Localizzazione e delocalizzazione
In senso letterale il termine localizzazione designa l'ubicazione di un'attività, di una impresa o di un bene in uno specifico luogo geografico. In senso figurato lo stesso termine connota invece il processo valutativo compiuto da un soggetto, in genere un imprenditore, per individuare il luogo idoneo all'impianto di una iniziativa o di una impresa, sulla base dei vantaggi e delle opportunità (soprattutto di natura economica) che tale luogo offre rispetto ad altri ritenuti comparabili.
Alla scelta del luogo di impianto di una impresa o di allestimento di una iniziativa si contrappone quella del loro trasferimento, denominata rilocalizzazione. Recentemente, però, l'accentuazione e la diversificazione geografica di questo fenomeno hanno costretto gli studiosi a doverne precisare il significato e a introdurre i termini di delocalizzazione e di centralizzazione. Il primo denomina il trasferimento di una impresa, oppure il decentramento di una sua parte, in ambiti sovranazionali che offrono considerevoli opportunità e vantaggi in ragione della grande disponibilità di risorse a buon mercato che offrono. Il secondo denomina invece il reimpianto totale o parziale delle iniziative imprenditoriali in Paesi e località caratterizzati da soglie di sviluppo più evolute rispetto a quelle del Paese o del luogo di origine, e nei quali l'iniziativa potrà avvalersi di vantaggi riconducibili non solamente all'immediato tornaconto economico, ma anche a prospettive di riposizionamento verso l'alto delle strategie aziendali. All'originario concetto di rilocalizzazione spetta pertanto ormai soltanto il compito di denominare gli spostamenti e i decentramenti aziendali nell'ambito del territorio nazionale.
Nel loro insieme i processi di localizzazione, rilocalizzazione, delocalizzazione e centralizzazione delineano la dinamica insediativa che si verifica negli apparati produttivi di un Paese e che le statistiche economiche riportano sotto forma di investimenti interni e investimenti diretti esteri in entrata e in uscita.
L'attenzione sempre crescente verso i processi di delocalizzazione è documentabile dai dati che segnalano la crescente propensione delle imprese verso l'impianto e l'acquisizione di unità produttive sia nei Paesi 'emergenti' del Sud-Est asiatico e dell'America Latina (in particolar modo in Cina, India, Filippine, Corea del Nord, Brasile), sia in quelli dell'Europa orientale, nei quali lo smantellamento dell'apparato produttivo del 'blocco sovietico' prospetta la possibilità di impiego di manodopera inoccupata e di riconversione di molti degli impianti dismessi.
Per i Paesi, come l'Italia, che appaiono connotati da una dinamica non particolarmente accentuata del progresso tecnico e tecnologico, non sono tuttavia da sottovalutare neanche i processi di centralizzazione o di spostamento delle imprese verso le zone del mondo più avanzate (USA, Canada, regioni metropolitane 'mondiali'), capaci di offrire ambienti e condizioni territoriali idonei allo sviluppo di innovazioni di prodotto, di processo e di legami con le filiere tecniche e scientifiche in grado di produrle (anche se ciò, come si è detto, implica l'impiego di grandi quantità di capitali e il ricorso a risorse umane altamente qualificate e costose). Nelle statistiche di questi Paesi il saldo negativo, in termini occupazionali e di investimenti, generato dalla preminenza dei processi congiunti di delocalizzazione e di centralizzazione rispetto a quelli di localizzazione interna, porta alla luce un vistoso ridi-mensionamento dell'apparato produttivo (la cosiddetta deindu-strializzazione), talora non compensato dalla parallela crescita del terziario e dei servizi.
Alla base delle scelte di localizzazione, delocalizzazione e centralizzazione deve collocarsi la valutazione dei costi delle componenti o dei fattori generativi della produzione. Partendo da questa base, l'economia e la geografia economica forniscono le informazioni necessarie per definire la scelta di un sito, per individuare le confi-gurazioni o gli assetti che possono assumere le imprese e per segnalare la varietà tipologica delle regioni industriali che le stesse imprese contribuiscono a formare.
Il primo esercizio trova i suoi riferimenti fondamentali nelle formule che definiscono il profitto generato dall'attività produttiva, il quale viene espresso come differenza tra il valore monetario della produzione e la remunerazione, al valore di mercato, dei materiali impiegati e dei servizi utilizzati, delle quote di ammortamento del patrimonio tecnico dell'impresa (fabbricati, impianti, macchinari, attrezzature ecc.), del lavoro indispensabile per compiere il processo produttivo (compreso quello dell'imprenditore), del capitale ricevuto in prestito (per es., dalle banche) e di quello investito dall'imprenditore (denominato capitale proprio o di rischio).
Qualora il valore monetario della produzione sia tale da assicurare un'adeguata remunerazione dei suddetti fattori, e al contempo di generare profitti capaci di assicurare una normale remunerazione del capitale di rischio, l'ubicazione dell'impresa potrà definirsi ottimale; se invece il valore monetario della produzione risulta inferiore a tale soglia, si apriranno almeno due possibilità: agire sul valore della produzione, ripartendo meglio i costi dei fattori produttivi, oppure variare la combinazione quantitativa di questi ultimi tenendo conto del loro prezzo e della loro ubicazione geografica. Poiché i costi dei fattori produttivi non sono uniformi nello spazio, e implicano altresì costi aggiuntivi di trasporto per il loro utilizzo, si comprende come nel secondo caso il tema della localizzazione, o della delocalizzazione, diventi cruciale.
Gli studi compiuti hanno dimostrato a questo proposito come nel tempo la localizzazione delle imprese sia variata considerevolmente, in ragione tanto dei costi generati dai suddetti fattori nell'ambito del processo produttivo, quanto delle innumerevoli innovazioni tecniche prodotte per facilitare e razionalizzare il loro impiego. Per es., è stato dimostrato come storicamente (inizio Ottocento) la localizzazione delle industrie siderurgiche sia avvenuta in prossimità delle miniere di carbone per ridurre i costi di trasporto derivanti dalle grandi quantità di questo minerale necessarie per produrre la ghisa. In periodi successivi (metà Ottocento) la riduzione delle esigenze energetiche ha orientato la localizzazione delle industrie siderurgiche verso i giacimenti ferrosi. Più di recente (inizio Novecento) la possibilità di sostituire il minerale ferroso con rottami di ferro ha liberato, ancora una volta, le suddette industrie dalle loro precedenti localizzazioni.
La stessa cosa può dirsi per le altre industrie a forte dipendenza energetica, la cui produzione, com'è noto, alle origini era localizzata lungo le aree pedemontane in corrispondenza dei fiumi, al fine di poterne sfruttare l'energia idrica. A partire dall'inizio del Novecento, l'avvenuta disponibilità di fonti di energia estremamente mobili (elettricità, gas, petrolio) ha annullato quasi del tutto la spinta localizzatrice verso tali fonti, a favore di quella generata dalle interdipendenze produttive che le imprese potevano sviluppare dalla loro concentrazione negli ambiti urbani.
Apparivano così determinanti le economie di localizzazione e di agglomerazione, costituite le prime dai benefici derivanti dalla cooperazione aziendale nei luoghi di concentrazione (frazionamento del processo produttivo, condivisione di spese e servizi, socializzazione di risultati tecnici ecc.) e le seconde dai benefici prodotti dalle urbanizzazioni realizzate e gestite a garanzia del buon funzionamento della concentrazione.
È per queste ragioni che anche l'originaria e semplificata teoria della localizzazione, imperniata quasi esclusivamente sull'analisi e sulla valutazione dei soli costi di trasporto, è stata sostituita da quella della polarizzazione, che pone invece alla base delle scelte localizzative gli effetti moltiplicativi derivanti dall'azione congiunta delle economie di scala interne (connesse con la grande dimensione dell'impresa) e di quelle esterne, generate dagli investimenti pubblici in opere di urbanizzazione e di cui l'impresa può avvalersi senza calcolarle come costi.
La prospettiva che le polarizzazioni urbano-industriali risultino i luoghi privilegiati della localizzazione delle attività produttive, ha tuttavia trovato un severo limite nella comparsa prepotente di di-seconomie da concentrazione, derivanti dall'aumento dei costi di produzione e di riproduzione della forza lavoro e del capitale nel corso degli anni Settanta del Novecento, allorquando, pur con massicci investimenti in opere pubbliche all'interno delle grandi agglomerazioni, non si è riusciti ad arrestare la congestione, l'inquinamento, l'aumento del costo della vita, la rivendicazione per consistenti aumenti salariali.
È in questo frangente che l'economia e la geografia, per definire lo spostamento nei territori esterni alle grandi aree metropolitane per quelle produzioni non più strettamente legate a queste ultime, hanno introdotto per la prima volta il concetto di rilocalizzazione.
Successivamente invece sono state le innovazioni tecniche e tecnologiche di natura informatica e teleinformatica a rappresentare il vettore operativo della localizzazione e soprattutto del suo opposto, la delocalizzazione. Lo scorporo di attività e funzioni dall'impresa madre che tali innovazioni consentono, unitamente alla garanzia di un collegamento in tempo reale con quest'ultima, costituisce infatti il supporto tecnico per il loro reimpianto nei luoghi in cui sono più marcati i vantaggi offerti dal basso costo dei fattori produttivi impiegati nel processo. Le imprese si configurano così come organismi multi-localizzati, multinazionalizzati e internazionalizzati; la loro localizzazione viene a misurasi con l'orizzonte teorico, progettuale e pratico sintetizzato sotto l'ormai noto termine globalizzazione.
Negli scenari dell'economia globalizzata sono generalmente solo le imprese nascenti oppure quelle di piccola dimensione a prospettare una localizzazione unitaria con tutte le funzioni aziendali ubicate 'sotto lo stesso tetto'. Il tema della localizzazione, quello della rilocalizzazione, delocalizzazione e centralizzazione si coniuga pertanto con i modelli o le forme di localizzazione 'flessibili' che adottano le imprese e in cui è generalmente sottesa la multilocalizzazione. Tali modelli possono essere compresi in sei tipologie principali.
Il decentramento o la centralizzazione di segmenti o parti di un'impresa. Questa strategia evolutiva rappresenta la più classica modalità di ricerca della flessibilità dei fattori produttivi (lavoro, differenziali salariali, acquisizioni tecniche, avanzamenti tecnologici ecc.). Essa prevede l'esistenza di un nucleo centrale che dirige e organizza la dinamica dei sottosistemi produttivi periferici attraverso modalità marcatamente gerarchiche, quali codici, regole e procedure, anche telematiche, tanto di avanguardia quanto poco formalizzate. Dal momento che si tratta di una razionalizzazione prevalentemente interna all'impresa, non costituisce la forma più significativa di riorganizzazione industriale; la sua rappresentazione richiama l'esistenza di un nucleo centrale e di un fascio di vettori radiali convergenti, alla cui estremità si collocano le unità operative.
La disintegrazione verticale delle imprese. È questa una modalità di riorganizzazione che prevede da una parte lo scorporo e dall'altra la tendenziale autonomizzazione dei nuclei tecnico-produttivi decentrati, che danno vita a imprese anche giuridicamente separate, ma comunque controllate dall'impresa madre, la quale si trasforma in capogruppo e in holding finanziaria di un intero gruppo o di un sistema industriale. L'impresa che si proietta verso forme di disintegrazione verticale può assumere svariate forme multipolari, di cui quella denominata 'impresa-rete' è la più nota: un vero e proprio solar system enterprise, in cui at-torno al centro sono posti i poli operativi costituiti da imprese oppure da funzioni che si specializzano e a cui è collegato l'universo della microimpresa distribuita sul territorio.
La divisione del lavoro tra le imprese. Con questo modello si descrivono e si rappresentano i rapporti collaborativi (definiti anche accordi di cooperazione, joint ventures, alleanze strategiche) di medio e lungo periodo tra gruppi di imprese autonome e geograficamente ridistribuite, che realizzano produzioni congiunte con specifiche procedure di concertazione. Quella che si stabilisce tra le unità è una fitta rete di relazioni di interdipendenza, che evoca l'immagine e il concetto di 'rete di impresa'.
La rilocalizzazione dell'intero complesso aziendale, dal centro alla periferia e viceversa. Il modello è semplice, e prevede il trasferimento delle funzioni produttive e tecnico-direzionali.
La centralizzazione o il decentramento 'implicito'. Si tratta di una forma di riorganizzazione che scaturisce dai cambiamenti che avvengono all'esterno dell'impresa per effetto della crescita oppure del declino del territorio nel quale essa è ubicata, e di cui la stessa può avvalersi nel momento in cui riconosce la natura positiva, oppure negativa, del cambiamento.
L'acquisizione di una impresa o di una unità produttiva già operante. Si tratta di una procedura che prevede l'acquisto di una unità che già produce beni a costi competitivi, la quale, pur mantenendo la propria autonomia rispetto all'impresa acquirente, consente a quest'ultima di raggiungere un maggior posizionamento sul mercato.
L'affermazione di questi modelli di riorganizzazione aziendale è a sua volta responsabile di peculiari forme di specializzazione funzionale e di solidarietà spaziale tra le unità produttive: essi sono pertanto alla base della formazione, a scala planetaria, di diverse regioni industriali, che a loro volta possono essere succintamente suddivise in sei categorie.
Aree industriali metropolitane
Sono caratterizzate da una struttura manifatturiera ampia e settorialmente diversificata, in ragione sia della ricentralizzazione operata da molte imprese provenienti dal contesto nazionale e internazionale, sia da robuste economie di urbanizzazione (comprendenti livelli educativi superiori e capacità di ricerca scientifica e tecnologica). In queste aree si osserva un'alta capacità di 'incubazione' di nuove imprese, unitamente alla rilocalizzazione di settori per lo più tradizionali. Per es., regioni industriali londinese e parigina, area metropolitana milanese, grandi agglomerazioni poste lungo il corso del Reno.
Distretti tecnologici
Allo stato attuale rappresentano la forma più evoluta di regione industriale. In essi si manifesta la maggiore con-centrazione di unità di ricerca e sviluppo e di quelle a più elevato contenuto tecnologico delle grandi imprese e delle aziende specializzate in servizi esterni. In queste regioni si vengono quindi a concentrare i più marcati processi di centralizzazione selettiva, sotto forma di parchi scientifici, di distretti industriali e di infrastrutture polarizzanti di tipo urbano-metropolitano. La solidarietà funzionale tra queste unità si palesa sul piano del sistema tecnico-scientifico, attraverso la costituzione di un reticolo o di una filiera relazionale decisamente interconnessa, a cui fanno da corredo un mercato del lavoro e una immagine territoriale decisamente evoluti. Gli effetti sinergici si manifestano pertanto non solo sul piano della concezione e della produzione delle innovazioni, ma anche su quello dell'incubazione e della rigenerazione continua delle stesse, con frequenti interscambi con altre regioni appartenenti alla stessa tipologia. Esempi significativi sono quelli della Silicon Valley in California, della Route 128 che cinge Boston, di Cambridge in Gran Bretagna e di Sophia Antipolis in Francia.
Regioni industriali consolidate
In esse la differenziazione del tessuto produttivo è più modesta, così come minori sono il turnover aziendale e il conseguente processo di localizzazione. Di regola si tratta di una tipologia prodotta dai dinamismi espansivi di un'azienda che nel corso della sua crescita è in grado di indurre la localizzazione di altre unità ausiliarie o concorrenti sul suo intorno territoriale, e dunque di dare avvio a una marcata specializzazione regionale dell'apparato produttivo. Soprattutto quando le imprese di servizio e di subfornitura acquisiscono adeguati livelli di specializzazione e di autonomia, l'insieme delle unità presenti nella regione diventa il nodo di scambio di una rete meno soggetta alle fluttuazioni locali e più aperta e interattiva con i sistemi esterni. Esempi tipici a questo riguardo sono Torino in Italia, Tolosa in Francia e Stoccarda in Germania.
Regioni periferiche in via di sviluppo
È questa una tipologia in cui gli elementi distintivi sono rappresentati sia da una spiccata presenza di piccole e medie imprese operanti nell'ambito di uno stesso settore, sia dall'impiego nei processi produttivi di risorse quasi esclusivamente locali (capacità imprenditoriali, lavoro, capitali e tecnologie). Nel loro insieme configurano un modello insediativo definito come 'distretto industriale'. In alcuni Paesi emergenti (Sud-Est asiatico, America Latina) le stesse aree sono anche destinatarie di delocalizzazioni di fasi specifiche del ciclo produttivo di grandi imprese industriali.
Regioni risultanti dalla deverticalizzazione congiunta di grandi imprese produttive in ambiti emergenti o sottosviluppati
La loro formazione deriva dalle strategie di deverticalizzazione delle grandi imprese. In alcuni casi, poco numerosi nei Paesi avanzati e più numerosi in quelli in via di sviluppo, le unità di diverse imprese che hanno attuato processi di deverticalizzazione possono indurre la formazione di sinergie locali capaci di generare uno sviluppo autopropulsivo e accentuare l'autonomia di queste unità dal complesso delle loro case madri. Si tratta di una forma originale di passaggio da strategie di 'impresa-rete' a forme di collaborazione tese alla formazione di 'reti di imprese'. Molti casi si rintracciano in prossimità degli scali marittimi, nei quali le infrastrutture portuali rappresentano il cemento dei rapporti interaziendali.
Aree di semplice decentramento industriale
Sono derivanti dalla delocalizzazione, o dal decentramento locale, di unità aziendali o di segmenti di impresa in aree connotate dalla presenza di vantaggi derivanti dal basso costo di alcuni fattori produttivi, e in cui non si attivano forme originali di collaborazione orizzontale tra le imprese. Sono queste le aree e le regioni industriali di nuova formazione che contribuiscono alla crescita numerica delle unità produttive regionali, le quali tuttavia restano fortemente dipendenti dalle unità madri collocate in altre regioni industriali. Esse dunque più che partecipare alla dinamica dello sviluppo locale sono responsabili dei processi evolutivi di quelle esterne.
Proprio quest'ultimo fenomeno è alla base delle iniziative intraprese da Stati e regioni istituzionali a favore del rafforzamento delle condizioni territoriali che contribuiscono ad assicurare il radicamento delle imprese e che sono costituite non solo dal rafforzamento dei telai infrastrutturali di base, ma altresì da veri e propri servizi territoriali espressi da attrezzature logistiche, per la ricerca e l'innovazione, per la formazione professionale e continua, dai servizi connessi con il credito d'impresa, da quelli che identificano le centralità urbane, l'efficienza amministrativa e la capacità istituzionale. Su questo fronte si gioca pertanto una sfida e una partita i cui risultati non sono ancora definitivi e certificati.