Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alla fine degli anni Quaranta, nell’ambito del clima informale che caratterizza l’arte occidentale, l’opera di Lucio Fontana si distingue per la ricerca di una nuova spazialità. Il desiderio di superamento dei limiti bidimensionali della superficie pittorica e la volontà di far dialogare l’opera con l’ambiente circostante, aprono all’arte concettuale e spaziale e alle ricerche minimaliste degli anni Sessanta e Settanta.
La conquista dello spazio
Nell’Europa dilaniata dai bombardamenti e dalla guerra, si ricomincia a vivere e a sperare. Con la fine del secondo conflitto mondiale dilaga l’ottimismo di un’intera società da ripensare: si indicono concorsi, si istituiscono commissioni, si innalzano palazzi e si disegnano strade. Alla ricostruzione delle città distrutte si accompagna la necessità di una nuova definizione dell’arte, e questa riformulazione di un linguaggio espressivo appare divisa tra ripiegamento intimista e l’entusiasmo per un nuovo inizio.
È in questo contesto che opera Lucio Fontana: le sue ricerche, tuttavia, si differenziano prepotentemente rispetto alle tendenze del panorama pittorico postbellico. Più che sul gesto istintuale e sull’urgenza comunicativa, egli basa la sua poetica sull’esigenza di una nuova definizione dello spazio. Guardando con ottimismo al progresso tecnologico e alle scoperte della fisica, Fontana si convince che anche lo spazio dell’arte debba essere ripensato, che l’artista debba superare i limiti del mezzo pittorico, vincere le chiusure bidimensionali del supporto, conquistare spazi creduti inaccessibili, ben al di là della ricostruzione futurista dell’universo e dell’appropriazione oggettuale del ready-made.
Nato nel 1899 in Argentina da un decoratore italiano, Lucio Fontana passa la maggior parte della sua vita in Italia. Educato in collegi lombardi fin dai primi anni Dieci, nel 1928 è a Milano, all’Accademia di belle arti di Brera. Qui segue il corso di scultura del simbolista Adolfo Wildt, che conferma e rafforza la propensione già fortemente concettuale e simbolica dell’allievo, ancora alla ricerca di uno stile personale. Suo grande sostenitore, il maestro introduce Fontana nell’ambiente artistico lombardo e favorisce la sua partecipazione alle Sindacali milanesi, all’Esposizione Internazionale di Barcellona del 1929, alla Biennale veneziana del 1930. Al momento del distacco dal magistero di Wildt, Fontana trova nel campo dell’architettura una realtà vivace e di grande sperimentazione. Collabora, come scultore e decoratore, con l’avanguardia architettonica razionalista già dalla Triennale del 1933. Dal confronto con questo settore gli deriva il desiderio di appropriazione dello spazio che sfocerà, alla fine degli anni Quaranta, negli Ambienti spaziali.
Nonostante l’educazione di Fontana avvenga interamente in Italia, l’artista conserva della natale Argentina la predilezione per spazi sconfinati e il sogno della libertà. Vi torna negli anni Venti, alla fine del primo conflitto, quando subentra al padre nella società di decorazione architettonica, e negli anni Quaranta, durante la seconda guerra mondiale, quando fonda, a Buenos Aires, l’Accademia Altamira. In questo contesto, nel 1946, viene redatto da un gruppo di allievi, il Manifiesto blanco, punto d’avvio per la nascita del movimento spaziale, cui seguirà un anno più tardi il Primo manifesto dello spazialismo. Al ritorno in Italia, nel 1947, Fontana è ormai un artista formato e consapevole, interessato soprattutto alla relazione tra opera e ambiente e al superamento dei limiti dello spazio pittorico. La centralità di questo concetto è ribadita dalla titolazione che Fontana adotta, ripetuta e invariata, di Concetto spaziale
Oltre e attraverso la tela
Da questo momento Fontana inizia la propria ricerca sullo spazio, che porta a compimento attraverso la violazione, progressiva e inarrestabile, di quella che per oltre quattro secoli era stata la superficie pittorica tradizionale: la tela. Spostando l’attenzione dal dipinto allo spazio che lo circonda, Fontana dilata i confini dell’opera: padre dell’arte ambientale, anticipa, nell’uso dell’illuminazione artificiale e dei tubi al neon, le poetiche minimaliste degli anni Sessanta di Dan Flavin e di Bruce Nauman (1941-). L’artista impiega la luce di Wood – che emette una fioca luce viola – nel primo Ambiente spaziale a luce nera alla Galleria del Naviglio di Milano nel 1949 e la luce al neon per la sinuosa serpentina sospesa sullo scalone d’onore della IX Triennale del 1951.
Di pari passo, nell’opera pittorica, Fontana è alla ricerca di una dimensione che assecondi una certa aspirazione verso l’infinito. Tra entusiasmo e utopia, osserva incantato la conquista del cosmo da parte dell’uomo e sente tutta l’inadeguatezza degli strumenti prospettici ai quali nei secoli la pittura si era affidata. A Fontana non basta più la successione dei piani, degli scenari prospettici e delle quinte illusionistiche. L’unica espansione che egli vede possibile, per aprire a una nuova dimensione, è la lacerazione della tela. In analogia con gli spazi smisurati del cosmo, Fontana ricerca l’infinito praticando buchi sulla superficie pittorica per mezzo di punteruoli. Dei “buchi” l’artista dice: “Primo secondo e terzo piano... per andar più in là cosa devo fare? Io buco, passa l’infinito da lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere”. Nei Concetti spaziali di questo periodo, in una scansione di pieni e di vuoti, i buchi di numero e grandezza variabile si dispongono in schemi e ritmi vorticosi e geometrici.
Il susseguirsi dei piani, dalla tela dipinta a olio allo squarcio che si affaccia sull’infinito, viene rafforzato, a partire dal 1953, con interventi di paste cromatiche e con l’aggiunta di materiali brillanti incollati sulla superficie: pietre, vetri, lustrini, sabbie. Si fondono in un’unica entità le due anime di Fontana: il pittore e lo scultore. Affiorano l’apprendistato presso la bottega paterna, l’influenza di Wildt a Brera, le estati ad Albisola nell’atelier del ceramista Tullio Mazzotti, il pellegrinaggio alla manifattura di Sèvres. La ricerca spaziale e materica di Fontana si placa finalmente in un’arte che è fusione di pittura e scultura: “non ci può essere una pittura o scultura spaziale, ma solo un concetto spaziale dell’arte” afferma in occasione di una sua personale alla Galleria del Naviglio a Milano.
I tagli
Siamo alla fine degli anni Cinquanta: l’evoluzione artistica di Fontana procede attraverso una ricerca rigorosa e spregiudicata. In continuità con il percorso iniziato nel 1949, Fontana giunge ora a tagliare la tela: ecco il gesto più esemplificativo della frattura irreversibile della superficie pittorica a due dimensioni. Un segno netto e pulito, di astrazione quasi metafisica e di concentrazione purissima. La scansione per piani viene talvolta rafforzata da una garza nera applicata sul retro della tela, per amplificare la suggestione di buio enigmatico e misterico, e insieme ancorare la superficie pittorica, dipinta all’anilina, allo spazio retrostante.
La riflessione anche concettuale sottesa alla realizzazione di queste opere comporta l’attesa del momento perfetto, lunghe meditazioni che si risolvono in un gesto mistico e lento, puro ed esatto. Nel 1973 Ugo Mulas racconta, ricordando la seduta in cui aveva scattato le note fotografie che ritraggono Fontana all’opera: “il momento preparatorio, quello che precede il taglio, era il più importante, quello decisivo”. A volte, la tela resta appesa nello studio per intere settimane, prima di venire trafitta dal rasoio. Proprio per la tensione verso l’attimo creativo, l’artista denomina questi Concetti spaziali come Attesa, se il taglio è unico, o Attese, se la frattura è ritmica e ripetuta. Il successo di critica è immediato. Fontana stesso considera i “tagli” come il punto più alto della propria ricerca artistica: “con il taglio ho inventato una formula che non credo di poter perfezionare”, afferma nel 1966 in un’intervista di Giorgio Bocca sul quotidiano “Il Giorno”.
Nell’incalzante attività espositiva e nel successo in Italia e all’estero, Fontana continuerà la propria ricerca avviando nuovi cicli di Concetti spaziali: le Nature (1959-1960), i Metalli (1961-1968), le Fini di Dio (1963-1964), i Teatrini (1965-1966).
Ma è nei tagli unici, bianchi e purissimi, che l’artista individua l’apice della sua produzione. Fontana porta queste opere alla XXXIII Biennale di Venezia del 1966, dove vengono presentate in un ambiente spaziale monocromo, realizzato in collaborazione con l’architetto Carlo Scarpa. Questo intervento gli varrà il premio per la pittura, massimo riconoscimento alla carriera, che si concluderà due anni dopo, con la morte dell’artista. Il segno netto, distillato e assoluto, di questi ultimi Concetti spaziali apre già all’arte concettuale ed è lo specchio della nostalgia per uno spazio miracolosamente intatto e infinito. La nostalgia propria dell’uomo contemporaneo nel suo rapporto con il mondo, che trova pace soltanto nell’estatica contemplazione metafisica di uno spazio infinito.