Longevità
Il termine longevità definisce la capacità fisiologica di un organismo appartenente a una certa specie di sopravvivere per un determinato periodo di tempo, oltre il limite medio. Per quanto riguarda in particolare l'uomo, l'interazione di fattori genetici, ambientali e comportamentali, porta a una diversa sopravvivenza degli individui, alcuni dei quali superano i 100 anni. Proprio per questa influenza di fattori multipli nella determinazione della durata della vita umana, è necessario affrontare il problema in maniera globale, dal punto di vista biologico, genetico, comportamentale e ambientale. Aspetti biomedici e demografici I. L'invecchiamento biologico Prima di parlare di longevità è necessario definire il fenomeno dell'invecchiamento dal punto di vista biologico. Come proposto recentemente, l'invecchiamento potrebbe essere definito nel modo seguente: "una serie di disordini dell'omeostasi da ricondursi essenzialmente a deficit di caoticità, ossia alla perdita della complessità di specifici sistemi" (Omeostasi, complessità e caos 1995, p. 76). L'invecchiamento è un fenomeno continuo che inizia quando un organismo, raggiunta la maturità, va incontro a un progressivo deterioramento delle proprie capacità; è inoltre un fenomeno complesso, durante il quale diversi tessuti e organi dello stesso individuo subiscono modificazioni a ritmi e intensità variabili. Le difficoltà di generalizzare la definizione di invecchiamento sono legate a due motivi: 1) la mancanza di biomarcatori, ossia di parametri biologici che siano universalmente e indipendentemente associati all'età; 2) l'eterogeneità, ossia il diverso tipo d'invecchiamento cui vanno incontro individui di una stessa specie. Infatti, se è noto che l'invecchiamento si associa a un'aumentata vulnerabilità nei confronti di patologie acute e croniche diverse, è altrettanto evidente che una buona percentuale di anziani non presenta tali patologie, ma solo alcune variazioni fisiologiche legate all'avanzare dell'età. Si parla, dunque, di invecchiamento patologico e normale. Esiste anche, in una ristretta minoranza di soggetti che mantengono inalterate le caratteristiche fisiche e mentali dell'adulto giovane, il cosiddetto invecchiamento 'di successo'. Sappiamo, quindi, che l'età anagrafica e l'età fisiologica (intesa come capacità funzionale) non sempre coincidono. L'eterogeneità del fenomeno è, probabilmente, dovuta in parte a diversità genetiche dei singoli individui e in parte a variazioni nello stile di vita e nell'esposizione a fattori di rischio nel corso della vita. Da qui il concetto di 'modulabilità' dell'invecchiamento, con la possibilità d'intervenire per rallentarlo e per evitare al contempo l'insorgenza delle più gravi patologie associate all'età. In sostanza, si possono aggiungere anni di vita in buono stato con interventi di promozione della salute e di prevenzione delle malattie, come quelli contro i maggiori fattori di rischio cardiovascolare (per es., fumo di sigarette, ipercolesterolemia, ipertensione), che indubbiamente hanno avuto un'influenza determinante sulla diminuzione dei tassi di mortalità e morbosità negli ultimi trent'anni del 20° secolo. Uno degli aspetti più interessanti nell'ambito degli studi sulla longevità è la differenza nella sopravvivenza tra i due sessi. Sebbene nascano più maschi che femmine, il rapporto uomini-donne diminuisce durante tutto l'arco della vita e negli ultracentenari diventa addirittura di 1:4. In merito, sono state avanzate diverse possibili spiegazioni di ordine genetico, ormonale e comportamentale. L'ipotesi genetica sostiene che le donne vivono più a lungo in quanto hanno due set di geni dei cromosomi X e le cellule possono operare secondo istruzioni ricevute da uno qualunque dei due cromosomi; di contro, se un maschio ha una malattia recessiva legata al cromosoma X, come per es. la distrofia muscolare, la svilupperà sicuramente perché il gene è nell'unico cromosoma disponibile. Alcuni ricercatori hanno però sottolineato che nella maggior parte delle donne uno dei due cromosomi X è inattivo, quindi la loro situazione è simile a quella degli uomini. Un'altra ipotesi sostiene che la longevità è influenzata da differenze nel cromosoma maschile Y ed è stato dimostrato che maschi con specifiche caratteristiche di questo cromosoma (la mancanza di un braccio della Y) vivono più a lungo delle donne appartenenti alla stessa comunità. Quindi, nonostante ci siano altri fattori concorrenti, esiste certamente un contributo genetico alla differenza nella sopravvivenza tra i sessi. Un'altra spiegazione è che le donne siano protette dalle malattie cardiovascolari, prima causa di morte in età adulta, grazie agli estrogeni, ossia gli ormoni femminili che abbassano il livello di colesterolo-LDL, fattore di rischio aterosclerotico, e aumentano quello del colesterolo-HDL, ad azione protettiva (v. colesterolo). Invece gli androgeni, ossia gli ormoni maschili, hanno un effetto opposto e ciò potrebbe spiegare l'elevata mortalità maschile, soprattutto in età giovane-adulta. Dopo la menopausa, quando i livelli di estrogeni diminuiscono, le donne perdono il loro vantaggio sugli uomini. Le differenze ormonali influenzano anche la risposta immunologica e le donne hanno una risposta superiore e più veloce contro gli antigeni. I risultati di ricerche di laboratorio suggeriscono che questo potrebbe portare a una maggior resistenza allo sviluppo di tumori, che di fatto colpiscono in misura più rilevante gli uomini. Le donne comunque hanno di solito un numero superiore di malattie rispetto agli uomini della stessa età; si tratta però di patologie croniche, non fatali. Sempre nel tentativo di spiegare le differenze di longevità tra i due sessi, vengono spesso considerate le diversità sociali e comportamentali, quali i rischi occupazionali, l'abitudine al fumo e all'alcol, che sono più frequenti tra i maschi. Addirittura, alcuni ricercatori sostengono che la differenza può essere interamente attribuita alla diversa abitudine al fumo e che "da quando le donne hanno cominciato a fumare come gli uomini hanno anche cominciato a morire come gli uomini" (Spirduso 1995, p. 16). 2. Teorie sulla longevità La ricerca sistematica sui fattori determinanti il processo dell'invecchiamento e la differente longevità degli individui appartenenti a una stessa specie si è sviluppata solamente nella seconda metà del 20° secolo, dando luogo a una serie di teorie sui possibili meccanismi che influenzano la durata della vita. La grande eterogeneità genetica che caratterizza molte specie, in particolare quella umana, e la complessità delle esposizioni ambientali creano variazioni qualitative e quantitative del fenotipo della senescenza. In assenza, finora, di una teoria unitaria in grado di spiegare il fenomeno della diversa longevità tra gli individui di una stessa specie, usualmente ci si riferisce a diverse teorie suddivise in tre gruppi principali (Franceschi 1993): teorie del danno primario, teorie evolutive, teorie genetiche. a) Teorie del danno primario. Si basano sull'assunto che l'invecchiamento sia dovuto in gran parte all'azione lesiva di agenti tossici endogeni ed esogeni. La somma di vari insulti fisici, chimici, infettivi e meccanici causa un danno che può essere riparato o che, diversamente, porta alla perdita di una funzione. Con l'avanzare dell'età, la capacità di recupero del corpo diminuisce e può portare allo scompenso di un intero sistema dell'organismo, imputabile alla perdita di determinate funzioni succedutesi durante l'intero arco della vita. Tra le principali, ricordiamo la teoria dei radicali liberi: questi prodotti del metabolismo dell'ossigeno ossidano e attaccano i componenti cellulari, causando alterazioni e malfunzioni che si accumulano nel corso della vita; con l'avanzare dell'età, il numero di danni aumenta progressivamente fino a causare la morte della cellula. Una strategia per ridurre i radicali liberi e, quindi, favorire la longevità, è stata identificata nel consumo di dosi supplementari di vitamine C ed E e di beta-carotene, ad azione antiossidante. Un'altra teoria accreditata è quella della glicazione. Tale teoria è basata sul fatto che reazioni non enzimatiche possono avvenire tra zuccheri e macromolecole, quali proteine e DNA; il glucosio circolante si attacca a proteine e ad acidi nucleici e dà inizio a una serie di reazioni chimiche che terminano con la formazione degli AGE (acidi grassi esterificati), prodotti finali della glicazione. Questi portano a diverse forme di cattivo funzionamento molecolare e cellulare associate all'invecchiamento quali, per es., la perdita di elasticità dei tessuti, la rigidità muscolare, l'aterosclerosi ecc. b) Teorie evolutive. Interpretano l'invecchiamento e la longevità nel contesto dell'intero arco della vita umana, ossia trovano un nesso tra invecchiamento da una parte e sviluppo e riproduzione dall'altra. Il principio basilare di una di queste teorie, definita 'pleiotropia antagonistica', è che alcuni geni, i quali in età giovanile conferiscono un vantaggio riproduttivo, indurrebbero effetti negativi in età postriproduttiva, causando il progressivo invecchiamento e un'aumentata probabilità di morte. Tale teoria è apparentemente suffragata dalla transizione epidemiologica del 20° secolo, che riconosce come maggiori cause di morte le patologie croniche e degenerative, le quali colpiscono per lo più, appunto, la popolazione in età postriproduttiva. c) Teorie genetiche. Si basano sull'assunto che esista un controllo genetico del fenomeno dell'invecchiamento, dimostrato chiaramente dal fatto che ogni specie ha una lunghezza massima di vita, simile per gli individui appartenenti a essa e differente da specie a specie. Per es., il ratto vive in media 3 anni, il cane 12, il cavallo 25, e gli esseri umani 80 anni. A supporto della determinazione genetica della longevità, inoltre, c'è il fatto che i figli di persone longeve vivono usualmente più a lungo di altri con genitori meno longevi. La possibilità di identificare i geni responsabili sia dell'invecchiamento sia della longevità potrebbe avere conseguenze molto importanti per la specie umana, in quanto permetterebbe manipolazioni genetiche capaci di portare all'allungamento della vita, evitando così i fenomeni di declino fisiologico a esso associati. 3. Dalla sopravvivenza alla longevità Le attuali conoscenze epidemiologiche e demografiche fanno pensare che ancora oggi esistano possibilità per aumentare l'aspettativa di vita della popolazione umana. Stime ricavate dalle analisi di reperti scheletrici dell'uomo di Neanderthal, del Paleolitico e del Mesolitico, dimostrano che la stragrande maggioranza della popolazione moriva in età giovane, ma che già allora un 2-3% raggiungeva i 50 anni. Le cause di morte erano per lo più violente, sicuramente con forme di cannibalismo molto diffuse. Anticamente, in Egitto, in Grecia e a Roma, la vita media era intorno ai 25 anni, benché gli egiziani già descrivessero la durata massima della vita intorno ai 110 anni. Alcune iscrizioni funerarie romane attestano di individui vissuti oltre i 100 anni. La vita media raggiunse i 35 anni nel Cinquecento e i 45 anni nel Seicento, con gli ultimi 5 anni di vita considerati come il periodo della vecchiaia. Tuttavia, coloro che raggiungevano i 30-40 anni, avevano un'aspettativa di vita di altri 30 anni in media, essendo sopravvissuti alle maggiori cause di mortalità infantile e giovanile. P. Laslett (A fresh map of life 1989) riporta che, nel 17° secolo, circa il 5-10% della popolazione inglese era ultrasessantenne e che, quando una donna raggiungeva i 60 anni, aveva in media un'aspettativa di vita di altri 12 anni. Nel Settecento, l'ingente crescita demografica venne accompagnata da un ulteriore aumento della vita media e da una posticipazione dell'insorgenza dei segni della vecchiaia: un fenomeno, questo, dovuto, più che al progresso della medicina, al miglioramento delle condizioni sociali e igieniche generali. Nei due secoli successivi la vita media aumentò di oltre 30 anni, ma la grande svolta dell'invecchiamento si è avuta nella seconda metà del 20° secolo: negli ultimi vent'anni (Ottanta e Novanta) la percentuale degli anziani ultrasessantacinquenni è passata dall'11% a oltre il 15% della popolazione totale. Un'inversione demografica rivoluzionaria è avvenuta in Italia nel 1995, quando, per la prima volta nella storia dell'umanità, la percentuale dei 'vecchi' di età superiore ai 60 anni (21,8%) ha superato quella dei 'giovani' di età inferiore ai 20 anni (21,5%). Attualmente, in Italia, la speranza di vita alla nascita è di 73,6 anni per i maschi e di 80,2 anni per le donne e molti individui superano ampiamente questi limiti. Alla fine del 20° secolo, ci sono più di 8.600.000 individui di 65 anni e oltre, di cui circa 2 milioni ultraottantenni. Dall'inizio del Novecento, il numero medio di anni che una donna sessantenne può sperare di vivere ulteriormente è aumentato da 13,6 a 23, mentre per gli uomini l'incremento è stato più ridotto, da 13,5 a 18,4, a causa della 'supermortalità maschile' in ogni età della vita (Atlante dell'invecchiamento… 1995). Gran parte dell'aumento dell'aspettativa di vita nella prima metà del 20° secolo è da imputare alla diminuzione della mortalità perinatale e per malattie infettive, dovuta principalmente al miglioramento dell'igiene e dello stato di nutrizione della popolazione, ai programmi di vaccinazione e all'introduzione della terapia antibiotica. Nella seconda metà del secolo, invece, il maggior guadagno nell'aspettativa di vita è da imputare alla diminuzione della mortalità cardiovascolare, dipendente per lo più dall'introduzione di nuove terapie mediche e chirurgiche e all'implementazione di programmi di educazione sanitaria, promozione della salute e prevenzione delle malattie. Si stima che l'aspettativa di vita di un uomo di 30 anni potrebbe essere aumentata di 15 anni, qualora si potessero eliminare i maggiori fattori di rischio cardiovascolari, quali fumo, ipercolesterolemia, ipertensione e obesità. Per quanto riguarda l'anziano, l'attenzione è rivolta all'eliminazione delle neoplasie e della malattia cardiovascolare, le due cause di morte responsabili di 3 decessi su 4 nella popolazione ultrasessantacinquenne. Alcuni ricercatori, tuttavia, basandosi su stime di demografia sanitaria, sostengono che l'aspettativa di vita abbia ormai quasi raggiunto il massimo e che, pur eliminando tutte le forme tumorali, questa aumenterebbe di poco più di 3 anni, sia nei maschi sia nelle femmine. Se si riducesse a zero il rischio di decesso per una qualsiasi singola malattia, la popolazione semplicemente morirebbe per altre cause, e l'aumento netto della speranza di vita sarebbe in ogni caso irrilevante. Infatti, via via che i decessi si concentrano nelle età più avanzate, la competizione tra le diverse cause di morte si fa sempre maggiore e la probabilità di sopravvivenza resta immutata (Olshansky-Carnel-Cassel 1990). Per questa linea di pensiero, quindi, l'attenzione della ricerca geriatrica deve essere rivolta più che all'allungamento della vita in generale, al miglioramento della sua qualità e ai modi per aumentare la vita attiva, priva di malattie degenerative e di disabilità. La cosiddetta compressione della morbilità, ossia la riduzione del periodo che un individuo trascorre in uno stato di malattia e disabilità prima della morte, è quindi l'obiettivo della geriatria moderna (Fries 1980). Dato che le malattie croniche insorgono nell'età adulta e portano gradualmente a livelli di disabilità sempre maggiori, uno stile di vita più sano può prevenire o ritardare l'esordio di gran parte delle patologie croniche disabilitanti. J.F. Fries ha riportato i risultati di diversi studi, nei quali si dimostra l'efficacia di programmi di promozione della salute e di prevenzione della malattia nella popolazione anziana. Per es., si evidenzia che un regolare programma di esercizio fisico settimanale comporta un miglioramento significativo della sensazione di benessere e che a programmi di promozione della salute consegue una riduzione del numero di visite mediche e di ospedalizzazioni. Tali programmi hanno migliorato sensibilmente la qualità della vita, pur senza aumentarne la durata complessiva. Il raggiungimento e il superamento dei 100 anni di età è, tuttavia, meno raro di quanto si pensi. Ormai, in Italia, si contano circa 6000 ultracentenari, di cui un vasto campione viene studiato per la valutazione delle caratteristiche fisiche, psicologiche e bioumorali che li caratterizzano. Questo progetto, condotto da vari ricercatori sul territorio nazionale, ha la potenzialità di rispondere esaurientemente alle domande sui meccanismi determinanti la longevità che, pur tra i notevoli progressi compiuti negli ultimi anni, non hanno ancora trovato risposta. Sarà solo attraverso gli sforzi congiunti di biologi, medici ed epidemiologi che nel prossimo futuro potremo probabilmente capire se, come e quanto si potrà estendere ulteriormente la durata della vita umana. L'ambiente di vita La fase in cui inizia la longevità si è venuta posticipando negli ultimi cinquant'anni del 20° secolo, in relazione al progressivo aumento dell'età media e all'incremento assoluto, e in percentuale, di individui che raggiungono limiti cronologici sempre più elevati, sicché gli ultrasessantenni, come è stato detto sopra, rappresentano non più un'eccezione, ma una realtà significativa (Oliverio 1977). Secondo le previsioni statistiche, prima della metà del 21° secolo l'incidenza degli ultrasessantacinquenni rispetto alla popolazione dai 24 ai 64 anni raggiungerà il 65%. L'allungamento della vita media pone, dunque, il problema di rendere questo periodo della vita qualitativamente valido dal punto di vista del benessere fisico e psicologico (Laicardi-Piperno 1980). Accanto a una predisposizione genetica, alla base della longevità (v. sopra) intervengono anche fattori connessi a un'influenza ambientale - in senso sia fisico sia umano ‒, positivi o negativi, e fattori connessi alla storia individuale, familiare, sociale di ciascuno. Tra i fattori negativi imputabili a situazioni ambientali che incidono sull'equilibrio psicofisico delle persone, impedendo il raggiungimento della longevità, vi sono per es.: insufficienza alimentare, necessità di sforzi eccessivi, condizioni di sopraffazione e mancanza di libertà, costrizione, isolamento coatto ecc. È stato invece impossibile individuare, se non astrattamente, l'ambiente più adatto per raggiungere la longevità. Risulta, infatti, che per ogni individuo o gruppi di individui esistono ambienti più o meno favorevoli e che per ciascuno di essi esiste l'ambiente migliore o quello a lui più congeniale che gli permette, anche invecchiando, di esprimere le proprie potenzialità e di soddisfare le proprie tendenze. Anche il vissuto esistenziale svolge una funzione determinante nel facilitare o nell'ostacolare il prolungamento degli anni di vita (Cesa-Bianchi 1989). Tuttavia anche per esso vale l'asserzione che, su individui diversi, esperienze simili possono avere effetti differenti, e, viceversa, esperienze differenti possono avere conseguenze simili. Se è difficile generalizzare quali fattori possano sostenere la longevità di una persona, soprattutto in una logica che non si limiti a favorire la sopravvivenza biologica di un individuo, ma piuttosto sia volta alla ricerca di una qualità della vita elevata e soddisfacente, numerose ricerche hanno dimostrato che le modalità con le quali l'individuo supera la crisi psicologica provocata dal pensionamento e dal cambiamento della sua condizione esistenziale è determinante per il modo in cui egli affronterà il resto della vita (Cesa-Bianchi 1978). L'individuo in età di pensionamento si sente, spesso per la prima volta, vecchio, etichettato come tale dall'espulsione dal mondo lavorativo e sociale. La sua reazione può determinare un disimpegno progressivo da ogni forma di attività, giungendo sino a un grave disadattamento che, di frequente, conduce all'istituzionalizzazione. È possibile reagire al pensionamento in maniera positiva, utilizzando il maggior tempo libero a disposizione per svolgere le funzioni da tempo esercitate o altre che si sono sostituite a esse. A convalida di ciò, è sufficiente osservare, nella vita pubblica, il numero sempre crescente di persone che hanno saputo invecchiare con successo, creando le premesse per mantenere anche in età avanzata un sentimento di autostima e serenità (Havighurst 1960). Se finora la ricerca genetica non ha permesso di individuare il gene della longevità e quella epidemiologica non è ancora stata in grado di precisare le caratteristiche dell'ambiente che consentono di vivere più a lungo, la ricerca psicologica, pur non riuscendo a descrivere la tipologia dei longevi, ha portato a rilevare che fra di essi si trovano persone con caratteristiche molto differenti e con diverse esperienze vissute in ambienti molto vari. Si tratta di individui, in prevalenza di sesso femminile, dalla cui storia si evince la capacità di assorbire senza gravi contraccolpi i traumi personali o familiari che la vita ha loro riservato, o la possibilità di superare la crisi di disadattamento all'età senile e di creare un nuovo equilibrio con la propria condizione esistenziale. Le esigenze avvertite nelle età precedenti, e sempre meno soddisfatte con il passare degli anni - e come tali alla base di situazioni frustranti - lasciano il posto a motivazioni coerenti con le trasformazioni legate alla vecchiaia. L'elevata variabilità con cui gli anziani affrontano l'invecchiamento e, in particolare, gli studi comparativi tra soggetti che muoiono relativamente giovani e altri che raggiungono un'età avanzata hanno permesso di individuare alcuni correlati predittivi della longevità (Destrem 1971). Questi correlati consentono anzitutto di distinguere fattori reversibili e fattori permanenti. Fra i primi vengono posti, nelle società occidentali: l'abitare in un ambiente ecologicamente non degradato e comunque non caotico nella sua urbanizzazione; l'appartenere a un nucleo familiare stabile e unito, dove i lutti e le separazioni siano stati assorbiti e ben integrati; il rispettare le normali regole dell'educazione alla salute; il superare, sia fisiologicamente sia psicologicamente, malattie e stress organici. Tra i fattori permanenti vengono inclusi: la predisposizione genetica; l'appartenenza a un ceppo familiare dove la vita media è elevata; la presenza o assenza di gravi patologie. Altri fattori predittivi della longevità di una persona derivano dall'influenza delle variabili di natura psicosociale. All'interno di studi longitudinali si dimostra, infatti, che individui con basso status socioeconomico e con istruzione scolastica e livello professionale modesti hanno una probabilità di sopravvivenza minore rispetto a coetanei con una condizione sociale migliore. Vi sono poi ruoli sociali che appaiono funzionali alla longevità, tra cui quello del 'nonno' (Poderico 1990). Svolgendo questo ruolo l'anziano rappresenta per le generazioni più giovani una fonte di saggezza. Il rapporto nonna/o e nipote è, infatti, qualcosa di dinamico ed evolutivo, ove ciascuno dei due componenti della coppia realizza un investimento emotivo e affettivo. In questa relazione l'anziano mantiene viva la propria capacità creativa rapportandosi in modo spontaneo e interessato alle curiosità del bambino che cresce. Nella società postmoderna, egli assume una funzione centrale nella modalità di trasmissione della cultura divenendo, attraverso il linguaggio delle favole e dei racconti del passato, una vera alternativa al messaggio culturale omologante dei mass media. Essere nonni è un correlato predittivo di longevità poiché permette un rinnovamento biologico e la consapevolezza, a livello psicologico, della continuità della propria vita, ed è, quindi, fonte di un'intensa autorealizzazione emotiva. L'essere a contatto con i giovani implica la presenza di un altro importante correlato della longevità, il quale si riferisce allo svolgimento dell'attività fisica. Lo sport, non necessariamente agonistico, influisce in modo positivo sulla longevità di un individuo poiché garantisce una serie di vantaggi, sia fisiologici sia psicologici (Spirduso 1975). Rispetto ai vantaggi fisiologici, il mantenersi in esercizio fisico riduce la perdita di tono muscolare, consentendo la conservazione dell'elasticità delle articolazioni oltre a favorire il funzionamento corretto del sistema cardiovascolare e respiratorio. Sul piano psicologico, svolgere un'attività sportiva permette all'anziano di stabilire una maggior confidenza con i limiti e le possibilità del proprio corpo; gli offre inoltre elementi di soddisfazione e di autogratificazione. Un ultimo correlato della longevità, spesso trascurato dallo stereotipo culturale, è la possibilità che l'anziano possa vivere in modo soddisfacente e sereno la propria sessualità. L'attività sessuale può essere mantenuta da entrambi i sessi sino a tarda età e ciò contribuisce tanto al senso di autostima quanto a un migliore adattamento alla vita quotidiana (Comfort 1980). Senza tralasciare che la longevità rappresenta un fatto individuale e non generalizzabile, è possibile fornire alcuni suggerimenti per rendere più soddisfacente la qualità della vita nei longevi. In primo luogo, è necessario fornire all'anziano opportunità di socializzazione e di vita in comune, sia con i coetanei sia con le generazioni più giovani. L'essere insieme agli altri, l'appartenere a una rete sociale di supporto prevengono il senso di solitudine e la disperazione a esso conseguente (Aveni Casucci 1978). Ciò permette di evitare che l'anziano viva momenti di depressione e di angoscia esistenziale e gli offre occasioni di relazione che evidenziano gli aspetti piacevoli di questa fase del ciclo della vita. In secondo luogo, bisogna permettere all'anziano di continuare un'attività ricreativa o lavorativa che gli dia il senso di essere ancora responsabile del proprio sostentamento; anche la possibilità di continuare a gestire in modo autonomo la fonte del proprio reddito (per es. la pensione) consente all'anziano di essere protagonista attivo della propria vita. Un ultimo suggerimento riguarda il modo di affrontare con il longevo l'eventuale problema dell'istituzionalizzazione, a volte inevitabile. È bene che questo momento sia preparato e organizzato in collaborazione con l'anziano, evitando che questi viva l'ingresso in istituto come la soluzione estrema a un problema altrimenti irrisolvibile. È auspicabile che in collaborazione con lui venga scelto un istituto la cui cultura organizzativa e professionale prediliga, nel rapporto con i suoi ospiti, gli aspetti della partecipazione e dell'attività rispetto al mero assistenzialismo (Cesa-Bianchi-Pravettoni 1994). In conclusione, la longevità appare come il risultato dell'interazione tra diverse variabili presenti nella storia, nel vissuto e nell'ambiente di ogni individuo. Se i fattori inevitabili di decadimento non si verificano o sono vicariati dallo sviluppo di altre funzioni residue, uomini e donne potranno, sino a età sempre più avanzata, conservare una propria identità di persona con una soddisfacente qualità della vita.
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