LOVATI, Lovato (Lupatus de Lupatis)
Nacque a Padova, nel 1240 o poco prima, da Rolando di Giovanni detto Lovato, che morì prima del 1281; non si conosce il nome della madre.
La famiglia, nella quale si erano succeduti notai da molte generazioni, aveva una posizione di rilievo nella società padovana. Il padre fu notaio presso Giacomo da Carrara nel 1257 e fu legato a Guecellone Dalesmanini. Il fratello Alberto, anch'egli notaio (morì prima del 1301), era attivo al servizio dei da Camino, signori di Treviso, e nel 1297 ricoprì la carica di cancelliere del Comune di Padova. La sorella sposò Guido da Piazzola e tra i suoi figli ci fu il giudice, umanista e antiquario Rolando, che divenne discepolo del Lovati.
La prima testimonianza relativa al L. risale al 22 luglio 1257, in un documento notarile redatto dal padre dove compare la sua sottoscrizione: "Lovatus filius Rolandi notarii, regalis aule notarius" (Guido Billanovich, 1976, p. 26). È l'atto da cui si può dedurre la data di nascita del L., dato che si diventava notaio dopo il compimento dei diciassette anni.
Il 6 maggio 1267 fu ammesso nel Collegio padovano dei giudici, del quale risulta essere stato gastaldo, insieme con Guglielmo Curtarolo, in un documento datato 10 febbr. 1273.
Intorno al 1270 sposò Jacopina di Vincenzo da Solesino, dalla quale ebbe quattro figli: tre maschi, dei quali il maggiore si chiamava Rolando, il secondo Polidamante, dal nome del figlio dell'eroe troiano Antenore, e il terzo Giordano; e una femmina, Beatrice. Nel 1275 il suo nome compariva in una lista di cittadini padovani residenti nella contrada S. Lorenzo, nei pressi del ponte Altinate. Quando gli scavi compiuti nell'area nel 1283 portarono alla luce uno scheletro di dimensioni rilevanti, il L. non esitò a identificarlo con quello di Antenore, l'eroe troiano leggendario fondatore di Padova. In seguito a questo avvenimento il L. convinse i capi della città a costruire un monumento funebre per il quale compose un'iscrizione che descriveva la fondazione della città con versi tratti da Virgilio, dai Fasti di Ovidio e da Livio.
La carriera del L. come giudice in Padova è documentata per gli anni 1271, 1290, 1299-1300, 1303 e 1306-07. Nel 1282 ricoprì anche la carica di podestà di Bassano, in seguito alla quale il L. fu nominato l'anno successivo arbitro fra i Comuni di Bassano, Solagna e Piove di Sacco. Nel 1288 e nel 1293 fu a Treviso come procuratore di Tommaso Caponegro nei suoi sforzi per acquisire l'eredità del trevigiano Ansegiso Guidotti, che era stato vicario di Ezzelino da Romano a Padova. Il 20 giugno 1289 il L. compare, insieme con Zambono di Andrea, come testimone nella contrada S. Martino a Padova nella divisione della proprietà di Giacomino Papafava da Carrara tra i suoi quattro figli.
Fu podestà di Vicenza dalla fine del 1291 alla fine del 1292. In quel periodo era già stato creato cavaliere, dato che in un documento del 19 luglio 1292 è definito "honorabilis miles dominus Lovatus iudex de Padua potestas Vincentie" (Verci). Insieme con Albertino Mussato, il 30 ott. 1302 redasse uno statuto di rappresaglia a favore di Elena Della Torre, prima moglie di Nicolò di Ubertino da Carrara, che la metteva in grado di recuperare i suoi beni a Milano. Il 18 maggio 1304 il L. comparve come testimone, insieme con diversi altri notabili padovani, tra i quali Zambono di Andrea, al trattato che assicurava a Padova l'appoggio di Verona nella guerra del sale contro Venezia. Nel 1306 fu uno dei Dodici savi scelti dal Comune padovano per proteggere il ritorno in città di Pietro d'Abano.
Oltre che per l'attività di giudice, di podestà e di membro influente del Comune di Padova, il L. fu noto anche come copista e collezionista di testi classici, poetici e storici, molti dei quali furono da lui usati per la composizione dei suoi scritti. Sulla base delle citazioni nelle sue epistole metriche e nelle altre composizioni poetiche, nonché nei lavori degli amici padovani, diversi studiosi, in primo luogo Guido e Giuseppe Billanovich, hanno dimostrato che il L. e la sua cerchia, comprendente Zambono di Andrea, Albertino Mussato e Geremia da Montagnone, conoscevano le opere di Lucrezio, Catullo, i Carmina di Orazio, Tibullo, Properzio, l'Ibis ovidiana, Marziale, le Silvae di Stazio oltre agli altri poeti e scrittori latini conosciuti lungo tutto il corso del Medioevo. W. Ludwig sostiene invece che il L. possa anche non aver conosciuto Catullo, in quanto i passi catulliani identificati da alcuni studiosi si sarebbero potuti attribuire anche ad altri poeti latini. Allo stesso modo J.L. Butrica ha respinto l'affermazione secondo la quale il L. e la sua cerchia conoscessero le opere di Properzio sulla base del fatto che i riscontri addotti fossero in realtà eco di altri autori, soprattutto di Ovidio, o semplicemente topoi della poesia antica, e che la tradizione manoscritta dimostra che prima di Petrarca Properzio era conosciuto solo in Francia e non in Italia. Quale che sia la verità sulla conoscenza da parte del L. di singoli poeti latini, è però certo che egli e la sua cerchia padovana possedevano la più completa conoscenza della letteratura latina dalla fine dell'antichità. Questa conoscenza era basata sullo studio e sulla copiatura degli antichi testi trovati nelle biblioteche della cattedrale di Verona e dell'antica abbazia benedettina di Pomposa.
Delle trascrizioni dei testi antichi di mano del L. ne è rimasta solo una, che si conserva presso la British Library di Londra, Add. Mss., 19906, nel quale il L. copiò da un manoscritto di Pomposa l'Epitome dello storico della tarda latinità Giustino e la parte finale del De temporum ratione di Beda con il titolo De temporibus, prima di aggiungere le proprie epistole metriche, le Formule dictandi, esercizi retorici composti dal L., e infine l'abbozzo di un atto notarile, datato 8 apr. 1290 a Treviso. È stato persuasivamente ipotizzato che da giovane il L. avesse tratto una copia delle nove tragedie di Seneca da un manoscritto di età carolingia registrato nel catalogo del monastero di Pomposa redatto nel 1093, forse da identificare con il manoscritto conservato presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, Plut., 37.13, conosciuto come codice Etruscus. La versione scritta dal L. delle tragedie senecane, alle quali egli aggiunse l'Ottavia e collazionò con almeno un altro manoscritto, non si è conservata, ma da essa derivano almeno tre copie in Italia all'inizio del XIV secolo. Una di queste copie (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 1769), contiene diverse opere di Seneca, autentiche e spurie, tra le quali le tragedie travasate nel testo perduto del L. e, alla c. 246v, un breve trattato del L. che spiega la metrica senecana con esempi. Il titolo di questo trattato, Note domini Lovati, è di mano del nipote del L., Rolando da Piazzola, e i margini del manoscritto presentano annotazioni di mano di Albertino Mussato. Sull'ultima carta Rolando da Piazzola annotò una versione di un'iscrizione su Lucano che aveva copiato a Roma nel gennaio 1304. Se l'annotazione di Rolando fosse di poco successiva al suo ritorno da Roma, il manoscritto vaticano con le opere di Seneca potrebbe essere stato copiato nei primi anni del XIV secolo.
La più grande impresa del L. come editore dei testi antichi fu la creazione di una versione unificata della prima, terza e quarta decade dell'Ab urbe condita di Livio. Che il L. stesse lavorando per approntare un proprio testo di Livio è provato da una genealogia di Annibale e da altre note marginali presenti nel già ricordato codice contenente Giustino, dove egli identificava passi paralleli nelle decadi I, III e IV di Livio. Giuseppe Billanovich ha dimostrato (1981, pp. 282-334) che il L. aveva ottenuto da Pomposa il testo delle decadi liviane che copiò alla fine del Duecento. Poiché tutti i figli del L. morirono presto, i suoi libri passarono alla vedova Jacopina che fece testamento il 13 sett. 1331, lasciando il resto dei suoi beni, tra i quali i libri del marito, alla nobildonna veneziana Elisabetta Gradenigo, figlia del doge Pietro e vedova di Giacomo da Carrara, primo signore di Padova. Quando un suo lontano parente, Ludovico Gradenigo, fu nominato ambasciatore veneziano presso la corte papale di Avignone nel 1372, portò con sé una serie di testi classici, tra i quali le tre decadi liviane. È possibile che esse fossero le versioni di Livio ereditate da Elisabetta Gradenigo. È anche possibile che il Livio del L. sia passato da Padova a Mantova, dove un inventario dei libri di Francesco Gonzaga redatto nel 1407 elenca due copie delle tre decadi dell'Ab urbe condita.
Il corpus poetico del L. è esiguo e consiste di quattro epistole metriche e alcune brevi composizioni, tra le quali una tenzone latina (Questio de prole) con l'amico Albertino Mussato. La prima epistola metrica è una risposta a Compagnino del Sale che chiedeva notizie sulla salute del L., e fu scritta quando il L. aveva ventisette anni, come ricorda egli stesso nel testo. Questo dato colloca la composizione del testo alla fine del 1267, circostanza confermata da un riferimento al conflitto tra Carlo d'Angiò e Corradino di Svevia che scendeva dalla Germania pochi mesi prima della battaglia di Tagliacozzo, nell'agosto 1268. Nell'estesa descrizione della malattia che mise a repentaglio la sua vita, il L. descrive come disperò di guarire per le cure di un medico e come infine guarì grazie alla pozione magica preparata da una vecchia strega. Nella seconda epistola indirizzata a Compagnino, composta poco tempo dopo, il L. afferma di sentirsi molto meglio e di pensare anche al matrimonio.
Altre due epistole furono composte a Treviso, dove il L. e suo fratello Alberto furono attivi come notai e giudici. Quella indirizzata a Ugo Mezzabati, un compianto dedicato alla malattia del L. e alla sua debolezza causata dall'età avanzata, può essere datata al 1292 poiché l'autore si lamenta per aver già consumato la sua cinquantesima vendemmia ("Altera iam decimi teritur vindemia lustri" in Foligno, p. 48). L'epistola più interessante, non datata, ma risalente probabilmente circa al 1290, è una discussione sulla natura dell'arte poetica in risposta a una lettera, andata perduta, del poeta e grammatico milanese Ardighino Bissolo. In questa breve ars poetica il L. si oppone all'opinione del suo interlocutore, per cui il giusto modo di misurare il valore della poesia è il consenso da parte di molti, e argomenta che il poeta non dovrebbe aspirare sempre alla popolarità o cercare di rendere la propria poesia piacevole e accessibile a tutti i suoi fruitori. Piuttosto il suo ideale poetico è quello di mettersi sulle orme dei poeti antichi e per questo le epistole metriche del L. sono erudite, talvolta oscure e piene di frammenti poetici antichi e reminiscenze mitologiche.
I più tardi carmina che trattano di temi politici e sociali risalgono agli ultimi dieci anni della vita del Lovati. Il principale è una tenzone composta di dieci parti, per complessivi 100 versi, la Questio de prole, nella quale il L. discute con Albertino Mussato se sia meglio o no avere figli. Mussato argomenta sulle conseguenze positive dell'avere figli e il L. su quelle negative, mentre Zambono di Andrea ha il compito di trarre le conclusioni. Seguendo l'uso della poesia provenzale, il L. e i suoi amici usano un senhal per identificarsi. Il L. prese il nome Lupus; Mussato Asellus, e talvolta Mussus; Zambono Bos. Nella disputa il L. sosteneva che i figli erano fonte di affanno e infelicità per i padri. Mussato argomentava che non è giusto avere paura di avere figli pensando che le cose possono andare male, così come un agricoltore non può non seminare un campo perché i semi potrebbero essere divorati dagli uccelli. Zambono giudicò condivisibile la posizione del L. ed espresse le sue ragioni in un componimento (carmen XI) che è più lungo di tutta la disputa. Quando Mussato minacciò di ricorrere in appello contro la decisione presso l'amico poeta vicentino Benvenuto Campesani, Zambono scrisse un altro componimento (carmen XII) indirizzato al Campesani nel quale descriveva la disputa e motivava il suo giudizio.
Gli altri componimenti poetici del L. trattano di questioni più strettamente politiche, come quando nel 1302 Mussato chiese al L. se lo stato di guerra in Toscana avrebbe potuto avere ripercussioni in Veneto. La risposta fu prudente, in quanto egli temeva che le ostilità avrebbero potuto alimentare le fazioni a Padova. Ancora più pessimista fu un componimento scritto dal L. dopo il trattato di Treviso, dell'ottobre 1304, che aveva posto fine alla guerra del sale. Il L. temeva che la pace disastrosa e la libertà ferita di Padova avrebbero potuto condurre a un secondo conflitto. Nel complesso questi brevi componimenti di argomento politico non raggiungono la qualità estetica o la profondità filosofica delle epistole metriche. Molti sono semplici giochi di parole nei quali il poeta si diletta in assonanze, rime e bizzarrie. Ma questi componimenti ebbero una certa popolarità e circolarono in due redazioni in cinque manoscritti, i più antichi dei quali risalgono alla fine del XIV secolo.
A esclusione degli esercizi di retorica contenuti nelle ventuno Formule dictandi, tutte le altre opere del L. sono tramandate in forma frammentaria. Solo sei versi, copiati da Giovanni Boccaccio, sono rimasti del poema latino su Tristano e Isotta, che fu conosciuto da Giovanni Del Virgilio e che, da ciò che si è in grado di ricostruire della trama, seguiva probabilmente la vicenda del duecentesco Roman de Tristan. Daniela Delcorno Branca ha dimostrato che il frammento che Boccaccio copiò alla fine dello Zibaldone laurenziano corrisponde all'incipit dell'opera perduta, in quanto vi si delineano le caratteristiche di Isotta: la divina bellezza, la fama letteraria e il destino che l'avrebbe condotta ad abbandonare il marito per un altro ineluttabile amore. Perduto è anche un breve poema epico sui conflitti tra guelfi e ghibellini a Padova, dedicato al nipote Rolando da Piazzola, conosciuto solo attraverso un elenco di fonti storiche su Padova redatto da Giovan Francesco Capodilista in una compilazione di carattere familiare composta durante il concilio di Basilea nel 1434. Come precisa l'annotazione, l'originale si trovava presso la biblioteca dei mercanti e mecenati padovani Niccolò e Antonio Ovetari, benché lo stesso Capodilista ne possedesse una copia: "Item parvus libellus Lovati poete Patavi, ad nepotem, De conditionibus urbis Padue et peste Guelfi et Gibolengi nominis, qui versus ponuntur in cronica, que est apud dominum Nicolaum et Antonium fratres de Ovetariis, et copiam habemus" (Forzatè, p. 52).
L'eventualità di un conflitto tra fazioni influenzò decisamente il L. nell'ultimo periodo della sua vita. In una delle sue opere storiche, Mussato ricorda che quando scambiava delle opinioni con gli amici nelle taverne cittadine il L. e Rolando da Piazzola si lamentavano che Padova era cresciuta così tanto da non essere più in grado di rispondere alle sfide di un mondo in cambiamento fatto di fazioni e conflitti incombenti.
Ma il L. non visse così a lungo da vedere la discesa dell'imperatore Enrico VII in Italia poiché morì a Padova il 7 marzo 1309. Fu sepolto fuori della chiesa di S. Lorenzo in un'arca sostenuta da quattro colonne, adiacente alla tomba di Antenore.
Per la sua tomba il L. stesso compose un epitaffio in due quartine: "Id quod es, ante fui; quid sim post funera, queris; / quod sum, quicquid id est, tu quoque, lector eris. / Ignea pars celo, cese pars ossea rupi, / lectori cessit nomen inane Lupi. D.M." (Guido Billanovich, 1976, p. 21); "Mors mortis morti mortem si morte dedisset, / hic foret in terris aut integer astra petisset. / Sed qui dissolvi fuerat sic iuncta necesse, / ossa tenet saxum, proprio mens gaudet in esse. V.F." (ibid., p. 22). Fedele ai suoi valori di classicità, il L. insistette perché formule dell'antica pratica funeraria pagana, Dis manibus e Vivus fecit, chiudessero le quartine. Ma dopo la sua morte fu aggiunta la più prosaica iscrizione cristiana: "T. Lovati paduani militis iudicis et poete: obiit anno nativitatis Christi M.CCC nono, septimo die intrante Martio" (ibid.).
Scrivendo quaranta anni dopo la morte del L., Petrarca lo lodava come il più grande poeta del suo tempo, che si era però dedicato agli studi giuridici mescolando le nove muse con le dodici tavole e aveva abbandonato la sua attività poetica per il chiasso delle corti. Nella sua storia degli autori latini composta un secolo dopo la morte del L., il padovano Sicco Polenton riprendeva il giudizio espresso da Petrarca, aggiungendovi l'opinione più favorevole secondo la quale "Erat Lovatus aetate tunc senex virque hac in civitate honoratus ac multae scientiae, nam et civili in iure erat doctissimus" (p. 127).
Opere: Carmina. Manoscritti: La Questio de prole è tramandata da cinque manoscritti che attestano due redazioni dell'opera. Il manoscritto M contiene anche carmina scritti dal Mussato e Zambono di Andrea. Redazione A: manoscritto M (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. lat., cl. XIV, 223 [=4340]), membranaceo, fine sec. XIV: Questio de prole, cc. 37ra-38vb; Carmina, cc. 38vb-42rb. Cfr. Monti, 1985, pp. 74-76; Giuseppe Billanovich, Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, pp. 343-347; P.O. Kristeller, Iter Italicum, II, p. 268. Manoscritto C (Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 2408 [=2389]), cart., 1401: Utrum sit melior conditio an habencium filios an non habencium, cc. 47r-52v. Cfr. Monti, 1985, pp. 76-81; Kristeller, VI, p. 266. Redazione B: manoscritto L (Leida, Biblioteca dell'Università statale, Bpl. 8A [già MS. 440]), membr., inizi sec. XV: Questio de prole, cc. 109r-110r. Cfr. Monti, 1985, pp. 81-85, Kristeller, IV, p. 354. Manoscritto Bc (Berkeley, University of California, Bancroft Library, Ucb, 145), cartaceo fine sec. XIV: Questio disputata inter Lupattum et Mussattum poetas Paduanos, videlicet utrum optabilius sit habere filios vel carere, cc. 12v-16r. Cfr. Monti, 1985, pp. 85-88; Id., 1986, pp. 112, 114, 123; D. Dutschke, Census of Petrarch manuscripts in the United States, Padova 1986, pp. 62-64; Kristeller, V, p. 216. Manoscritto V (Verona, Biblioteca capitolare, CCLXVI [242]), cartaceo, sec. XV: Questio composita per Musatum de Musatis de Padua inter ipsum et dominum Lovatum de Padua et commissa fuit domino Bovi de Padua, qui erat iudex inter eos, scilicet utrum sit bonum habere filios an non, cc. 33r-36r. Cfr. Monti, 1985, pp. 88-90; Kristeller, II, p. 298. Edizioni: Da M: Lupati de Lupatis, Bovetini de Bovetinis, Albertini Mussati necnon Iamboni Andreae de Favafuschis carmina quaedam ex codice Veneto nunc primum edita, a cura di L. Padrin (nozze Giusti-Gustiniani), Padova 1887, pp. 1-6 (Questio de prole), 12-16, 21 s., 36. L'edizione della sola Questio de prole, fondata sulla redazione B trovata in L, collazionata con l'edizione del Padrin, in Novati, 1922, pp. 180-183, ripubblicata con traduzione italiana in Bolisani, pp. 71-77.
Epistolae metricae: Londra, British Library, Add. Mss., 19906, membranaceo, sec. XIV, cc. 74v-77v. Cfr. Catalogue of additions to the manuscripts in the British Museum, 1854-60, London 1877, p. 17; Kristeller, IV, p. 105; Guido Billanovich, 1976, pp. 29 s. Edizioni: C. Foligno, Epistole inedite di Lovato Lovati e d'altri a lui, in Studi medievali, II (1906-07), pp. 37-58, con le correzioni di R. Sabbadini, Postille alle epistole inedite di Lovato, ibid., pp. 255-262; W.P. Sisler, An edition and translation of Lovato Lovati's metrical epistles with parallel passages from ancient authors, dissertazione, Johns Hopkins University, Baltimora 1977, pp. 24-110; Epistola a Bellino, incipit: "Fontibus irriguam spatiabar" in Guido Billanovich, 1989, pp. 124-127, W. Ludwig, 1987, pp. 7-9.
Formule dictandi: Londra, British Library, Add. Mss., 19906, cc. 78r-81r; brani pubblicati in Guido Billanovich, 1989, pp. 111-114.
Sermone de amoribus Tristani: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, XXXIII. 31, c. 46r. Cfr. Da Rif, pp. 81-84, 120. Edizioni: Padrin, Lupati de Lupatis, p. 42; Wicksteed - Gardner, p. 325; A. Albini, L'ecloga di Giovanni del Virgilio ad Albertino Mussato, in Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna, s. 3, XXIII (1905), pp. 260 s.; Larner, p. 23; Da Rif, p. 120; Delcorno Branca, p. 60.
Note domini Lovati: Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 1769, c. 246v. Cfr. Guido Billanovich, 1976, pp. 59 s.; Megas, pp. 99-101; Edizioni: Novati, 1885, p. 192 n.; Megas, p. 105, con commento a pp. 108 s.
Opera epica perduta: De conditionibus urbis Padue et peste guelfi et gibolengi nominis, elencata in Padova, Biblioteca civica, Mss., B.P.954: G.F. Forzatè, De viris illustribus familiae Transelgardorum Forzatè et Capitis Listae, c. 4v; ed. a cura di M. Blason-Berton, Roma 1972, p. 52. Cfr.: V. Lazzarini, Un antico elenco di fonti storiche padovane, in Id. Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 1969, p. 293.
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