DELLA ROBBIA, Luca
Nacque nel 1484 a Firenze da Simone di Marco e da Fiammetta di Francesco del Nente, abitanti nella parrocchia di S. Lorenzo in una casa che Simone divideva con lo zio paterno Luca e con il proprio fratello Andrea, scultore illustre. Dedita all'esercizio dell'arte della lana, la famiglia possedeva una bottega in via del Palagio e denunciava, nel catasto del 1480, un censo di fiorini 413.6.10, che consente di annoverarla tra le famiglie benestanti di Firenze. Dal medesimo documento risulta anche che il D. aveva per lo meno tre fratelli: Maddalena, Maria e Filippo, nati prima del 1480.
Il D. fu avviato agli studi umanistici e si formò alla scuola di Benedetto Riccardini, detto Philologus, e di Niccolò Angeli, che insegnava lettere greche e latine allo Studio fiorentino. Frequentò, inoltre, l'ambiente di Francesco Cattaneo da Diacceto, tra i cui discepoli lo elencarono sia il Varchi sia il Lapini. Giovanissimo, succedette al proprio maestro Riccardini, morto il 16 marzo 1506, come collaboratore di Filippo Giunti, per il quale svolse durante un decennio un'intensa opera di revisore e di emendatore di testi di classici latini, cui la tipografia giuntina diede uno spazio privilegiato nel suo programma culturale nei primi anni di attività. Tra il 1507 e il 1517 il D. si dedicò al ripristino di testi che le stampe quattrocentesche avevano assai alterati. Primo frutto di questo intenso lavoro filologico, che impegnò una larga cerchia di amici umanisti che gli'offrirono il loro aiuto, è l'edizione del De rebusgestis Alexandri Magni di Quinto Curzio Rufo, apparsa nel dicembre del 1507 con una lettera di dedica ad Alessandro Acciaiuoli, il cui padre, Donato, lodato per la capacità di conciliare lo studio del greco e del latino e della storia con un'intensa e impegnata attività politica, veniva proposto come modello alle nuove generazioni.
Il D. rivendicava inoltre la superiorità della storia sulla filosofia come "magistra vitae", sottolineando quindi l'opportunità di riproporre un testo che "tum stili nitore, tum rerum magnitudine ac varietate, plurimum iuventuti nostrae utilitatis ac eruditionis allaturum esse", e si riconosceva debitore ad Angelo Angeni che lo aveva assistito nella revisione del testo che si presentava particolarmente scorretto.
Segue l'anno successivo l'edizione del De bello Gallico di Cesare e del Bellum Alexandrinum di A. Irco con dedica a Niccolò Valori, in cui viene ribadita l'utilità della storia come mezzo per acquistare la sapienza. Del medesimo anno l'edizione del De officiis. Lelius de amicitia. Cato Maior de senectute. Somnium Scipionis di Cicerone, per predisporre la quale si avvalse, come ebbe a dichiarare, della collaborazione di tutti i letterati di Firenze e in particolare di Giovanni Francesco Zeffi, appartenente alla cerchia del Diacceto e familiare di Pierfrancesco de' Medici, cui l'edizione venne dedicata. Sempre al 1508 risale l'edizione delle Tusculanae, che il D. fece precedere da una lettera di dedica a Girolamo Benivieni - il tenace seguace del Savonarola che nell'ambiente del Ficino e del Pico si era nutrito di dottrine platoniche - il quale dalla lettura dell'opera ciceroniana avrebbe dovuto trarre forza per sopportare le crudeli sofferenze fisiche. Nel 1514 il D. curò l'edizione di tutte le opere oratorie di Cicerone, dedicandola a Lorenzo Segni. L'impegno filologico sembra averlo totalmente assorbito, lasciandogli poco tempo per l'attività letteraria, limitata alla sola composizione di una Vita di Bartolomeo Valori, scritta in latino, rimasta inedita, che si conserva in vari esemplari manoscritti e alla Recitazione del caso di Pietro Paolo Boscoli e di Agostino Capponi, cuiè legata la sua fama.
Lo scritto ebbe origine dalla condanna inflitta al Boscoli e al Capponi, accusati di aver ordito una congiura che si proponeva di assassinare il cardinale Giovanni de' Medici, il fratello Giuliano e il cugino Giulio per porre fine ai sistemi dispotici mediante i quali, dopo il loro ritorno a Firenze nel settembre del 1512, erano riusciti a smantellare la Repubblica e a restaurare il potere del loro casato. Il 18 febbr. 1513, a seguito del rinvenimento e della consegna agli Otto di guardia e di balia di una lista con una ventina di nomi, furono arrestate una dozzina di persone, tra cui Niccolò Machiavelli, il quale, dopo essere stato sottoposto alla tortura, venne rilasciato. Il Boscoli e il Capponi, riconosciuti come capi della congiura, vennero, invece, condannati alla pena capitale, che fu eseguita il 23 febbraio. Della loro morte è rimasta testimonianza nel racconto poetico e commovente del D., il quale in quanto membro della Compagnia dei neri, assistette l'amico Boscoli nelle sue ultime ore. Incerta è la datazione dello scritto. Se, infatti, la narrazione, procedendo senza pause e senza digressioni sul filo di una profonda tensione emotiva, accresciuta dalla efficace riproduzione dei dialoghi serrati e scarni tra il condannato e i suoi confortatori - il D. stesso e il savonaroliano fra' Cipriano da Pontassieve, priore di S. Domenico di Fiesole - induce a ipotizzare l'immediata registrazione da parte del D. di ciò che aveva udito e visto nella notte che aveva preceduto l'esecuzione, l'aggiunta posteriore, fatta risalire dal narratore al maggio 1513, di un brano relativo alla distinzione operata da Tommaso d'Aquino tra congiure ordite ai danni di un tiranno impostosi al popolo, ritenute lecite, e congiure contro un tiranno scelto dal popolo condannate come illecite, sembrerebbe suggerire una certa distanza temporale tra l'accadimento del drammatico episodio ed il resoconto che ne diede il Della Robbia.
Il problema della datazione - insolubile allo stato attuale della documentazione - riveste, tuttavia, una importanza relativa per l'interpretazione del testo, che indipendentemente dal grado di fedeltà e di veridicità della registrazione delle parole del Boscoli e dei suoi confortatori, reca un contributo rilevante alla conoscenza della religiosità e della cultura di un gruppo di individui e di un'età. Il dissidio tra cultura pagana e cultura cristiana, acuito e propagato dalla predicazione del Savonarola in ambiente fiorentino, acquista nella Recitazione una drammaticità vigorosa di fronte alla necessità di contenere il dibattito sugli studia humanitatis e gli studia divinitatis nei suoi termini essenziali. L'angosciosa, ripetitiva constatazione del Boscoli sulla brevità del tempo concessogli per prepararsi alla morte - "Io ho poco tempo", "il tempo è breve" - scandisce il ritmo febbrile del racconto e conferisce ai dialoghi una incisività e un'efficacia non comuni. La crisi latente di una generazione di umanisti che avevano creduto di potere affrontare e superare gli sconvolgimenti politici e religiosi degli anni a cavallo tra i due secoli agguerriti dalla saggezza attinta agli scrittori dell'antichità, esplode con violenza e senza orpelli retorici di fronte all'esiguo spazio di tempo concesso al Boscoli per prepararsi a morire cristianamente. La lettura dei classici, che aveva ispirato quella congiura "che sapeva più di libri che di pugnali", lo aveva però adeguatamente preparato ad affrontare senza timore la morte fisica e l'esempio di Bruto era fin troppo presente alla sua memoria a suggerirgli atteggiamenti eroici - "Deh! Luca, cavatemi della testa Bruto, acciò ch'io faccia questo passo interamente da cristiano!" -, sicché non era senza insofferenza e impazienza che replicava a fra' Cipriano che lo esortava a sopportare la morte: "Padre, non perdete tempo a cotesto, perché a questo mi bastano i filosofi: aiutatemi per ch'io faccia questa morte per amor di Cristo". Ma la sua profonda angoscia nasceva dalla difficoltà di unirsi con Dio, di sentire quella "certa dolcezza", quell'abbandono fiducioso nella passione di Gesù Cristo "umile e benigno e tutto intento a consumare il misterio della nostra redenzione", per la mancata consuetudine con la Bibbia: "dite agli amici nostri - sarà una delle sue ultime raccomandazioni - che studino la Sacra Scriptura, che gli abiti che si contraggono in vita, l'uomo i medesimi gli ha in morte". Tutto volto alla tesa e intensa ricerca di unione con Dio, che sembra placarsi, anche grazie al ricorso agli scritti savonaroliani e alla rievocazione della morte cristianamente eroica del domenicano, nelle effusioni mistiche finali: "Signore, tu se' il mio amore, io ti dono il cuore; io amo te solo, e però ogni cosa amo, perché ognuno amo per tuo amore", il Boscoli manifesta una palese insofferenza di fronte ai soccorsi che gli vengono offerti dall'istituzione ecclesiastica.nel momento del trapasso, percepiti come elementi marginali ed esterni rispetto al problema essenziale ed irrinunciabile della "conversione" interiore. Da questo ripiegamento nell'intimo della propria coscienza, piuttosto che da atteggiamenti eterodossi, nascono il rifiuto della immagine del Redentore sulla "tavoluccia" e del canto dei salmi penitenziali da parte della Compagnia dei neri, e finanche le riserve, dettate certamente anche dal risentimento dei savonaroliani nei confronti dell'istituzione ecclesiastica, espresse nella professione di fede richiestagli dal confessore: "io ho a credere ciò che comanda Cristo. E fra Cipriano: Si, e quel che comanda la Chiesa. E lui disse: Ciò che comanda Iddio. E fra Cipriano: E la Chiesa, che è quel medesimo. E lui: Sta bene, io lo fo".
Catalizzate dalla morte del Boscoli, le tensioni e le ansie del mondo umanista fiorentino trovano nella Recitazione una delle espressioni più vigorose e più incisive. Senza questa partecipazione quasi corale al dramma del Boscoli non sarebbe nata quella che è un'opera di autentica poesia. Il richiamo alla vanità e all'inutilità della cultura pagana per raggiungere il cielo, unica meta del cristiano, doveva certamente colpire chi come il D. aveva speso la sua giovinezza a stubiare i classici e, nella lettera prefatoria dell'edizione giuntina delle opere morali di Cicerone, ne aveva sottolineato il carattere cristiano, notando come "et materiae dignitate, et dicendi vi in omnibus vel fugiendis vel expetendis, quatenus licuit homini christianae religionis inscio, vitam humanam instituit, a qua paucis admoduin in locis, ut sacri theologi notant, discessit". Sarà, d'altro canto, lo stesso D. a suggerire nel 1519 a Girolamo Benivieni di ripubblicare la Bucolica preceduta da un commento che spiegasse ai lettori la purezza dei concetti contenuti nelle sue ecloghe "non obstante el velo delle troppo certo in qualche luogho tenere et licentiose parole", piuttosto che farne "sacrificio a Vulcano", dal momento che era impossibile distruggere le edizioni precedenti.
Non sembra che l'adesione del D., condivisa da altri membri della sua famiglia, agli ideali politici e religiosi del Savonarola gli abbia nuociuto dopo la restaurazione dei Medici, poiché figura in una "Nota dei veduti e seduti dei tre maggiori officii dal mese. di Decembre 1517 in qua", redatta nel 1519 per formare le borse degli eleggibili a sedere nel Consiglio dei settanta. "Fu di Consiglio" nel 1519. La notizia, secondo cui sarebbe succeduto a Niccolò Machiavelli, quando questi nel novembre 1512 fu allontanato dalla Cancelleria, non trova conferma.
Aveva sposato Bartolomea di Giovanni di Benedetto Cicciaporci, dalla quale ebbe per lo meno un figlio di nome Lorenzo che nel 1545 Cosimo I dichiarò "de' suoi venerabili Collegi". La data della sua morte si fa comunemente risalire al 1519.
Ediz. curate dal D., tutte stampate a Firenze presso Filippo Giunti: Quintus Curtius Rufus, De rebus gestis Alexandri Magni regis Macedonum lib. III-X,dicembre 1507; Caius Iulius Caesar, Commentaria Caesaris De bello Gallico. De bello civili,e Aulus Hircus, Octavum librum e Bellum Alexandrinum. Bellum Africanum. Bellum Hispaniense, aprile 1508; Marcus Tullius Cicero, Plura Ciceronis opera (De officiis. Lelius de amicitia. Cato Maior de senectute. Somnium Scipionis), giugno 1508; Id., Tuscularum quaestionum ad Marcum Brutum, settembre 1508; Id., De officiis. De amicitia. De senectute. De paradoxis. De somno Scipionis, aprile 1513; Id., De oratore ad Q. Fratrem. Lib. III. De claris oratoribus qui inscribitur Brutus l. I. Orator ad Brutum li. I. Topica ad Trebatium lib. I. Oratoriae partitiones lib. I. De optimo genere oratorum praefatio quaedam,ottobre 1514. In proposito si veda IGiunti tipografi editori di Firenze 1497-1570. Annali, a cura di D. Decia - R.Delfiol - L. S. Camerini, Firenze 1978, pp. 25, 71-74, 79, 85, 141.
Opere: per l'elenco dei manoscritti della Vita Bartholomaei Valori e della Recitazione si veda P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Indices. La Recitazione del caso di Pietro Paolo Boscoli e di Agostino Capponi fu edita da F. Polidori in La viola del pensiero, Miscellanea di letteratura e morale, II,Livorno 1839, pp. 61-98 e di nuovo dal medesimo in Arch. stor. ital., I (1842), pp. 283-309; ristampa a cura di R. Bacchelli, Firenze 1943.
Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. naz., Mss. Magl.,cl. XXVI, cod. 142, f. 121r; 143, f. 80v; A. F. Verde, Lo Studio fiorentino 1473-1503. Ricerche e documenti, III, Studenti "Fanciulli a scuola" nel 1480, I,Pistoia 1977, p. 607; G. Benivieni, Opere,Firenze 1519, cc. 68r-69r; F. Polidori, prefaz. a L. Della Robbia, Recitazione..., in Arch. stor. ital., I (1842), pp. 275-81; C. Re, G. Benivieni fiorentino. Cenni sulla vita e sulle opere,Città di Castello 1906, p. 248; D. Cantimori, Il caso del Boscoli e la vita del Rinascimento,in Giorn. critico della filos. ital., VIII(1927), pp. 241-55; R. Ridolfi, Vita di G. Savonarola, Roma 1952, I, p. 319; II, pp. 195 s., 371; A. Frugoni, Incontri nel Rinascimento. Pagine di erudiz. e di critica, Brescia 1954, pp. 93-100; P. O. Kristeller, Studies in Renaissance thought and letters,Roma 1956, pp. 322 s.; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli,Firenze 1978, pp. 215-20.