Delluc, Louis (propr. Louis-Jean-René)
Teorico, regista e sceneggiatore francese, nato a Cadouin (Dordogne) il 14 ottobre 1890 e morto a Parigi il 22 marzo 1924. Fondamentale fu il suo contributo al processo di elaborazione teorica che andava maturando sul cinema intorno agli anni Venti in Francia e che mirava a mettere in luce la natura artistica nonché la forza innovativa di questa forma di espressione, prospettandone le grandi, e non ancora esplorate, potenzialità. D. fu tra i più importanti esponenti del cosiddetto Impressionismo francese, in quanto con la sua estrema lucidità e consapevolezza speculativa, ma anche con l'attività di promotore culturale e la realizzazione di alcuni film, influenzò profondamente il gruppo di registi che si riconosceva nei suoi principi e nelle sue dichiarazioni di poetica, in particolare, tra i più importanti, Marcel L'Herbier, Germaine Dulac, Abel Gance, Jean Epstein, i quali vollero realizzare e ulteriormente sviluppare le sue intuizioni.
Giunto a Parigi all'età di quindici anni, dopo aver pubblicato una raccolta di poemetti abbandonò gli studi per dedicarsi completamente all'attività letteraria, scrivendo romanzi, racconti, drammi e commedie, e quindi al giornalismo, interessandosi dapprima di teatro e, superata un'iniziale diffidenza, di cinema, conquistato dai grandi registi statunitensi: David W. Griffith, Thomas Ince, il Cecil B. DeMille di The cheat (1915) e, soprattutto, Charlie Chaplin, cui D. dedicò successivamente lo scritto Charlot (1921), prima strutturata analisi del lavoro dell'attore e regista. In un primo tempo collaboratore di "L'intransigeant", di "Comœdia illustré" e, per un certo periodo, del settimanale anarchico "Le bonnet rouge", dal 1917 fu redattore capo della rivista "Film", di cui più tardi sarebbe divenuto il direttore, mentre a partire dal 1918 ottenne l'incarico di critico cinematografico su "Paris-Midi" (che mantenne sino al 1922), titolare della prima rubrica quotidiana dedicata in Francia alla produzione cinematografica. Convinto della necessità di promuovere la produzione di qualità, per lanciare i circoli del cinema (denominati ciné-clubs con un termine da lui stesso coniato) organizzò una serie di iniziative, tra cui la creazione del settimanale "Journal du ciné-club" (1920) e la proiezione al Colisée di Das Cabinet des Dr. Caligari di Robert Wiene, inedito per la Francia. Nel 1921 fondò la rivista "Cinéa", sulle cui pagine la riflessione sull'arte cinematografica acquisì un inedito spessore.
L'originalità e la ricchezza delle sue osservazioni, spesso affidate alla secca incisività degli aforismi, risultano evidenti nella raccolta di critiche cinematografiche Cinéma et cie, che venne pubblicata nel 1919, nella quale emerge la sua concezione del cinema come arte moderna in quanto figlia della macchina e dell'ideale umano, ma anche complessa e potente industria. D. era convinto della necessità che ogni cinematografia nazionale sviluppasse le caratteristiche più originali e distintive della propria identità culturale e che fosse necessario un rinnovamento del cinema francese orientato a sfruttare le infinite sfumature espressive del nuovo mezzo, liberandolo dalla cecità organizzativa dei grandi produttori (come Charles Pathé) e dalla ripetitività di certa produzione contemporanea (per es., i film di Louis Feuillade). Riuscì così a elaborare un compiuto discorso programmatico volto a chiarire quali dovessero essere le caratteristiche della "nuova arte impressionista". In particolare con il concetto di fotogenia (anticipato per certi versi dalla 'cinematografabilità' di Ricciotto Canudo e ripreso e discusso nelle teorie del cinema dei formalisti russi), D. definisce nella sua opera più complessa (Photogénie, 1920) quel particolare aspetto delle cose e delle persone che poteva essere colto e rivelato mediante il nuovo linguaggio cinematografico. In tale prospettiva risulta sottolineato lo scarto tra i materiali di realtà che il regista utilizza e l'operazione di costruzione e di valorizzazione delle immagini che deve compiere. Pur se ancora legata alle caratteristiche intrinseche e, quindi, alla qualità fotografica degli oggetti, la riflessione teorica che ne deriva si rivela innovativa nell'evidenziare la necessità della 'scelta' nell'ambito dei materiali a disposizione dell'autore, in quanto il risultato, ossia la resa sullo schermo, va oltre la semplice struttura delle cose per precisarsi come questione di metodo e di stile. Fondata sull'esigenza di liberarsi dalle convenzioni della produzione contemporanea, la posizione di D. si distacca con forza da qualsiasi nozione di pura riproduzione, e quindi di mero documentarismo e di cinema teatrale, proprio nello sviluppare il concetto di 'oggetto fotogenico', nel senso di valorizzazione delle qualità dell'oggetto utilizzabili da chi fa cinema per caricarlo di significati e renderlo emotivamente forte. In questo progetto affiora una consapevolezza autoriale fino a quel momento inedita nell'ambito della prassi cinematografica, mentre la possibilità di esprimersi attraverso un linguaggio delle immagini debitamente scelte e poste in rapporto tra loro mediante il montaggio (parola che tra i primi D. utilizza in riferimento al cinema) è alla base dell'intera sua costruzione teorica e delle successive elaborazioni pratiche, cui venne dato complessivamente il nome di visualismo, evidenziandone i rapporti con la prima avanguardia. D. sottolinea come fondamentali per l'arte fotogenica siano quattro elementi: la scenografia (décor), la luce (lumière), la costruzione del montaggio (cadence), l'attore visto come elemento creativo, vera e propria maschera (masque). Se centrale risulta la scelta degli interni e degli esterni, essenziale è anche la luce che ha il compito di evidenziarne gli aspetti fotogenici, mentre la cadence si rivela un gioco di equilibri e proporzioni attraverso cui le immagini vengono raccordate fra loro con possibilità di alternare tempi e luoghi diversi in scene poste in parallelo.
D., che portava "avanti il suo lavoro rapidamente con stanchezza", come con felice sintesi scrisse l'amico André Draven dedicandogli un ritratto su "Cinéa", volle affiancare agli studi la realizzazione di opere per essere in modo completo un 'cineasta', termine cui conferì il più ampio significato di coinvolgimento totale nella produzione cinematografica e che dette il titolo a un altro suo importante scritto, Les cinéastes, rimasto parzialmente inedito. Esordì così dapprima come autore dello scenario di La fête espagnole, realizzato da G. Dulac nel 1920 e pubblicato nel 1923 con le altre sue più importanti sceneggiature nella raccolta Drames et cinéma, e quindi diresse, sempre nel 1920, insieme al tecnico Réné Coiffard, il suo primo film, Fumée noire, che lui stesso giudicò sbagliato, basato su una sceneggiatura non riuscita e rovinato da errori tecnici. Nello stesso anno girò Le silence, realizzato per la Film d'Art, in cui sono presenti numerosi elementi della sua poetica. Ambientato in un appartamento, quasi un luogo della mente, di cui viene evidenziato ogni dettaglio importante ai fini dello sviluppo della vicenda, narra la storia di un'evoluzione interiore, la presa di coscienza dell'errore compiuto da un uomo che ha ucciso la propria moglie credendola infedele, e il progredire degli eventi risulta legato al confronto tra presente e passato, possibile grazie al continuo ricorso al flashback. Fondamentale nel film è infatti l'uso del montaggio alternato, cui D. sarebbe ricorso spesso anche in seguito, per seguire l'avvicendarsi tra realtà e flusso dei ricordi. Il successivo Fièvre fu realizzato in pochi giorni nel febbraio del 1921 e venne pesantemente attaccato dalla censura, che lo ritenne immorale e ne fece cambiare il titolo originale (La boue). Il film, ambientato in una bettola marsigliese, intreccia intorno al dramma principale (una sfortunata storia d'amore tra la moglie del padrone della taverna e un marinaio, nel quale la donna riconosce l'amante di un tempo) le vicende degli altri personaggi, affidando il pathos narrativo al gioco di raccordo con la cornice, nel pieno rispetto delle tre unità di tempo, luogo e azione, e alla suggestione delle immagini che D. mirava a enfatizzare rifiutandosi di utilizzare la profondità di campo per lasciare sfocato tutto ciò che non era in primo piano. Dopo Le tonnerre, un cortometraggio tratto da un racconto di M. Twain, e Le chemin d'Ernoa (o L'américain) su sceneggiatura originale, entrambi del 1921, il regista riuscì infine a realizzare La femme de nulle part (1922) il cui titolo gli era stato ispirato dal titolo francese (Rio Jim, l'homme de nulle part) di un western statunitense (The man from Nowhere, 1915, di William S. Hart), e che era stato ideato per Eleonora Duse, costretta tuttavia a rinunciarvi per motivi di salute. La complessa parte di una donna invecchiata e sfiorita e della ragazza che era stata un tempo fu quindi affidata a Eve Francis, l'attrice che D. aveva sposato nel 1918 e che aveva interpretato tutti i suoi film precedenti. Al centro della vicenda, pervasa di sofferta poesia, una villa in cui la protagonista fa ritorno dopo trent'anni, e che assume il rilievo di un personaggio. La macchina da presa infatti ne esplora tutti i particolari che consentono di rievocare il passato mediante flashback, volutamente sfocati, nei quali i personaggi indossano abiti della seconda metà dell'Ottocento ispirati ai quadri di A. Renoir.
Profondamente convinto che lo spettacolo cinematografico dovesse essere destinato al grande pubblico e non a una ristretta élite, D. non riuscì però a realizzare le sue opere se non al di fuori dell'industria cinematografica, e lo sforzo produttivo per ultimare La femme de nulle part lo costrinse a vendere la sua rivista "Cinéa" alle Publications François Tedesco. Fu quindi l'amico L'Herbier a consentirgli di girare il suo ultimo film, L'inondation (1924), ancora una volta interpretato dalla Francis e fortemente influenzato dai film svedesi che il regista amava, in particolare da Karin Ingmarsdotter (1920) di Victor Sjöström in cui, come poi nel film francese, la vicenda risulta incentrata intorno a un fiume che diviene il protagonista ideale dell'opera. Anche D., infatti, volle orchestrare la storia di amore e di morte in modo da valorizzare la bellezza e la potenza della natura che acquista un rilievo fondamentale nell'evidenziare la drammaticità degli eventi.
Ormai malato, non riuscì a portare a termine nessuno degli altri suoi numerosi progetti, tra cui il film Paris di cui aveva già scritto la sceneggiatura. Pur realizzate tra difficoltà economiche e spesso soffocate da un intellettualismo e da un formalismo eccessivi, le sue opere furono il complemento dei saggi teorici che costituirono una tra le prime e più consapevoli meditazioni sul cinema, e non a caso Léon Moussinac dedicò alla memoria dell'amico da poco scomparso il suo libro Naissance du cinéma (nel quale grande rilievo ha il concetto di fotogenia). Mentre il fatto che il premio annuale al migliore film francese (il Prix Louis Delluc istituito nel 1937) gli sia stato intitolato e che, tra il 1985 e il 1990, i suoi scritti e i suoi scenari siano stati ripubblicati a cura della Cinémathèque française rappresentano ulteriori riconoscimenti dell'importanza della sua figura.
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