Seneca, Lucio Anneo
In If IV 141 D. colloca S. fra gli spiriti magni del Limbo, definendolo Seneca morale, come " moriger Seneca " egli è definito da Arrigo da Settimello (III 47). Benvenuto chiosa: " Autor dicit signanter Seneca morale ad differentiam Senecae poetae, qui scripsit tragoedias ". La discussione di questa chiosa coinvolge il problema della conoscenza di S. tragico da parte di D., su cui v. oltre. Ma se si accetta la tesi di quelli che sostengono che la chiosa di Benvenuto deriva - e cronologicamente ciò è sostenibile in base alla data del commento - dalle posizioni assunte in merito dal Boccaccio e da Coluccio Salutati, riassume valore e credibilità l'opinione che la definizione ‛ morale ' derivi dal posto e dalla funzione che D. riconosceva al pensiero di Seneca. Ci si è stupiti che nel famoso passo di VE II VI 7, in cui si parla dei ‛ regulati poetae ', fra quelli qui usi sunt altissimas prosas si ricordino Livio, Plinio il vecchio, Frontino, Orosio, e si taccia di Cicerone e di S., pure ben noti a Dante.
E proprio in nome del pregiudizio che voleva D. obbligato a tener conto in complesso dei maggiori prosatori latini accanto ai maggiori poeti, lo Zingarelli (I tempi, la vita e le opere di Dante, Milano 1939, II 902) ha proposto di emendare, in If IV 141, Lino in Livio per ricostruire con Cicerone e S. " la memorabile terna rappresentativa della cultura romana " (come la definisce il Mattalia, che si mostra favorevole all'emendamento). Ma Livio appartiene proprio agli scrittori ricordati in VE II VI 7, mentre Cicerone e S. ne sono esclusi. E P. Renucci (Dante disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, 378) ha giustamente confutato lo Zingarelli; sul problema cfr. E. Paratore, Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 91 n. 35.
Cicerone e S. sono accolti nel Limbo in seno alla filosofica famiglia (If IV 132) che si stringe attorno ad Aristotele, come propaggini latine di quel pensiero filosofico in cui per D. consiste la grandezza della civiltà greca, specialmente come moralitade, sì che già in Cv III XIV 8 vediamo ricordato S. insieme con Democrito, Platone, Aristotele, Zenone, Socrate, perché sapemo essi tutte l'altre cose, fuori che la sapienza, avere messe a non calere e che per questi pensieri la loro vita disprezzaro; e già in Cv IV VI 6-16 si era notato che dalla filosofia accademica sorsero coloro che limaro e a perfezione la filosofia morale redussero, e massimamente Aristotile (§ 15). Onde l'appellativo morale riferito a S. va inteso non nel senso distintivo proposto da Benvenuto, ma come conferma dell'appartenenza di S. alla filosofica famiglia nel senso con cui D. la concepiva (Paratore, pp. 47, 96, 109).
Proprio l'essere egli stato fra gli scrittori latini uno dei più validi continuatori di quella moralitade gli è valso da parte di D. il giudizio di inclitissimo phylosophorum in Ep III 8, che ha spinto il Renucci (pp. 328 ss.) alla singolare negazione dell'autenticità dell'epistola a Cino, perché in essa sarebbe ravvisabile un'alterazione della graduatoria dei filosofi a danno di Aristotele e a favore di S. (contra cfr. Paratore, p. 82 n. 26).
Se di S. si fa menzione nel Limbo, i luoghi della Commedia in cui si trova traccia di S. filosofo sono soltanto tre. In If XII 107 l'identificazione di Alessandro fra i violenti contro il prossimo, che per U. Bosco (D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 369-378) dovrebb'essere decisa in favore di Alessandro di Fere, è stata invece sostenuta nel senso di Alessandro Magno anche in considerazione del fatto che in Benef. I XIII 3 S. lo definisce " latro gentiumque vastator " (Paratore, p. 63 n. 12).
Per la figura di Ulisse in If XXVI si è ricordato che S. parla (Ep. LXXXVIII 6) di un viaggio di Ulisse " extra notum nobis orbem " e pone (Const. sap. II 1) Ulisse fra i " sapientes invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrarum ". Per Pg V 14 sta come torre ferma, che non crolla, si è citato a riscontro - oltre Virg. Aen. VI 470-471 e X 693 ss. - anche Sen. Const. sap. III 5 " quemadmodum proiecti quidam in altum scopuli mare frangunt... ita sapientis animus solidus est " (ma per la maggioranza dei critici - cfr. P. Toynbee, D. e S. morale, in Ricerche e note dantesche. Serie seconda, Bologna 1904, 67 - D. ignorava quest'opera).
Più sistematica la menzione di S. nei precedenti trattati. In Cv I VIII 16 si legge: Per che dice Seneca che " nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si spendono " (cfr. Benef. III 4). In Cv II XIII 22 si ricorda Nat. quae. I I 3 (anche se si ritiene che D. conoscesse quest'opera solo indirettamente attraverso il De Meteoris di Alberto Magno): E Seneca dice però, che ne la morte d'Augusto imperadore vide in alto una palla di fuoco. Naturalmente il " vidimus " dello scrittore è stato interpretato da D. come se S. avesse assistito di persona al fenomeno. In Cv IV XII 8 si legge: lascisi stare quanto contra esse [le ricchezze e le altre tentazioni terrene] Salomone e suo padre grida; quanto contra esse Seneca, massimamente a Lucillo scrivendo. In VE I XVII 2 si esalta addirittura l'operato di S. come consigliere di Nerone e amministratore della cosa pubblica, paragonandolo addirittura a Numa Pompilio: vel quia excellenter magistrati excellenter magistrant, ut Seneca et Numa Pompilius. È evidente l'influenza del fatto che D. non conosceva Tacito ed era all'oscuro della tradizione sfavorevole a S.; e un passo come questo meglio ci fa intendere il valore dell'appellativo morale in If IV 141, che nel Medioevo, in cui circolava l'apocrifa corrispondenza fra S. e s. Paolo, doveva più facilmente giustificarsi come specifico riferimento.
Accanto a questi riferimenti diretti non mancano le false attribuzioni, che testimoniano anch'esse della fortuna che circondava nel Medioevo il nome di S., anche per le ragioni ora addotte. Il Liber de quatuor virtutibus attribuito a s. Martino di Dumio (sec. VI d.Cr.), già ricordato in Cv III VIII 12, è attribuito erroneamente a S. in Mn II V 3 Propter quod bene Seneca de lege cum in libro De quatuor virtutibus, ‛ legem vinculum ' dicat ‛ humanae sotietatis '. Del resto il libro sembra fosse un estratto di un'opera apocrifa di S., il De Copia verborum. Nel già citato luogo dell'epistola a Cino (III 8) si citano i De Remediis fortuitorum ad Gallionem, opera perduta ma di cui nel Medioevo circolava una contraffazione, contenente però brani di opere senecane anch'esse ora smarrite: Perlege, deprecor, Fortuitorum Remedia, quae ab inclitissimo phylosophorum Seneca nobis velut a padre filiis ministrantur, et illud de memoria sane tua non defluat: " Si de mondo fuissetis, mundus quod suum erat diligeret " . Nel medesimo capitolo del Convivio sopra citato si aggiunge: onde Seneca dice: " Se l'uno de li piedi avesse nel sepulcro, apprendere vorrei " (IV XII 11 ss.). Ma è falsa citazione, perché - come ha visto E. Proto (" Giorn. stor. " LXXXV [1908] 227) - il passo latino corrispondente è negli Ammaestramenti degli antichi di fra Bartolomeo da San Concordio, che cita un luogo del Digesto ove la sentenza riferita da D. è anonima: sì che si è pensato a un'erronea citazione a memoria del poeta, anche perché in Ep. LXXVI si leggono frasi analoghe: " Tamdiu discendum est, quamdiu nescias: si proverbio credimus, quamdiu vivas. Nec ulli hoc rei magis convenit quam huic: tamdiu discendum est, quemadmodum vivas, quamdiu vivas. Ego tamen illic aliquid et doceo. Quaeris, quid doceam? etiam seni esse discendum ". Cfr. la voce GIOVENALE.
Veniamo ora al problema della conoscenza di S. tragico da parte di Dante. Nell'epistola a Cangrande (Ep XIII 29) si legge: tragoedia in principio est admirabilis et quieta, in fine seu exitu est foetida et horribilis; et dicitur propter hoc a ‛ tragos ' quod est hircus et ‛ oda ' quasi ‛ cantus hircinus ', id est foetidus ad modum hirci; ut patet per Senecam in suis tragoediis. Se si accettasse la paternità dantesca dell'epistola, se ne dovrebbe inferire quasi ovviamente la conoscenza di S. tragico da parte di D., dato che in quegli anni egli era in stretto rapporto con Giovanni del Virgilio, che era contemporaneamente in grande familiarità con Albertino Mussato, iniziatore con l'Ecerinis della tragedia umanistica rielaborata sul modello senecano e autore del dialogo Evidentia tragoediarum Senecae. Sarebbe certamente troppo sottile e arbitrario ritenere che dal Mussato attraverso Giovanni del Virgilio D. avesse attinto solo la conoscenza generica dell'esistenza delle tragedie di S. e non fosse giunto a consultare un manoscritto delle tragedie (cfr. Paratore, p. 136 n. 18). E ciò indipendentemente dalla veridicità o meno della citata chiosa di Benvenuto, nel senso cioè che anche D. potesse distinguere S. tragico da S. filosofo come un altro scrittore. V. Russo (Il senso del tragico nel " Decameron ", in " Filologia e Letteratura " [1965] 59 ss.) ha richiamato l'attenzione sul fatto che proprio nel commento alla Commedia il Boccaccio ha rivendicato come una sua scoperta la distinzione del S. filosofo dal tragico: " È cognominato questo Seneca ‛ morale ', a differenza d'un altro Seneca, il quale (essendo il nome di questo ‛ morale ' Lucio Anneo Seneca) fu chiamato Marco Anneo Seneca e fu poeta tragedo; perciocché egli scrisse quelle tragedie, che molti credono che Seneca morale scrivesse ". Da quest'ambiente può essere derivata la chiosa di Benvenuto. Infatti S. Debenedetti (D. e S. filosofo, in " Studi d. " VI [1923] 6) dimostrò che nel sec. XIII Vincenzo di Beauvais (Spec. hist. IX 102) aveva mostrato un'ottima informazione dell'identità dei due autori (" scripsit etiam idem Seneca libros morales perutiles... Tragoedias quoque decem "); ne discende che D., se avesse conosciuto le tragedie di S. e fosse stato quindi l'autore dell'epistola a Cangrande, non avrebbe dato di S. il limitante appellativo di morale, o almeno non lo avrebbe aggregato tout court alla filosofica famiglia, dato che egli si parificava a Terenzio e ai ‛ regulati poetae '. O vorremmo supporre che quando componeva If IV D., non essendo entrato ancora in contatto con l'ambiente del Mussato, ignorasse l'esistenza delle tragedie di Seneca? Ma poteva egli ignorare ancora l'opera di Vincenzo di Beauvais? Questo è certo un groviglio di contrastanti aspetti che rende insolubile il problema.
P. Toynbee ha creduto di poter sanare la difficoltà propugnando (Il dizionario latino di Dante. Le Magnae derivationes di Uguccione da Pisa, traduz. ital. in Ricerche e note dantesche. Serie seconda, Bologna 1904, 32) di considerare un'interpolazione il brano dell'epistola a Cangrande relativo a S. e Terenzio; e sostenendo (D. e S. morale, in Ricerche, pp. 59-67) che proprio da Vincenzo di Beauvais D. sia stato spinto a distinguere S. filosofo da S. tragico e a dare quindi al primo l'appellativo di morale. Ma abbiamo già visto che S. Debenedetti ha dimostrato proprio il contrario.
Gli studiosi restii a considerare autentica l'epistola a Cangrande non han sentito la necessità o l'opportunità di accettare la proposta del Toynbee. G. Brugnoli (Ut patet per Senecam in suis tragediis, in " Riv. Cult. Class. e Med. " V [1963] 146 ss.) la respinge, anche perché riprende la tesi di B. Colfi (Di un antichissimo commento alla " Ecerinide " di Albertino Mussato, Modena 1891, 6 n. 1) di un rapporto fra il passo dell'epistola relativo a S. e il commento all'Ecerinis di Guizzardo di Bologna e Castellano di Bassano, datato al 21 dicembre 1317, e sostiene che il passo dell'epistola, anche riguardo all'etimologia del termine ‛ tragoedia ', discende dal commento. F. Mazzoni (L'epistola a Cangrande, in " Atti Accademia Nazionale dei Lincei " s. 8, X [1955] 157 ss.; e cfr. anche Per l'Epistola a Cangrande, in Contributi di filologia dantesca, Firenze 1966, 7 ss.) ha tentato di rovesciare il rapporto, fissando al 1315 la data di composizione dell'epistola. Ma B. Nardi (Il punto dell'epistola a Cangrande, Firenze 1960), che pure trascura il rapporto tra l'epistola e il commentario all'Ecerinis, ha dimostrato l'insostenibilità della tesi, perché nell'epistola si offre a Cangrande l'intera cantica (anche se il Mazzoni, nel secondo dei due studi citati, non addiviene a questa conclusione); e il Brugnoli ha ribadito che, una volta fissata la composizione dell'epistola dopo il 1317, sorgerebbe la difficoltà di supporre che D. si rivolgesse per aiuto a Cangrande mentre era già ospite dei da Polenta a Ravenna. Il Paratore (pp. 107-108) ha fatto inoltre rilevare con queste parole l'impossibilità di conciliare con le vere idee ed esperienze di D. il passo dell'epistola relativo alla tragedia e a S.: " dovremmo sottolineare il fatto che lo stile comico prevale proprio nella parte che - secondo la definizione di Uguccione passata di peso nell'epistola a Cangrande - manifesta la ‛ materia horribilis et fetida ' ch'è propria della ' tragedia', mentre lo stile della ‛ tragedía ' prevale in quella parte finale, che, avendo una ‛ materia prospera, desiderabilis et grata ' ribadirebbe l'appartenenza del poema all'ambito della ‛ comedía '. E per di più dovremmo arrivare all'assurdo di concludere che l'Eneide, pur definita esplicitamente ‛ tragedia ' da Dante, non avrebbe diritto a questo titolo, perché anch'essa ha inizio con eventi dolorosi e orribili e termina quietamente con una fine prospera e desiderabile, cioè con la serena attuazione dei voleri provvidenziali, adeguandosi nel contenuto allo schema della ‛ comedía ' "; al che ha poi aggiunto (p. 136): " Anche se la definizione dell'Eneide come tragedia rimonta a Inf. XX, 113, non si vorrà, spero, affermare che al tempo della composizione del Paradiso, quando Dante cominciava a definire ‛ poema sacro ' la Commedia (Par. XXV, 1), manifestando ‛ il conflitto tra l'opinione retorica tradizionale e la convinzione ancora incerta e difficilmente formulabile della vera natura del suo poema ' (E. Auerbach, Studi su D., traduz. ital., Milano 1963, 84), si potesse far luce nel suo spirito una reazione così capricciosamente radicale rispetto all'eredità della tradizione retorica da negar valore di tragedia all'Eneide. ".
A ogni modo, prevalsa l'opinione dell'autenticità dell'epistola a Cangrande, molti autorevoli studiosi si sono adoperati a scovare in D. reminiscenze delle tragedie di S.: così, a parte lo Zingarelli, F. Ghisalberti (L'enigma delle Naiadi, in " Studi d. " XVI [1932] 119) che sostiene il rapporto fra Pg XXXIII 47 e Sen. Oedipus 92-102; A. Ronconi (Per D. interprete dei poeti latini, in " Studi d. " XLI [1964] 13-14) ribadisce che If XXX 16 s'ispira anche a Sen. Troades 988-989, e il v. 20 (forsennata latrò sì come cane) al " rabide latravit " di Sen. Agamemnon 707; che se nulla di noi pietà ti move di Pg VI 116 discende da Sen. Thyestes 248 " nulla te pietas movet? "; così G. Contini (Filologia ed esegesi dantesca, in " Rendiconti Adunanze Accad. Naz. Lincei " VII [1965] 26-27; rist. in Varianti e altra linguistica, Torino 1970, 407-432) insiste sul rapporto, mostrando fede nell'autenticità in toto dell'epistola a Cangrande; così G. Favati (Osservazioni sul canto XII dell'Inferno dantesco, in Studi in onore di Italo Siciliano, I, Firenze 1966, 431) sostiene la derivazione di If XII 22-25 da Sen. Oedipus 342-343; così prima e soprattutto E.G. Parodi (Le tragedie di Seneca e la D.C., in " Bull. " XXI [1914] 241-252) che sottopose a revisione, ma spesso confermando (e aggiungendovene qualche altro), i rapporti già sostenuti da E. Proto (D. e i poeti latini, in " Atene e Roma " XI [1908] 23 ss., 221 ss.; XII [1909] 7 ss., 277 ss.; XIII [1910] 79 ss., 149 ss.), e cioè: Hercules furens 100 = If IX 43-44; Her. fur. 139-140 = If XXIV 4-5, 7-9; Her. fur. 520-522 = If IX 64-66; Her. fur. 555-556 = Pg VII 31-32; .Her. fur. 650-651 = If I 6, III 131-132, XXXIII 4-6; Her. fur. 651-653 = Pg I 13, 16, 18; Her. fur. 670-672 = If XV 17-20 (rapporto aggiunto dal Parodi), XXI 10-11; Her. fur. 679 = If VII 100; Her. fur. 706 = If I 7; Her. fur. 711 = Pg XXVIII 126; Her. fur. 735-739, che al Parodi (p. 244) è sembrato ispiratore dell'idea del contrapasso; Her. fur. 758 = If XXX 25-26; Her. fur. 775-777 = If VIII 27; Her. fur. 785 = If VI 16; Her. fur. 835-836 = If I 5-6; Her. fur. 1044-1045 = If III 135-136; Her. fur. 1269 = Pg VI 116 (che è analogo al riscontro già addotto fra Pg VI 116 e Thyestes 248, ma con la differenza che in Her. fur. 1269 c'è una movenza meno affine alla dantesca, e cioè " sive te pietas movet "); Troades 6-7 e 29-30 = If XXX 13-15; Tro. 171= If XX 65-66; Tro. 353-354 = If XX 110-111; Tro. 988-989 = If XXX 16; Phoenissae 428-429 = If VIII 13-14; Phoe. 429-430 = Pg XXIV 3; Phoe. 430-431 = Pg V 37-38; Medea 96-97 = Pg XVIII 76-77; Med. 100-101 = Pg XII 89-90; Med. 627 (" siluere venti ") e 766 (" tacente vento ") = If V 96 mentre che 'l vento, come fa, ci tace, che rimane, accanto a quello fra Thy. 248 e Pg VI 116, il più significativo, anche se il Parodi (p. 247) lo svaluta anche lui; Med. 940-942 = If V 29-30; Phaedra 381-383 = Pg XXX 85-91; Phaed. 507-509 e 512-514 = Pg XXVIII 7-10, 14, 17, 25; Phaed. 737 = If XXIV 146; Phaed. 748 = Pg XVIII 77; Phaed. 749-752 = Pg XII 89-90; Oedipus 92-93 e 96 = Pd XVII 133-134; Oed. 342-343 = If XII 22-24; Oed. 542-544 = Pg XX 43-44 e Pg XXXII 40 e 42; Oed. 619-621 = If XVIII 46-47 e XXIV 130-132; Oed. 887-889 = Pg XXIV 3; Oed. 980 = If IX 97 (che è raffronto già istituito dal Boccaccio); Agamemnon 64-65 e 71-72 = Pd XVI 82-84; Ag. 139 = If V 29-30; Ag. 162-171 = Pd V 70-71; Ag. 417-418 = If XXXIII 4-6; Ag. 708 = If XXX 20; Thyestes 87 = If XXIV 145-146; Thy. 127-129 = Pg XXX 85-88 e 90; Thy. 155-157 = Pg XXIV 103-104; Thy. 248 = Pg VI 116 (che è, come abbiamo già visto, il riscontro che dà più da pensare); Thy. 283-284 = If VIII 13-14; Thy. 438-439 = Pg XXIV 3; Thy. 707-710 = Pd IV 1-6; Hercules Oetaeus 238-239 = Pg XII 89-90; Her. Oet. 380-381 = Pg XXXII 38-39, 52-53, 55-56; Her. Oet. 504-505 = If XII 83-84; Her. Oet. 731 = If VII 22-23; Her. Oet. 986 = If XX 28; Her. Oet. 1286-1289 = Pg XXX 85 ss.; Her. Oet. 1849-1851 = Pg XII 37-39. Il Brugnoli, facendosi forte anche dei criteri in base ai quali lo stesso Parodi ha espresso i suoi dubbi, pur tenendo fermo anche lui al rapporto fra D. e S. tragico, ha mostrato che i riscontri sono per lo più insussistenti, sovrapponendosi ad altri più evidenti con poeti certamente familiari a D. come Virgilio e Ovidio, o addirittura a frasi scritturali. Si è limitato perciò a considerare degni di non essere esclusi pregiudizialmente solo sette riscontri, fra cui quello già addotto dal Boccaccio, ma trascurando proprio i due che a noi sembrano più persuasivi, e supponendo in genere che D., essendo poco propenso a ricorrere a florilegi, avesse accolto quegli echi attraverso una lunga tradizione indiretta. In " L'Alighieri " VII 1 (1966) 98-99 il Brugnoli è tornato poi a contestare il rapporto fra Tro. 6-7 e 29-30 e If XXX 13, additando ancora una volta la fonte in Ovid. Met. XIII 404-575: cfr. Ovidio.
Gli studiosi propensi a negare l'autenticità dell'epistola a Cangrande non possono non adottare i procedimenti del Brugnoli, considerando che il passo di Vincenzo di Beauvais poteva al massimo informare D. del fatto che S. aveva anche composto tragedie; ma D., non conoscendole, doveva per forza limitarsi a ciò che di S. aveva letto e accettare quindi il profilo del moriger Seneca. Si sanerebbero così tutte le difficoltà. Oltre tutto bisogna considerare il fatto che i riscontri proposti dal Proto e dal Parodi vertono in massima parte su canti dell'Inferno, sì che andrebbe postulata una conoscenza di S. tragico da parte di D. in epoca largamente anteriore a quella dei suoi contatti con l'ambiente del Mussato, che tanto peso hanno avuto per giustificare il luogo dell'epistola a Cangrande in cui si parla delle tragedie di S. e, in genere, la rivendicazione dell'autenticità dell'epistola. Per giunta, se si dovesse postulare una conoscenza di S. tragico già negli anni di composizione dell'Inferno, colpirebbe il fatto che S. tragico è l'unico autore latino (oltre alcuni poeti ricordati come presenti nel Limbo) di cui D. non abbia fatto alcuna menzione nelle opere precedenti la Commedia; apparirebbe sorprendente che di un autore largamente noto (come ci vorrebbero far credere i 59 riscontri elencati) le reminiscenze si limitino esclusivamente alla Commedia.
Conserva a ogni modo il suo peso la considerazione dei contatti di D. con l'ambiente padovano, attraverso Giovanni del Virgilio; ed essa dovrebbe far valorizzare i due riscontri per noi tuttora eloquenti, cioè quello fra Med. 627 e 766 e If V 96 (che potrebbe fra l'altro valorizzare contro il Barbi e il Petrocchi la lezione si tace, secondo l'opinione di A. Pagliaro, Il canto V dell'Inferno, Roma 1952, al v. 33) e quello fra Thy. 248 e Pg VI 116 nei quali si deve sottolineare proprio una stretta affinità di espressione. Ma il primo riguarda il c. V dell'Inferno, cioè un'opera di molto anteriore ai contatti con l'ambiente padovano. Ci sembra pertanto unica possibile soluzione quella di postulare, una volta tanto, lo sfruttamento di un florilegio da parte di D., tanto più che, come riconosce lo stesso Brugnoli (p. 159; e vedi a n. 11 la bibliografia in proposito), " la fortuna di Seneca tragico nel Medioevo è affidata ai Florilegi ".
Bibl. - Tutte le opere interessanti i rapporti con S. sono state citate nel contesto. Al massimo possiamo aggiungere, fra i sostenitori dell'autenticità dell'epistola a Cangrande, F. Schneider, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXIV-XXXV (1957); e C.G. Hardie, ibid. XXXVIII (1960). Per il problema dei due S.: M. Pastore Stocchi, D., Mussato e la tragedia, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 251-261; G. Martellotti, La questione dei due S. da Petrarca a Benvenuto, in " Italia Medioev. e Uman. " XV (1972) 149-169.