Los olvidados
(Messico 1950, I figli della violenza, bianco e nero, 88m); regia: Luis Buñuel; produzione: Oscar Dancigers per Ultramar; sceneggiatura: Luis Buñuel, Luis Alcoriza, Max Aub, Pedro de Urdimalas; fotografia: Gabriel Figueroa; montaggio: Carlos Savage; scenografia: Edward Fitzgerald; musica: Rodolfo Halffter.
Città del Messico. In un quartiere di periferia, un gruppo di ragazzi sta giocando. Jaibo, da poco evaso dal riformatorio, è il loro capo; il più giovane Pedro è abbagliato dalla sua personalità. Il gruppo picchia a sangue un vecchio suonatore ambulante cieco, don Carmelo, sostenitore del dittatore Porfirio Díaz. Jaibo vuole poi vendicarsi del suo compagno Julián, che considera responsabile del suo arresto: lo aspetta nei pressi di un vecchio palazzo in rovina, e lo uccide. Quindi, costretto a nascondersi, trova riparo nei pressi della casa di don Carmelo. Una notte Pedro fa uno strano sogno: vede Julián, la madre che gli porge un pezzo di carne cruda e Jaibo che gli sottrae il cibo. Jaibo ruba un coltello, si reca dalla madre di Pedro e le fa delle avances. Pedro, incolpato del furto del coltello, viene ricercato dalla polizia. Avvicinato da un pedofilo, è salvato da un agente. Senza dimora, dorme in una vecchia casa, da cui lo scacciano due barboni, quindi trova lavoro come giostraio. Jaibo intanto diventa l'amante della madre di Pedro, il quale infine finisce in riformatorio. Per metterlo alla prova il direttore gli dà cinquanta pesos per andargli a comprare un pacchetto di sigarette. Ma Jaibo ruba il denaro a Pedro. Tra i due nasce una rissa: Jaibo fa esplicite allusioni alla sua relazione con la madre, Pedro lo accusa pubblicamente di aver ucciso Julián. Don Carmelo, venuto a conoscenza del nascondiglio di Jaibo, informa la polizia. Jaibo, dopo avere ucciso Pedro, torna al suo nascondiglio, dove trova la polizia ad attenderlo. Nella sparatoria che segue, viene colpito a morte: un cane rabbioso corre verso di lui. Il corpo di Pedro viene gettato in una discarica.
Los olvidados segna un momento importante nella carriera cinematografica di Luis Buñuel. Il film espone con lucida oggettività una piaga aperta nel tessuto sociale: quella dei 'dimenticati', ragazzi abbandonati nelle strade di Città del Messico, la cui infanzia si è presto trasformata in una violenta lotta per la sopravvivenza. Fu il produttore Oscar Dancigers che, dopo i buoni incassi del precedente film di Buñuel, El gran calavera (1949), propose al regista di realizzare un film in piena libertà. Partendo da un fatto di cronaca, il ritrovamento del cadavere di un ragazzino in una discarica della città, Buñuel iniziò a lavorare al progetto con l'aiuto di Max Aub e Luis Alcoriza. Frequentò la periferia di Città del Messico per sei mesi, osservò la vita nei quartieri più disagiati, strinse amicizia con la gente, ne osservò gli usi, visitò le loro fatiscenti abitazioni. Il risultato è un film che pare riallacciarsi a temi e situazioni già presenti in Las Hurdes, noto anche come Tierra sin pan (1932). Ma se in Las Hurdes Buñuel aveva realizzato un vero e proprio documentario sugli abitanti della regione più povera della Spagna, qui egli trasforma la sua osservazione sul campo in un film di finzione, realizzato però con distacco oggettivo, fino alla crudeltà. Attraverso questa storia furiosa di reietti senza fissa dimora, Buñuel sembra dirigersi verso il neorealismo ‒ quello di Vittorio De Sica, di Roberto Rossellini ‒ distanziandosene però grazie al suo approccio da vecchio surrealista. La sociologia non interessa a Buñuel, o meglio, gli basta un'inquadratura per rendere il senso dello squilibrio sociale: si pensi alla giostra a cavalli, il cui meccanismo rotatorio è mantenuto attivo dalla spinta continua di ragazzini che si affannano per il divertimento di altri bimbi più agiati, che su quella giostra a cavalli siedono sorridenti. La gioia dell'infanzia e il dolore, l'umiliazione, la fatica sono qui presenti nella stessa inquadratura. Qualcosa di sproporzionato aleggia sul film.
Mura scrostate delle abitazioni, case in rovina e letti in ottone, scheletri dei palazzi non finiti (dove una grande orchestra doveva suonare l'amato Wagner, ma la scena non venne girata): Los olvidados trae la sua forza cinematografica da un rapporto contrastato, controverso con la materia filmata. Ci mostra un mondo che oscilla tra la modernità e la sacralità arcaica. Ne emergono immagini di enigmatica potenza visiva: ad esempio, i riti contro i malesseri fisici, curati strofinando una colomba sulla schiena di una donna. Mantenendosi alla distanza giusta (quella dell'entomologo), Buñuel ci mostra la violenza del mondo: Jaibo uccide Julián colpendolo con un masso, mentre questi gli volge le spalle, e lo finisce con un bastone. Jaibo uccide Pedro, dopo una colluttazione. Ma pure: un cieco accarezza il corpo acerbo di una ragazzina e questa estrae dal grembiule un piccolo coltello a serramanico. Davanti alle vetrine di un negozio elegante, un uomo offre del denaro a Pedro e si appresta a chiamare un taxi, mentre si fa tangibile un senso di minaccia.
Mai sedotto dalla forma, Buñuel non spreca un'inquadratura, fornendoci un esempio perfetto di essenzialità e al contempo di precisione narrativa. Il film, pur nella sua concretezza, non rinuncia tuttavia a quella strategia surrealista che contempla il sogno come parte integrante dell'attività umana. Due sono i sogni che caratterizzano Los olvidados: nel primo, Pedro vede sua madre nell'atto di donargli un pezzo di carne cruda, che gli viene sottratta da Jaibo. Nel secondo, lo stesso Jaibo in punto di morte sogna un cane rabbioso che corre verso di lui. Come ha autorevolmente affermato André Bazin: "Non dimenticheremo mai questo pezzo di carne, palpitante come una piovra appena uccisa, offerto da una madre sorridente come una madonna. Non dimenticheremo neppure quel povero cane bastardo e rognoso che traversa l'ultima notte della coscienza di Jaibo, morente in un campo abbandonato, la fronte coronata di sangue". Il film vinse il premio per la regia al Festival di Cannes del 1951.
Interpreti e personaggi: Roberto Cobo (Jaibo), Alfonso Mejía (Pedro), Estela Inda (Marta, la madre), Miguel Inclán (don Carmelo, il cieco), Alma Delia Fuentes (Meche), Francisco Jambrina (direttore del riformatorio), Efraín Arauz (Cacarizo), Javier Amézcua (Julián), Mario Ramírez (Ojitos), Hector López Portillo (giudice), Jesús García Navarro (padre di Julián), Jorge Pérez (Pelón), Francisco Muller (Mendoza), Angel Merino (Carlos), Ramón Martinez (Nacho), Charles Rooner (pedofilo), José Moreno Fuentes (poliziotto), Ignacio Solorzano (Luis), Salvador Quirós.
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Sceneggiatura: in "L'avant-scène du cinéma", n. 137, juin 1973.