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La Liberia è l’unico paese dell’Africa occidentale a non essere stato colonizzato. Nel 1822, infatti, la società privata American Colonization Society (Acs) si impegnò a trasferire gli ex schiavi neri, affrancatisi negli Stati Uniti, in Africa, lungo le coste di quella terra che sarebbe diventata la Liberia. Essa venne dichiarata repubblica dai Libero-Americani nel 1847, anticipando di più di un secolo l’indipendenza dei vicini Costa d’Avorio, Guinea e Sierra Leone. I Libero-Americani, forte minoranza dell’allora neo-costituita Repubblica di Liberia, si imposero nello scenario politico interno contro il volere della popolazione locale, adottarono un sistema politico presidenziale e approvarono una costituzione modellata su quella statunitense.
Questa esperienza d’indipendenza non è, però, servita a rendere la Liberia un paese politicamente ed economicamente stabile. In particolare, a partire dalla fine degli anni Ottanta, dopo 133 anni di predominio politico del partito libero-americano True Whig e a seguito dell’aggravarsi della crisi economica, il paese è stato teatro di due sanguinose guerre civili, rispettivamente dal 1989 al 1996 e dal 1999 al 2003. Inoltre, la complessità dello scenario politico liberiano rispecchia l’instabilità dell’intera regione. La reciproca ingerenza che caratterizza le relazioni tra Sierra Leone, Guinea e Liberia ha infatti permesso ai vari gruppi ribelli di ottenere appoggi economici e militari dai regimi degli stati confinanti e ha favorito il mercato illegale dei diamanti, venduti in cambio di armi e di liquidità da impegnare nei conflitti interni.
Charles Taylor è stato l’indiscusso protagonista politico delle guerre civili della Liberia. Nel 1989 Taylor, a capo del National Patriotic Front of Liberia (Npfl), entrò dal confine della Costa d’Avorio nella contea liberiana di Nimba e rovesciò il regime di Samuel Doe, primo presidente di origine indigena del paese, giunto alla presidenza in seguito a un colpo di stato nel 1980. In poco tempo Taylor assunse il controllo di gran parte del paese, sino a ottenere, dopo sei anni di conflitti armati, il 75% delle preferenze alle elezioni presidenziali del 1997. Queste furono indette dopo un accordo di pace siglato tra le forze del paese, grazie all’intermediazione della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas), delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dell’Organizzazione dell’unità africana (oggi Unione Africana). L’instaurazione di un governo di coalizione, però, non servì a sanare la disastrosa situazione economica del paese, né quella politica. Taylor, infatti, anziché optare per un consolidamento democratico della società liberiana, approfittò del proprio potere per eliminare i maggiori esponenti delle formazioni politiche del governo, instaurare un regime de facto e perseguire una strategia di destabilizzazione regionale, che si è concretizzata soprattutto attraverso l’appoggio offerto ai ribelli del Revolutionary United Front (Ruf) della Sierra Leone. L’intento di Taylor è stato dapprima quello di condizionare la guerra civile in Sierra Leone, fatto che suscitò, nel corso del 2000, le accuse dei governi ghanese e nigeriano e il disappunto di Stati Uniti e Regno Unito, che minacciarono di sospendere gli aiuti economici al paese; in seguito, Taylor ha tentato di colpire il regime dittatoriale della Guinea, con la quale ci furono scontri a fuoco diretti lungo il confine.
Le tensioni interne in poco tempo si acuirono nuovamente e nel 1999 scoppiò la seconda guerra civile liberiana. Nel 2001 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite impose l’embargo sull’esportazioni di armi verso la Liberia per punire la condotta di Taylor, implicato nella faccenda dei cosiddetti ‘diamanti insanguinati’. Nel 2003, dopo un nuovo accordo di pace siglato ad Accra (Ghana) e mediato dalla comunità internazionale, Taylor fu indotto a rassegnare le dimissioni e a rifugiarsi in esilio in Nigeria, dove venne accusato di crimini di guerra e contro l’umanità. Nel 2006 l’ex presidente liberiano ha dovuto rispondere alle accuse davanti alla Corte speciale della Sierra Leone e nel 2007 è stato trasferito all’Aia, dove è tuttora in corso il processo alla Corte penale internazionale.
Al momento dell’esilio di Taylor in Liberia è stato istituito un governo di transizione guidato da Gyudeh Bryant. Contemporaneamente gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente nel paese per sostenere l’avvio di un reale processo democratico e per evitare lo scoppio di nuovi conflitti. Le truppe Usa sono rimaste in Liberia per due mesi, sino a quando le Nazioni Unite hanno approvato la missione di peacekeeping Unimil, con un contingente internazionale di 15.000 unità. Questa è una delle missioni di pace più grandi al mondo per numero di soldati impiegati (attualmente sono 8000) e per costi.
Le elezioni presidenziali del 2005 sono state vinte da Ellen Johnson-Sirleaf, leader dello Unity Party, che ha battuto al ballottaggio George Weah, ex giocatore di calcio, idolo di gran parte della popolazione liberiana e a capo del Congress for Democracy and Change. Johnson-Sirleaf è la prima donna a ricoprire la carica di presidente di una nazione africana. La sua azione di governo, che si concentra soprattutto verso la riduzione della povertà (nel 2007 circa il 95% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà), verso la lotta alla corruzione e la ricostruzione del tessuto civile e sociale del paese, è fortemente appoggiata dalle organizzazioni internazionali, in virtù anche dei legami che lo stesso presidente ha con le Nazioni Unite e la Banca mondiale, dove Johnson-Sirleaf ha lavorato per anni. In questo quadro si può leggere la cancellazione straordinaria del debito di 1,2 miliardi di dollari stabilita dal Club di Parigi nel settembre 2010 e l’aiuto sia degli Stati Uniti, che nel solo 2009 hanno fatto arrivare nel paese oltre 60 miliardi di dollari, sia di organizzazioni internazionali come l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), che ha da poco varato un piano per la raccolta di 11 miliardi di dollari da inviare in Liberia.
Il lento progresso del paese, tuttavia, sta minando la popolarità del presidente che nel novembre 2010, in vista delle elezioni dell’ottobre 2011, ha sfiduciato il proprio governo e effettuato un rimpasto. Per le prospettive di sviluppo della Liberia sono significativi tre recenti accordi che il governo ha siglato con importanti gruppi stranieri dei settori petrolifero e minerario: l’americana Chevron ha il permesso di esplorare i fondali marittimi liberiani per la ricerca di riserve petrolifere, il gruppo indonesiano Sinar Mas ha un piano di investimenti da un 1,6 miliardi di dollari nel settore dell’industria dell’olio di palma; infine, il colosso dell’acciaio ArcelorMittal ha siglato un piano per sfruttare le miniere di ferro nella città di Putu per i prossimi 25 anni.