanno gli Studi lucreziani e l'edizione con commento di C. Giussani (Torino 1896-98); notevole pure è l'edizione con commento di W. A. Merrill (New York 1907). Un'assai importante e bella edizione ne diede H. Diels (Berlino 1923, II vol. con traduz. tedesca, 1924). A. Ernout lo pubblicò con apparato crnico e traduzione francese a fronte, e lo commentò dottamente con la collaborazione di L. Robin (Parigi 1925). La più famosa traduzione italiana è quella di A. Marchetti (Londra 1717): la migliore quella di M. Rapisardi (Milano 1880); manca una buona traduzione in prosa.
Bibl.: C. Martha, Le poème de Lucrèce, 1ª ed., Parigi 1867; W. Y. Sellar, The Roman poets of the republic, 3ª ed., Oxford 1881-89, ristampa 1905; C. Giussani, nel primo volume del suo commento; J. Masson, Lucretius epicurean and poet, voll. 2, Londra 1907-09; E. Turolla, Lucrezio, Roma 1929; E. V. Alfieri, Lucrezio, Firenze 1929 (con tendenza alla vita romanzata); O. Regenbogen, Lukrez, seine Gestalt in seinem Gedichte, Lipsia 1932. Sulla lingua: A. Cartault, La flexion dans Lucrèce, Parigi 1898, e l'introduzione del commento dell'Ernout. Sulla metrica: v. l'introduzione dell'Ernout e gli studî del Merrill sull'esametro lucreziano. Sulla fortuna di L.: nell'età augustea, R. Wöhler, Einfluss des L. auf die Dichter der Aug. Zeit, Greifswald 1876; E. Bignone, Per la fortuna di L. e dell'epicureismo nel Medioevo, in Riv. di filol., 1913, p. 229 segg.