GIUSTINI, Lorenzo (Lorenzo da Castello)
Figlio di Amodeo e di Cecilia di Ulisse Cambi, nacque a Città di Castello intorno al 1430.
Amodeo, nato nel 1403 da famiglia plebea, fu ambasciatore di Città di Castello nel 1435, podestà di Foligno nel 1442 e quindi governatore di Todi; nel 1448 divenne senatore di Roma. Fu legista reputato e compose un manuale di procedura civile e penale, il De syndicatu, dedicato al G., indicato con i titoli di dottore e cavaliere aurato.
Il G. studiò giurisprudenza a Perugia. Negli annali del Comune di Città di Castello del 1460 figura come podestà di Recanati; due anni dopo appare nei Consigli dei sedici e dei trentadue dell'arbitrio (Muzi). Una Oratiuncola pronunciata il 9 marzo 1462 da uno studente di legge all'Università di Siena attesta che il G. era stato appena eletto podestà di quella città.
In occasione del matrimonio del G. a Siena il segretario della Repubblica senese, l'umanista Agostino Dati, recitò nel palazzo comunale una Oratio nella quale sono elogiate le virtù della sposa, Pentesilea Ribotti - figlia di Baldassarre, dottore e soldato - e celebrate le lodi dei genitori e dello sposo stesso, di nobili origini e di ottima fama in molte città d'Italia per aver ricoperto varie magistrature e alte cariche istituzionali.
Il 30 marzo 1463 i Senesi raccomandarono al pontefice Pio II il G., che cominciò a servire la Chiesa nell'assedio di Fano contro Sigismondo Malatesta, insieme con il cardinale Niccolò Forteguerri, legato della Marca. Dopo la resa della città, ne fu nominato commissario o luogotenente con breve del 1° ottobre. Il 1° giugno 1464 entrò a Perugia per prendere possesso della carica di capitano del Popolo, come informa il cronachista Pietro Angiolo di Giovanni, ma fu recusato, perché, a giudizio del Collegio dei dottori, era privo del legittimo titolo dottorale.
Dopo l'elezione di Paolo II nel 1464, il G. fece la spola fra Roma e Città di Castello, tramando con il padre contro la fazione di Niccolò Vitelli con l'intenzione di impadronirsi del governo cittadino.
Nel gennaio del 1468 il papa aveva favorito un accordo fra gli avversi partiti, inviando due suoi oratori con un nuovo governatore, di fronte al quale i cittadini giurarono di osservare la pace; ma il 6 apr. 1468, dando ascolto alle insistenze del G., il pontefice lo spedì a Città di Castello con un nuovo podestà, per intimare al magistrato l'esilio dei Vitelli e il richiamo dei fuorusciti, minacciando in caso di inadempienza di far rispettare l'ingiunzione militarmente.
Niccolò Vitelli fu informato da un partigiano dei Giustini che Amodeo e i Fucci suoi alleati, nella notte del 10 aprile, avrebbero dato fuoco a una sua casa e, certi che egli vi sarebbe accorso disarmato, lo avrebbero ucciso. Vitelli decise perciò di prevenire i congiurati: adunò segretamente 300 fidati e nella notte dell'8 aprile incendiò una sua casa vicina a quella dei Fucci; poi, approfittando delle tenebre e del caos, fece massacrare molti membri di quella famiglia. Amodeo e Lorenzo si salvarono a stento dalla strage. Intanto giungevano le truppe pontificie, le quali su preghiera del magistrato si accamparono fuori dalle mura, a eccezione dei capitani, per evitare che il fermento popolare aumentasse. In seguito a questi tumulti i Giustini furono banditi da Città di Castello, dove ormai trionfava la fazione dei Vitelli.
Distratto da cure maggiori, Paolo II lasciò cadere l'impresa di Città di Castello, ma non cessò di favorire la carriera del G., che nel 1469 fu eletto senatore di Roma. Nonostante l'assoluzione di Vitelli, che nel frattempo aveva espropriato i beni dei Giustini e tiranneggiava i territori umbri, il desiderio di porre un freno al suo potere era sempre vivo in Curia. Con l'elezione nel 1471 di Sisto IV Della Rovere, la fortuna del G. era destinata a crescere rapidamente. Con lettere del 4, 5 e 6 febbr. 1472, per il secondo anno consecutivo, i cardinali Carafa, Gonzaga e Capranica lo raccomandarono per la podesteria di Firenze (ufficio che a suo tempo aveva consentito a Vitelli di conservare il prestigio e le facoltà quando era stato a sua volta esule). L'ultima intercessione del Capranica venne trasmessa da Iacopo Bracciolini, figlio di Poggio, che come il G. fu poi coinvolto nella congiura dei Pazzi.
Particolarmente significativa è la raccomandazione che il 14 febbr. 1472, da Foligno, il cardinale Iacopo Ammannati scrisse a Lorenzo de' Medici, descrivendo il G. come "uno vostro servitore et bono amico", "homo di cervello et di animo" e infine "di bona condictione, non solamente qui in Fuligno, ma etiamdio per tucto il paese". Da ricerche araldiche non risulta peraltro che i Giustini fossero nobili, e la sola arma della rovere, che si vede tuttora in un muro esterno delle loro case, fu con ogni probabilità concessa loro da Sisto IV.
Le segnalazioni furono efficaci, se il Capranica dovette chiedere a Lorenzo de' Medici il 28 luglio 1472, di rinviare di un semestre la nomina del G. a podestà di Firenze, avendo questi ricevuto dal papa incarico di accompagnare a Milano Girolamo Riario per la stipula del suo matrimonio con Caterina Sforza. Il G. aveva stretto rapporti di amicizia con i potentissimi nipoti del papa, e da allora in poi agì spesso per loro conto. Dai Diari del segretario ducale Cicco Simonetta risulta che il G. era presente il 17 genn. 1473 quando fu sottoscritto l'accordo matrimoniale.
Il 30 gennaio venne raccomandato a Lorenzo de' Medici anche dal duca di Milano. Il G. aveva manifestato il desiderio di tornare a Città di Castello e aveva promesso di astenersi da ogni atto che potesse turbare la quiete cittadina. In realtà, la morsa si stava stringendo intorno a Città di Castello. In agosto fu indetta a Gubbio dal cardinale Pietro Riario una Dieta, alla quale Vitelli rifiutò di partecipare, in quanto invitato soltanto come privato cittadino.
A Firenze, intanto, aumentavano le preoccupazioni di una espansione papale nell'Italia centrale. Nell'ottobre 1473 il G. trattò con Lorenzo de' Medici per conto del cardinale Riario un prestito di 18.000 ducati per l'acquisto di Imola che Lorenzo rifiutò di concedere. Nel febbraio 1474 il G. fu mandato in qualità di oratore e mandatario del conte Girolamo Riario, divenuto signore di Imola, a ricevere in suo nome le chiavi della città.
In giugno le truppe pontificie, al comando del legato Giuliano Della Rovere, salito di rango dopo la morte improvvisa di Pietro Riario, iniziarono una manovra di accerchiamento di Città di Castello. L'assedio durò tutta l'estate del 1474, con alterne vicende diplomatiche. Lorenzo de' Medici avvisò Galeazzo Maria Sforza il 6 agosto della sua volontà di arrivare a un accordo. Dopo una serie di convulse trattative, la città fu consegnata il 31 agosto a Federico da Montefeltro, appena creato duca di Urbino e vessillifero della Chiesa da Sisto IV. Vitelli fu portato a Roma, e in seguito confinato in Toscana.
Il G. entrò a Città di Castello il 1° settembre con il legato pontificio e, accreditato con breve pontificio del 21 novembre, fece il suo rientro ufficiale il 5 dicembre. La situazione politica cittadina rimase tuttavia instabile. Il 17 ott. 1475 i Castellani con una sommossa occuparono la città e richiamarono Vitelli. Quest'ultimo però abbandonò l'impresa, rendendosi conto di non poter espugnare la rocca dove si erano rifugiati i fautori del G., che divenne così arbitro della situazione, agendo di fatto come un vero e proprio fiduciario del papa in ambito regionale.
Dopo l'assassinio di Galeazzo Maria Sforza (26 dic. 1476), l'aggressiva politica di Sisto IV si rivolse sempre più esplicitamente contro i Medici. Il G. giocò un ruolo di primo piano in tutta questa vicenda: nel settembre 1477 a Roma egli istruì un processo contro i partigiani bracceschi di Perugia, in cui Lorenzo de' Medici fu accusato di complicità. Erano i primi segni che i rapporti con Firenze stavano deteriorandosi. Nel novembre 1477 il G. fu accreditato ambasciatore del papa presso il re di Napoli Ferdinando I d'Aragona. Tornato ai primi di dicembre a Roma, egli si preparava a un'importante e rischiosa missione. Fu convocato il 27 marzo 1478 - con Pietro Felici, segretario del duca di Urbino e con il vescovo bretone Thomas James - in palazzo apostolico, nella camera segreta di Girolamo Riario, ove si decise il piano d'azione della congiura antimedicea. Il G., secondo F. Guicciardini (Storie fiorentine, IV), avrebbe dovuto condurre le sue truppe alle porte di Firenze, tenendole a disposizione dell'arcivescovo di Pisa Francesco Salviati e di Francesco de' Pazzi, notizia confermata anche da P. Parenti (p. 14): "ordinorono che di verso Imola, terra del conte Girolamo, e di verso Città di Kastello, terra del Papa, messer Lorenzo da Castello scendessi con gente d'arme e fanti, e acostansinsi a Firenze per meglo chondurre quanto era in disegno".
La congiura (26 apr. 1478), che costò la vita a Giuliano de' Medici, tuttavia fallì e la violenta reazione dei Fiorentini, che massacrarono gran parte dei cospiratori, rese impossibile il progettato attacco militare. Il G. dovette quindi ritirarsi.
Il 29 apr. 1478 la Signoria scriveva al capitano e al podestà di Arezzo di fortificare i passi per impedire al G. il ritorno a Città di Castello. La Cronaca castellana (p. 123) narra che "tornossi indietro con fatiga di scampare" e che le sue forze consistevano di "2000 fanti a piedi e alcuni cavalli". Il 30 aprile Filippo Sacramoro, oratore ducale a Firenze, informando i duchi della situazione, scrisse che il G. si era mosso verso il Chianti, visto che i passi dell'Appennino erano presidiati. Racconta il Poliziano, nel suo Coniurationis commentarium, che Bernardo Bandini dei Baroncelli, uno degli assassini di Giuliano de' Medici, in fuga da Firenze, incontrò il G. e, accolto fra le sue truppe, riparò a Siena. Contro il Bandini e il G. fu pronunciata una sentenza di morte in contumacia.
Un aspetto sinora inedito della impresa del G. ci viene rivelato da una interessantissima lettera dell'8 maggio 1478 (conservata nell'Archivio di Stato di Milano), che Federico da Montefeltro indirizzò a Cicco Simonetta. Usando una prosa piena di sottintesi e implicite minacce, il duca di Urbino non nega di essere stato al corrente della trama contro i Medici, ma dichiara di aver dovuto tacere in quanto capitano generale del papa e del re di Napoli. I soldati inviati al G. sarebbero stati destinati però a controllare la situazione a Città di Castello, non a intervenire a Firenze.
Questa excusatio non petita rivela comunque l'indiretta partecipazione militare di Federico alla congiura; una questione scottante, se il 13 maggio un dispaccio cancelleresco da Urbino a Milano insisteva nel diniego e prendeva a testimoni alcuni mercanti umbri che si sarebbero trovati a Firenze durante i disordini. A ogni modo, lo scandalo risultò nella immediata sospensione della condotta del Montefeltro, che si stava ancora discutendo a Firenze e Milano.
Alla fine di maggio 1478 il G. fu mandato da Sisto IV a Napoli per sondare le intenzioni del re in vista di una guerra contro Firenze. Al ritorno da questa missione il papa emanò la scomunica contro Lorenzo de' Medici e la Signoria fiorentina.
Il 12 giugno il G. arrivò a Perugia, dove arruolò 500 fanti per conto del papa e si mostrò in piazza accompagnato da alcuni influenti cittadini e dal vicelegato, ma, visto che Perugia era alleata di Firenze, egli non fu più ammesso in città. In seguito si recò a Urbino, come ambasciatore del papa, per condurre Federico da Montefeltro agli stipendi della S. Sede e del re di Napoli per la guerra contro Firenze.
La cosiddetta guerra dei Pazzi scoppiò nell'estate 1478, spossando le risorse economiche degli alleati fiorentini e milanesi, dato che i Veneziani contribuirono con il minimo sforzo militare a cui la lega li obbligava. Il desiderio di pace fu ostacolato dall'intransigenza di Sisto IV, istigato dal re di Napoli.
Il 5 marzo 1479 anche il G. ricevette una condotta per sette anni dal papa e da Ferdinando di Napoli. Era appena rientrato da una ennesima missione a Napoli, portando con sé il privilegio d'un contado calabrese per Girolamo Riario e soprattutto la lista delle esose condizioni di pace. L'astuto temporeggiamento nel concistoro portò a una nuova campagna estiva, che esaurì le ultime resistenze della lega. Dopo il settembre 1479, con il rientro di Ludovico Sforza e Roberto Sanseverino a Milano e la cattura di Cicco Simonetta, Lorenzo si trovò a mal partito e decise di recarsi personalmente a trattare la pace con il re.
Il G. incontrò il Magnifico il 13 genn. 1480, a Napoli, e il 28 febbraio a Gaeta, cercando di convincerlo a tornare dal re per concludere la pace; nel trattato di pace del 13 marzo, appare come "Magnificus et Clarissimus miles et utriusque iuris doctor […] orator, procurator et mandatarius Sue Beatitudinis". Tra le varie concessioni dei Fiorentini, vi fu anche la revoca della condanna del G. per aver partecipato alla congiura dei Pazzi. Sisto IV lo premiò per i suoi servizi concedendogli il 26 febbr. 1480 il castello di Giove presso Amelia insieme con le pertinenze dell'Ospedale romano di S. Spirito in Sassia.
Il G. mantenne il suo ruolo di messaggero privilegiato nel centro Italia. Il 12 ott. 1481, in visita presso il Montefeltro, il G. avvertiva i Senesi che Nicola Orsini, irritato per la nomina del signore di Pesaro a capitano generale dei Fiorentini, si sarebbe a sua volta "racconcio co' Fiorentini". La presenza del G. a Urbino era dovuta alla rottura fra Riario e Federico, che secondo il G. era da ricercarsi nel fatto che il conte si era offeso per il ruolo svolto dal duca nel persuadere Costanzo Sforza ad accettare la condotta congiunta con Firenze e Milano.
Il 15 luglio 1481 Riario era entrato ufficialmente a Forlì con la moglie Caterina Sforza, alimentando la diffidenza di Galeotto Manfredi, signore di Faenza. Il 1° dicembre il G. giunse a Napoli, inviato da Riario con una missione segreta. Lorenzo de' Medici suggeriva all'oratore fiorentino Pier Filippo Pandolfini che la missione riguardasse l'acquisizione di Faenza da parte di Riario in cambio di 50.000 ducati e dei suoi possedimenti nel Regno di Napoli, e consigliava di dare al G. "qualche speranza generalissima". Il 20 dicembre Pandolfini sosteneva che il G. sarebbe stato menato per il naso, come tutti quelli che cercavano favori presso la corte napoletana, e che si sarebbe limitato a una richiesta di denaro. Il G. infatti era ripartito il 18 dicembre con 2500 ducati in contanti e con altri 2500 su un ordine di pagamento diretto al banco Spannocchi di Roma. Secondo Lorenzo erano soldi gettati al vento, vista la natura del conte Girolamo.
Le ambiziose mire di Riario cominciavano tuttavia a essere contrastate da varie parti, e di conseguenza il prestigio del G. ne risentì. Nel marzo 1482, recatosi a Siena per chiedere una condotta per Giovanni Della Rovere come capitano generale dei Senesi, il G. incontrò riluttanza e risposte evasive. Il 5 aprile si dichiarava insoddisfatto dell'esito del negoziato. L'oratore mantovano a Urbino riferiva il 23 apr. 1482 che Riario, cercando di rovinare Federico da Montefeltro, aveva mandato il G. dal re per farlo rimanere senza condotta, ma Ferdinando aveva invece ricondotto il duca. Federico propose allora agli altri signori dell'Italia centrale di ridimensionare le "sfrenate voglie" del conte attaccando Imola. Lo scoppio della guerra di Ferrara in maggio ridisegnò gli equilibri di potere in Italia. In giugno i Fiorentini, guidati da Costanzo Sforza, conquistarono Città di Castello riportando in auge Niccolò Vitelli.
Dopo la morte di Federico comandante della Lega, il 10 sett. 1482, iniziarono nuove trattative diplomatiche. Il G. arrivò a Napoli il 30 ottobre, proveniente dal campo di Riario in Romagna. Le sue proposte di pace comprendevano l'adesione del papa alla Lega, in cambio di una onorevole condotta per il conte e, fra le altre richieste, la restituzione di Città di Castello "ad pristinum statum", cioè l'espulsione di Vitelli. Riario avrebbe garantito la sua fedeltà mandando i propri figli in ostaggio presso il re. In novembre giunse notizia che Vitelli stava smantellando le rocche pontificie, su consiglio dei Fiorentini. Il 7 dicembre il papa cedette sulle questioni di Città di Castello, accettando la sottomissione formale di Vitelli alla Chiesa.
Il G. ripartì verso Firenze alla fine di gennaio 1483, e il 6 e 7 febbraio discusse segretamente con Lorenzo. Raggiunta la Dieta di Cremona il 25 febbraio, il G. intervenne sul nodo ancora irrisolto di Città di Castello, proponendo che Firenze, la quale aveva già acconsentito ad abbandonare Vitelli al suo destino, si impegnasse se necessario a scacciarlo con la forza. Lorenzo accettò una dichiarazione che fu letta dal duca di Calabria, ma che in un secondo momento risultò alterata, probabilmente su richiesta del G., in modo che il breve papale sulle terre occupate non sarebbe stato consegnato finché la cittadina umbra non fosse ritornata nelle mani del pontefice.
Il 5 aprile Riario rinunciò a Faenza, informato dal G. che nella Dieta si era deciso di rinnovare la condotta del Manfredi. Il 21 aprile l'ambasciatore fiorentino Pandolfini si recò da Riario, trovandolo in compagnia del G., e gli lesse una lettera di Lorenzo, alla quale il conte reagì sospettosamente. A fine aprile, divenne chiaro che Vitelli non era intenzionato a rispettare l'ultimatum della Dieta su Città di Castello, e l'esercito papale cominciò a radunarsi in Umbria. Il 27 luglio il G. passò da Perugia con alcuni soldati al suo comando, diretto verso Todi. Il 9 settembre, le truppe del G. e di Amodeo furono aggredite da quelle dei figli di Vitelli e disperse.
Il 29 ottobre Lorenzo inviava a Niccolò Michelozzi copia delle "doglienze" del G., convinto che Firenze continuasse a prestare segretamente aiuti a Vitelli. Per placare l'ira del papa, Lorenzo in novembre fece inviare 100 uomini d'arme. Il G. continuò a dirigere le operazioni dell'assedio a Città di Castello. Camillo Vitelli fu fatto prigioniero dal G. il 26 genn. 1484 presso Celalba, ma grazie alla pressione militare del padre riuscì a fuggire la notte del 27 febbraio.
Il 23 apr. 1484, Bernardino Della Valle, nobile romano di famiglia avversa a Girolamo Riario, scriveva da Roma all'oratore fiorentino Francesco Gaddi, che aveva conosciuto il G. a Napoli: "Qui non c'è altro de novo se no che se dice esser accordato la cità de Castello, et si aspecta lo maestro delli acti, quello che è sopre lo archivo, quel tale gran missere che è sopre li annali delle cose de Italia, misser Lorenzo da Castello" (in Nuovi documenti). Il tono sarcastico rivela l'avversione che si nutriva per l'ambizioso Giustini.
Il 3 maggio la pace fu conclusa e i figli di Vitelli furono obbligati a militare per la Chiesa. Sisto IV morì il 12 ag. 1484, subito dopo la firma del trattato di Bagnolo. Senza il favore del papa, il G. riuscì solo fino al settembre 1485 a tenere lontano da Città di Castello Niccolò Vitelli, che vi morì il 6 genn. 1486.
Il G. non gli sopravvisse di molto. Fu assassinato a Roma il 13 nov. 1487 per mano di Paolo Vitelli, figlio di Niccolò, presso Prima Porta.
L'avventurosa carriera del G. è esemplare nel contesto della politica quattrocentesca italiana, ove l'incerto equilibrio fra le maggiori potenze era turbato dalla mancanza di egemonia signorile nei piccoli centri, che catalizzavano le più dissimulate e violente pulsioni di conquista. L'esperienza diplomatica e militare del G. - dottore non legittimamente addottorato in giurisprudenza e cavaliere senza titolo nobiliare - rappresenta emblematicamente la crisi istituzionale e giuridica del periodo, che raggiunse uno dei suoi momenti più cruciali nella congiura dei Pazzi. L'impiego del G. per tutto il pontificato di Sisto IV in funzioni diverse (diplomatiche, amministrative, giurisdizionali, militari) offre un caratteristico esempio delle vie oblique con le quali il papa cercava di esercitare un controllo diretto nello Stato della Chiesa, al di là delle giurisdizioni e delle autonomie locali ordinarie: in altri termini, il G. rivestì una vera e propria funzione commissariale, là dove la competizione faziosa locale era assunta come occasione per l'affermarsi del diretto dominio della Chiesa.
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