LIBERALISMO
. Per intendere compiutamente il liberalismo è necessario distinguerne un significato più lato, di natura speculativa, e uno più ristretto, specificamente politico. Se ci si limita al primo, si ha una nozione troppo generica, che non consente di precisare lo sviluppo storico dei principali istituti politici sorti dall'ideologia liberale, che non può valere a distinguere con nettezza il liberalismo dalle altre correnti parallele o anche apparentemente opposte, ma sbocciate dalle stesse esigenze del pensiero moderno, che, infine, nella sua universalità, mal può aderire alle particolari determinazioni concrete e render conto del moltiplicarsi del liberalismo nei liberalismi dei diversi tempi, delle diverse nazioni e dei diversi partiti. È nella natura stessa del concetto di libertà, su cui è fondato il liberalismo, di accogliere più che di respingere, ed è logico che chi si arresta alla formulazione astratta di esso, finisca con l'accentuarne il carattere di superiore comprensione. D'altra parte, se ci si limita al secondo significato, la visione diventa unilaterale e non si riesce più a spiegare la dialettica del liberalismo, come da esso siano scaturiti la democrazia e il socialismo, che non sono perciò soltanto fuori ma anche dentro il liberalismo: non si comprende soprattutto in quale senso il liberalismo sia sboccato nel corporativismo.
Nel primo significato, liberalismo diviene sinonimo di modernità, immanenza, affermazione di personalità; liberazione, insomma, delle forze dello spirito da ogni limite trascendente e da ogni autorità dogmatica. Le sue radici sono naturalmente quelle stesse di tutto il pensiero moderno e per ritrovarle occorre risalire alla fine del Medioevo e della scolastica. Con l'Umanesimo e col Rinascimento si comincia a interiorizzare Dio e il mondo, e a considerare l'individuo come il centro, o almeno come un centro dell'universo. Si rinasce, e cioè si pone ex novo il problema della realtà facendo i primi sforzi giganteschi per liberarsi dal limite troppo rigido della trascendenza giungendo fino a contrapporre la propria coscienza e il proprio pensiero a tutto il mondo passato e presente che si esprimeva con la forza della tradizione e con quella dell'autorità. Comincia la ribellione dell'individuo, non più soltanto come setta ereticale, per la rivendicazione di una presunta verità trascendente, ma appunto in quanto individuo che parla in nome proprio e della propria coscienza, e nascono allora i martiri del pensiero, di cui si ricorderanno, allorché trionferà il liberalismo, pensatori ed eruditi che ne sapranno scoprire il valore, e insieme politicanti, demagoghi, massoni e anticlericali in genere, che ne trascineranno i nomi nelle vie, nelle piazze, negli emblemi delle loro associazioni.
Il problema della libertà individuale diventa poi il problema della Riforma. Di minore potenza metafisica e di più angusto orizzonte, il pensiero della Riforma è indotto a porre in primo piano la questione della libertà religiosa, e il suo individualismo un po' timido resta troppo facilmente a mezza strada tra Dio e l'uomo ma, meno aristocratico e più accessibile alle masse, esso guadagna ben presto terreno e finisce con l'acquistare un valore politico e sociale, che si concreta rapidamente in nuovi istituti e in nuovi modi di vita. Dalla lotta contro la Chiesa e dall'individualismo religioso, portato alle sue estreme conseguenze specialmente dal calvinismo, sorgono nuove esigenze che si manifestano poi, attraverso una più profonda disciplina e una radicale trasformazione dei caratteri, come fondamenti della società dei secoli posteriori. Basti pensare ai rapporti tra le forme capitalistiche e il protestantesimo, per comprendere la vastità delle ripercussioni che l'atteggiamento spirituale della Riforma ha avuto nel mondo politico contemporaneo.
Altri presupposti del liberalismo sorgono intanto in Francia e in Inghilterra. La ragione trova nel cartesianismo il suo primo codice. Ormai la realtà dell'individuo è una certezza che deriva soltanto dal suo pensiero, è un sum che non riconosce altri precedenti all'infuori di un cogito; e pensiero vuol dire chiarezza, evidenza, quindi strumento e valore accessibile a tutti, attraverso il quale tutti possono raggiungere la condizione prima di ogni libertà. Nel razionalismo cartesiano è già il principio della democrazia del pensiero, che sarà poi accentuato dalle correnti empiristiche e dalla filosofia del senso comune, quando la chiarezza e l'evidenza tendono a passare dalle idee alle sensazioni, la verità diventa dominio di chiunque abbia occhi per vedere, e le ragioni di ogni trascendenza e di ogni autoritarismo del sapere sono eliminate in maniera sempre più radicale.
In tal guisa si pone nel mondo moderno il problema del liberalismo. Si pone anzitutto sul terreno religioso e filosofico, perché, prima di procedere a una qualsiasi rivendicazione politica, l'individuo sente di dover conoscere le sue forze, di togliere ogni mediatore tra sé e Dio, tra sé e la verità; di sapere ch'egli può, con la ragione e con i sensi di cui è dotato, giungere là dove è giunta l'autorità da lui finora passivamente riconosciuta. È questa coscienza del suo pensiero e del suo sapere, è questa certezza di non avere limiti assoluti nel suo cammino, che gli fa comprendere di essere eguale a ogni autorità, e gli fa nascere il primo senso dell'ingiustizia del privilegio. Quando dalla speculazione di alcuni pensatori e dal nuovo sentimento religioso di alcuni riformatori questa coscienza giungerà a zone molto più estese e si andrà via via approfondendo, il problema si tramuterà insensibilmente in problema politico e risuoneranno le prime voci dirette a rivendicare e a proclamare i diritti degli uomini.
Il liberalismo nel suo significato più ristretto e più propriamente politico, si trova chiaramente formulato appunto nelle "Carte" in cui sono precisati tali diritti: principalmente i Bills of rights d'America (1776) e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, votata dall'Assemblea costituente francese (29 agosto 1789). Nella prima reazione contro i privilegi, la libertà che si è in grado di affermare è quella più semplice e più immediata del fatto di natura ("gli uomini nascono e vivono liberi ed eguali nei diritti": Dich. d. dir., art.1) e i famosi diritti di libertà che ne derivano (v. libertà: Diritti di libertà) hanno lo stesso carattere naturalistico, come risulta esplicitamente dall'art. 2 della Dichiarazione dei diritti, che li definisce appunto naturali e imprescrittibili. Lo stesso art. 2 ne fa un primo elenco in cui rientrano: la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione; l'art. 11 aggiunge: "La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo. Ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, pubblicare liberamente, salvo rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi contemplati dalla legge". La libertà religiosa è esplicitamente riconosciuta dall'art. 10, il quale stabilisce che "nessuno deve essere disturbato nelle sue opinioni, anche religiose, purché la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla legge". Tra gli altri diritti dei cittadini sono da notare quelli di "concorrere personalmente o per mezzo dei loro rappresentanti" alla formazione della legge (art. 6) e di essere tutti uguali dinnanzi alla legge e quindi tutti "ugualmente ammissibili a tutte le dignità, uffici e impieghi pubblici" "senza altra distinzione che quella della loro virtù e del loro ingegno" (art. 6).
Questi i diritti principali, già enunciati dalla Dichiarazione e poi teorizzati e giuridicamente elaborati per un secolo e mezzo; ma se si cerca di ridurli ai loro principî fondamentali e di caratterizzare sinteticamente il liberalismo che ne deriva, si deve riconoscere che tutta la Dichiarazione si assomma nella definizione della libertà, implicita nell'art. 4: "La libertà consiste essenzialmente nel poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri; così l'esercizio dei diritti naturali di ciascun individuo non ha altri limiti se non quelli che assicurano agli altri membri della Società il godimento di questi stessi diritti". Qui è il nucleo dell'individualismo liberale e insieme il limite che il liberalismo non riuscirà mai a superare davvero.
Le conseguenze di un siffatto individualismo, e quindi i poli tra i quali esso si svolgerà, arricchendosi, modificandosi e infine negandosi, sono quelle dell'antistatalismo e della proprietà privata; della funzione, cioè, esclusivamente negativa dello stato ("la legge ha il diritto di proibire le azioni nocive alla società"; art. 5) e del diritto di proprietà come "inviolabile e sacro" (art. 17). Già nella Dichiarazione dei diritti possono ritrovarsi i germi delle antinomie che scaturiranno da questi due capisaldi del liberalismo, alimentando nello stesso suo ambito le opposte correnti di uno statalismo a oltranza e di una negazione più o meno esplicita e radicale della proprietà privata. Nella stessa Dichiarazione, in effetti, s'inizia l'ipostasi della sovranità della nazione, di una società che supera la particolarità dei suoi membri, di una "volontà generale" che fa legge, e soprattutto di una "necessità pubblica" che può fare addirittura "togliere" la proprietà all'individuo, nonostante il suo carattere di diritto inviolabile e sacro. La storia del liberalismo consiste appunto nel determinarsi, nell'affinarsi, nel moltiplicarsi delle antinomie tra queste due esigenze fondamentali: il non essere e l'essere dello stato, il non essere e l'essere dell'individuo; l'affermazione, cioè, dell'individuo come unico fine e valore, e insieme la correlativa affermazione della somma degl'individui come superiore all'individuo singolo e quindi come negazione di esso; di una volontà individuale che sia sovrana e di una volontà generale che sia anch'essa sovrana di una molteplicità essenziale e di un'unità imprescindibile; di due realtà, insomma, individuale e antindividuale, che sorgono l'una dall'altra, e non possono non sorgere e non coesistere, se è vero che di individui sulla terra non ce n'è uno solo. Determinare come e in quale senso queste due volontà possano legittimarsi, coesistere, affermarsi, consolidarsi, ingranarsi e dar vita a un organismo di valore spirituale, sarà il fine nel raggiungimento del quale si tormenterà per quasi due secoli il liberalismo, generando dal suo seno infinite teorie e forme politiche, e anche infinite critiche e perentorie negazioni.
Due aspetti principali si possono distinguere in questa dialettica del liberalismo, uno più genericamente politico, l'altro economico e sociale. Sono due lati che per necessità intrinseche debbono continuamente interferire e unificarsi, ma che tuttavia conviene distinguere, soprattutto per chiarire le differenze delle due più importanti tendenze politiche che si accompagneranno al liberalismo e che si sono già individuate nella democrazia e nel socialismo.
Dal punto di vista politico e giuridico, il primo problema che sorge è quello dell'essenza e della costituzione dello stato. Eliminata ogni trascendenza, l'origine dello stato non può essere trovata che nella volontà degl'individui i quali lo riconoscono necessario e deliberano di costituirlo. La teoria del contratto sociale, che è la più significativa espressione di questo carattere immanentistico del nuovo stato, apre la via alle assemblee costituenti, che dovrebbero essere l'organo primo della "volontà generale". Ma fin dalle costituenti, e poi nei regimi parlamentari che ne seguono, si pongono in tutta la loro gravità le questioni del diritto di voto, del principio elettoralistico e del principio maggioritario. Ci si trova dinnanzi alla molteplicità bruta dei cittadini che occorre ridurre a volontà unitaria e consapevole: quali saranno gli strumenti che compiranno il miracolo? Due soprattutto sono gl'interrogativi che urgono: il primo riguarda l'estensione del suffragio, il secondo il disaccordo dei votanti (v. elezione). Quanto al primo, è nella logica stessa del principio di giungere a poco a poco al suffragio universale: ogni limitazione è destinata ad essere eliminata, perché troppo evidentemente trasformabile in privilegio e in arbitrio. Ma, d'altra parte, una "volontà generale" che si esprima, in tutte le sue funzioni, attraverso il voto della totalità degl'individui non è materialmente concepibile, e occorre supplire con l'istituto della rappresentanza, il quale, comunque verrà interpretato nell'ulteriore svolgersi della scienza politica e giuridica, dà luogo a un primo dualismo di governanti e governati, e quindi a un primo dualismo di volontà. Se non che, ben più grave il dualismo scaturisce dall'altro problema del disaccordo dei votanti. Dal concetto di individuo particolare e da quello di volontà generale come somma delle volontà degl'individui, il liberalismo non poteva trarre altra conseguenza che quella del trionfo materialistico del numero, consacrato dal principio parlamentare della maggioranza (v.). L'art. 6 della Dichiarazione dei diritti dice che "la legge è l'espressione della volontà generale" e che tutti i cittadini hanno diritto "a concorrere personalmente o per mezzo dei loro rappresentanti alla sua formazione": ma è chiaro che quel generale vuol dire soltanto maggioritaria, e quel tutti sta a rappresentare soltanto i più. La libertà dei dissidenti è ridotta alla sola enunciazione del no, e la legge li costringe all'obbedienza nonostante la mancata accettazione. Il liberalismo sorvolerà sempre su questa conseguenza ineluttabile del suo principio materialistico, o, al massimo, escogiterà qualche modesto espediente con cui s'illuderà di aver riconosciuto il cosiddetto diritto delle minoranze. Il più notevole dei suoi tentativi sarà quello della rappresentanza proporzionale, con cui sbriciolerà il problema, moltiplicandolo per il numero dei partiti ammessi alla rappresentanza e lo lascierà, d'altra parte, immutato per quel che riguarda la votazione e l'impero della legge.
Dal concetto di rappresentanza e da quello di numero trae origine la democrazia (v. XII, pp. 895-596), in senso modermo, quale si forma soprattutto in Francia, secondo l'ispirazione prima di J. J. Rousseau (v.). E in Rousseau stesso la democrazia mostra i suoi aspetti deteriori, convertendosi nel suo contrario e generando, nella sete della libertà, la peggiore schiavitù.
Più aderente all'ideale del puro liberalismo, ma meno conseguente nella sua logica, è invece il liberalismo, o meglio costituzionalismo inglese, secondo gl'istituti derivanti dalla sua storia e i principî che da Locke giungono a noi attraverso Montesquieu (v.). Qui la preoccupazione maggiore è quella di garantire la libertà, rinunciando a predisporre qualsiasi unità delle forze contrastanti e anzi cercando nello stesso contrasto di forze molteplici non unificate la ragione della vita e la condizione del progresso. Naturalmente all'unità non si può rinunziare in modo assoluto, ché delle forze concepite come soltanto diverse ed estranee sarebbero troppo palesemente disgregatrici della vita sociale e di sé stesse, ma l'unità nella quale si crede è quella imprevista, naturale risultante dell'incontro del molteplice: un'unità, perciò, che si attende e si contempla, ma non si costruisce volontariamente e consapevolmente. Questa certezza mitica di un superiore valore naturale e di una spontanea armonia della vita è, come si vedrà, soprattutto accentuata nelle concezioni economiche del liberalismo, ma anche nella formulazione più genericamente politica è d'importanza fondamentale, fino a diventare, almeno in certo senso, il contenuto specifico dell'idea liberale.
Se non che tradurre questa fede nell'effettiva costituzione di uno stato diventa cosa intimamente contraddittoria e logicamente irrealizzabile. Uno stato è per definizione un'unità giuridicamente e quindi consapevolmente organizzata, e occorre che, almeno nelle linee principali, il molteplice superi il contrasto e si disciplini, che le forze riconoscano una forza, le volontà una volontà. Il liberalismo, anche nelle sue forme estreme e più radicalmente individualistiche, non può sottrarsi a questa necessità di uno stato che garantisca la vita stessa e la libertà dell'individuo; ma basta, appunto, che riconosca tale necessità perché con ciò stesso si ponga sulla via di una revisione del suo presupposto individualistico.
Dal punto di vista costituzionale il liberalismo ha creduto di dare una soluzione al problema con la forma di governo parlamentare e con la divisione dei poteri. Ha voluto, con ciò, portare nello stesso govemo il criterio della molteplicità originaria della vita sociale e il governo ha concepito anch'esso come risultante e non come principio. Un governo, quindi, che, a rigore, non sa quello che vuole, non dà sistematicità alle sue norme, si contraddice nello spazio e nel tempo, si disgrega nei suoi elementi governanti: un governo che da questa costitutiva instabilità è costretto prima o poi a uscire attraverso la forza di un arbitrio, che assommi in sé comando e poteri, e tramuti in veste prevalentemente, se non unicamente, formale il principio della costituzione. A poco a poco i parlamenti, appena cominciano a liberarsi dai freni della tradizione preliberale e cercano di attuare conseguentemente i principî dell'ideologia liberale, rivelano la loro incapacità di governo, e fanno da sgabello alle dittature, al tempo stesso che la maggiore consapevolezza dell'autonomia dei poteri divisi dimostra, per altra via, l'imprescindibilità di un potere unitario. La presunta unità naturale appare nella sua effettiva essenza mitica, e, nel disorientamento che ne segue, si corre il rischio di compromettere anche i valori spirituali faticosamente raggiunti.
Dopo il problema della costituzione, e intimamente legato ad esso, viene quello dei fini e delle funzioni dello stato liberale. Dato il suo primitivo compito affatto negativo, di proibire le azioni nocive e di conservare i diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo, la Dichiarazione dei diritti riassume le funzioni dello stato in quella di fare giustizia, proteggere e punire. Questo, e soltanto questo, può essere il fine di uno stato rigorosamente concepito secondo l'ideologia liberale: garantire le condizioni di eguale libertà di tutti i cittadini. Ma, intanto, sol per far questo l'azione statale naturalmente pubblica, che faccia valere la giustizia, poi di un'altra forza, l'esercito, che faccia valere la stessa giustizia nei confronti con gli stranieri, poi ancora di una finanza, di un tesoro, di un'amministrazione, che rendano possibile il funzionamento dei poteri dello stato. Fin qui arriva la stessa Dichiarazione dei diritti. Ma si può limitare e si limita in effetti a questi compiti lo stato liberale? Già, anche dentro questi confini, l'attività statale insensibilmente si raffina e raggiunge zone che sembravano assolutamente fuori della sua competenza. Basti pensare alla necessità dei tributi, al bisogno di proporzionare direttamente o indirettamente i tributi ai redditi, per accorgersi dell'intervento dello stato nella sfera economica del cittadino. Ma poi, per garantire una vera eguaglianza, occorre che lo stato si preoccupi di assicurare ai cittadini armi eguali nella lotta per la vita, e la prima arma che serve a tutti è quella dell'istruzione, della quale lo stato deve perciò assumere in parte o in tutto il compito. Bisogna dare le scuole al popolo, e bisogna dargliele, almeno in parte, gratuite. E il popolo deve andare a scuola, perché questa è condizione della sua libertà. Se non che uno stato che insegna, per necessità guida e plasma, cioè avvia in una certa direzione, supera in qualche modo gl'individualismi e nega quindi il punto di partenza. Il liberalismo avverte i pericoli della strada per cui s'incammina, e teorizza la cosiddetta scuola laica o neutra o agnostica, che insegna senza insegnare, che dà gli strumenti senza insieme adoperarli che divide la scienza dal pensiero, il dato dalla sua consapevolezza. Una contraddizione; che, al solito, non può reggere, e sotto la menzogna della laicità fa entrare nella scuola illuminismo e poi positivismo, razionalismo, empirismo, anticlericalismo, e via dicendo; fa della scuola pubblica un contraltare della scuola confessionale, in nome di una sedicente libertà d'insegnamento.
Non diverso atteggiamento lo stato assume di fronte alla religione. In linea di principio, anche qui, libertà assoluta di opinioni e di credenze: ma ci sono tuttavia dei problemi storici che non si possono evitare e che non consentono l'asserito agnosticismo. C'è una chiesa che grava con la sua forza millenaria, ci sono altre chiese che fanno sentire la loro voce e la loro forza, ci sono i più - siano cattolici o protestanti - che dettano legge. Libera chiesa in libero stato: è vero; ma questo è appunto il problema, come ci possono essere due libertà, che è quanto dire due poteri, due sovranità? Di fatto, ogni stato ha avuto e ha una religione, o per lo meno risolve in una determinata maniera la questione religiosa, e, quando proprio crede di disinteressarsi del problema, in realtà non fa che opporsi alla religione attraverso un anticlericalismo più o meno esplicito. La Chiesa, con la sola sua presenza, rende impossibile una soluzione veramente agnostica, e tutta la storia del liberalismo è storia di accordi e di disaccordi, non mai di estraneità e indifferenza.
Istruzione, religione: mosso da un'esigenza d'intervento puramente negativo, lo stato liberale giunge a poco a poco al cuore dell'individuo che aveva ipostatizzato e fa trionfare in modo ambiguo e poco consapevole l'opposta esigenza che voleva soffocare. È il dramma, in altre dimensioni e con ben altre conseguenze, che si era già svolto nell'individualismo pedagogico dell'Émile di J. J. Rousseau, dove l'ideale di un'educazione puramente negativa mette capo alla creazione di un fantoccio, che finisce addirittura con lo sposare una Sofia preparatagli dal pedagogo. L'antistatalismo si attenua e lo statalismo si accentua: il bisogno collettivo, il bisogno delle generazioni future, la realtà che trascende l'individuo s'impongono con sempre più grande evidenza, e allo stato si riconosce il diritto e il dovere di provvedere ai lavori pubblici, ai servizî pubblici più notevoli, all'igiene; e l'azione dello stato si moltiplica poi attraverso gli enti pubblici locali e gli enti parastatali, finché liberalismo non si sa più bene che cosa significhi, e quando e come si affermi o si neghi. Una volta ammessa la realtà dello stato accanto a quella dell'individuo, il problema dei limiti deve implicare estreme difficoltà e ingiustificati arbitrî, che finiranno poi col rivelare un errore fondamentale d'impostazione.
I termini della questione diventano ancora più espliciti e chiari, allorché dal campo politico in genere si passa a quello economico. Nella vita economica appunto il liberalismo riconosce la sfera più propriamente individuale, che gli fa dichiarare il diritto di proprietà inviolabile e sacro. E liberale nasce la scienza economica con i fisiocrati prima, con Smith e la scuola classica poi, facendo della concorrenza e del mercato i presupposti di ogni dottrina. Perché l'individuo sia veramente libero occorre che egli abbia una realtà esteriore in cui affermare il suo arbitrio, la realtà dei beni economici che deve poter produrre, modificare e scambiare senza limite alcuno. Libertà nell'ambito della nazione e al di là dei suoi confini, che si esprime nella lotta economica degl'individui fuori di ogni intervento statale e di ogni barriera doganale (v. liberismo e protezionismo). Le tappe per questa conquista sono tra le più significative della storia del liberalismo, prima e soprattutto in Inghilterra e in America, ma anche in Francia, in Italia e un po' dappertutto. Le conseguenze si riassumono nella formazione e nel consolidamento delle forme capitalistiche, secondate per altre vie dal sorgere della grande industria e promotrici, insieme, del rapido incremento di questa. Qui il principio che dalla lotta sorga naturalmente l'armonia (l'equilibrio economico), che l'interesse privato coincida immediatamente con l'interesse generale, che il bene comune risulti dalla somma dei beni di tutti (Bentham), è condotto a un rigore formale assoluto, si da divenire il presupposto e la conclusione della costruzione scientifica (v. economia politica: Storia delle dottrine economiche). La scienza, anzi, rinuncia completamente a essere normativa, e si limita, nella massima parte, all'opera polemica contro tutte le forme d'intervento.
Se non che anche l'antistatalismo economico comincia fin dai suoi primi passi a generare, entro i limiti della stessa sua esigenza, i germi dell'ulteriore statalismo. E fin dalla Rivoluzione francese si comincia a riconoscere che la proprietà limitata ad alcuni è ancora un privilegio che non consente vera libertà. Nello stesso nome della libertà sorge, dunque, il primo comunismo illuministico (Mablyi Brissot de Warville, Babeuf), come nel secolo seguente il sansimonismo e il socialismo. Già Turgot reagiva contro il carattere troppo privatistico della proprietà e affermava l'utilità sociale di essa, e quindi la necessità della sorveglianza da parte dello stato; già Mirabeau ammoniva di non lasciar senza limiti l'eredità. È nell'eredità soprattutto che si vede la violazione della libertà, in quanto essa fa trovare gl'individui nella lotta della vita in posizioni iniziali diseguali. Questa diseguaglianza finisce col dividere gli uomini in due classi: capitalisti e non capitalisti, vale a dire uomini liberi e uomini merce o mano d'opera o materia prima della produzione, scambiabile sul mercato alla stessa stregua di qualsiasi altra merce. Si comincia a comprendere che la libera concorrenza trascina nella sua logica anche il lavoratore, il quale dalle leggi del mercato potrà ricevere pane e potrà non riceverlo, senza ch'egli abbia comunque diritto a pretenderlo. Allora, entro lo stesso ambito del liberalismo, l'antistatalismo si attenua, e ci si accorge che non si possono chiudere gli occhi di fronte a certe inumanità, che scaturiscono dal brutale scontro degl'interessi. Nella stessa Inghilterra, fin dagl'inizî del secolo scorso, comincia la cosiddetta legislazione sociale e si cominciano a porre alcuni limiti all'individualismo con una prima disciplina delle condizioni di lavoro. E la prima soluzione di continuità nel liberalismo, il primo compromesso con quella che sarà poi la realtà del socialismo, il primo passo sulla via degl'interventi. L'intervento dello stato si era negato per avere libertà, ora l'intervento si chiede per ottenere tuttavia libertà, e ciò che era stato esaltato come diritto "sacro" comincia ad apparire come "furto", privilegio e sopraffazione. Quale il vero liberalismo? Come poteva coerentemente il liberalismo negare queste conseguenze del suo principio individualistico?
Una volta postisi sulla via degl'interventi, la logica stessa della vita economica e sociale doveva via via accentuare ed estendere la funzione dello stato, che dalla sorveglianza sulle condizioni del lavoratore passò a quella dell'azienda produttrice e del mercato. Un assoluto liberismo era rimasto sempre nel regno delle utopie, e si comprende facilmente come in una questione di limiti si possa insensibilmente trascorrere da un estremo all'altro. Lo stesso estendersi dei compiti politici e amministrativi dello stato, e quindi l'ingrandirsi del suo bilancio, conduceva necessariamente a un'ingerenza sempre maggiore nella sfera economica, dove, d'altra parte, l'intervento cominciò a poco a poco ad essere sollecitato da capitalisti e non capitalisti: dai primi per misure protezionistiche a vantaggio dell'agricoltura o dell'industria, dagli altri per aiuto e legittimazione delle proprie rivendicazioni.
Contro questi interventi sempre maggiori protestavano e protestano i teorici del liberalismo economico, senza accorgersi tuttavia che la contraddizione è sorta dallo stesso individualismo che hanno predicato. I più ortodossi chiudono gli occhi di fronte alla realtà incalzante e continuano ad aver fede nell'assenteismo statale, i meno utopistici, ma anche meno logici, si avviano al compromesso e la contraddizione stessa fanno assurgere a principio politico. Tra liberalismo e socialismo sorge così il socialismo di stato, nel quale, con o senza coscienza, si acquetano scienziati e politici. Così, anche nel campo economico, il sorgere delle antinomie tra antistatalismo e statalismo e l'impossibilità della loro soluzione cominciano a preparare il terreno per una revisione radicale del problema.
I precedenti di tale revisione vanno ricercati nel pensiero idealistico, che fin dagli ultimi decennî del sec. XVIII comincia a contrapporsi all'affermazione del pensiero illuministico, razionalistico ed empiristico. Il pensiero del Rinascimento italiano, di un individualismo ben più profondo e spirituale, per cui l'individuo stesso coincide con l'universale e l'universale in esso s'incentra, comincia a dare i suoi frutti migliori, in contrasto con l'astrattismo del pensiero franco-inglese. Nei pubblicisti della nostra tradizione vichiana, nei filosofi dell'idealismo tedesco, negli spiritualisti italiani della prima metà dell'Ottocento, comincia a farsi strada un concetto di libertà politica, in cui il dualismo di libertà e autorità, e quindi di individuo e stato, è riconosciuto come il fondamento necessario della superiore sintesi in cui consiste la vera libertà. Si inizia la demolizione di tutti i dogmi dell'illuminismo, e soprattutto di ogni presunto valore naturale. Lo schema ideale e giuridico dello stato che era scaturito dalla Rivoluzione francese comincia a mostrare la fragilità delle sue basi, perché materialistico e arbitrario comincia ad apparire il giusnaturalismo da cui deriva. Il diritto, come ogni altra manifestazione spirituale, acquista un significato immanentistico, che troverà una prima espressione nella teoria dello stato giuridico (v. Stato). Nel campo economico, per un verso, si prepara il terreno alle teorie dell'economia nazionale, per un altro verso, si pongono, sia pure senza consapevolezza, le premesse del socialismo marxista: e in ogni caso si supera l'utilitarismo astratto della scuola classica e s'intravvede la necessità di sollevare l'economia all'etica. L'ideale educativo, infine, si sposta dal metodo contraddittoriamente negativo di Rousseau a quello spiritualistico di Rosmini, di Gioberti, di Lambruschini. Si dimostra, insomma, per ogni verso, che l'individualismo empiristico depaupera e addirittura svuota di contenuto la libertà, e che ogni valore non può essere presupposto, bensì fine dell'attività umana.
Nel liberalismo, che in tal guisa si viene preparando, non è, tuttavia, sempre rigorosa la coscienza immanentistica. Pur andando oltre i termini dell'illuminismo, l'atteggiamento polemico contro di esso finisce col far valorizzare i residui di una trascendenza religiosa o filosofica. Religiosa in modo particolare in Italia, dove la storia del liberalismo dal '48 in poi - sia esso di destra o di sinistra - non riuscirà mai a liberarsi dalle contraddizioni di una via senza uscita; più specificamente filosofica e poi giuridica in Germania, dove si equivocherà sul significato dialettico del binomio di individuo e stato, e si degenererà nella statolatria. Conseguenze e pericoli, questi, di cui ci si comincerà ad avvedere soprattutto in Italia nella seconda metà del secolo scorso, e che poi saranno analizzati e appariranno in piena luce nei primi decennî del secolo nostro. Da Spaventa a Gentile, la tradizione del pensiero italiano ed europeo viene determinata nelle linee essenziali, e in essa si ritrovano gli elementi della nuova e più profonda fede nella libertà, che avrà poi il suo sbocco nella rivoluzione fascista.
La lotta, in cui il nuovo idealismo s'impegna, è condotta dapprima sul campo più propriamente speculativo e religioso. Ogni trascendenza è risolta nella dialettica dell'immanenza; l'idea si libera da tutti gli schematismi categoriali, Dio e la natura si ritrovano nell'atto dello spirito. Sono poste così le fondamenta della concezione della libertà come libertà assoluta e si apre la via per tradurla nella vita politica. Lo stato diventa la realtà stessa dell'individuo, non più limite, ma persona, non più gendarme ma stato etico. Uno stato, perciò, che supera tutte le antinomie del vecchio liberalismo e consente di allargare l'orizzonte all'infinito. Non più confessionale, né anticonfessionale, ma superconfessionale; non più clericale, né anticlericale, ma risolvente in sé, come suoi momenti dialettici, religione e chiesa; non più agnostico e indifferente, ma con un ideale ben consapevole al quale educare e avviare.
Compito educativo, sopra ogni altro, quello dell'idealismo, e perciò forse un po' lontano dalla discussione e risoluzione dei problemi più determinatamente politici, economici, giuridici e sociali. Grande semina che poi deve germogliare e fruttificare nei singoli campi della vita, rispetto ai quali l'idealismo potrà sembrare relativamente astratto e anche un po' insensibile. La più profonda concezione dell'uomo e della libertà non sente ancora il bisogno di avviarsi a nuove forme istituzionali che rendano possibile di adeguare ad essa la vita politica ed economica. Non si sente in particolare il problema del socialismo, generato dal liberalismo, a cui pur ci si avvicina, ma per constatarne in modo esagerato il lato materialistico e trascurarne la più intima esigenza. Troppo legato alla tradizione che aveva rivendicato, l'idealismo è un po' schiavo del suo storicismo, sì che al rivoluzionarismo estremo delle sue premesse assolutamente immanentistiche si accompagna inavvertitamente qualche accenno conservatore. Nulla di strano che, quando scoppierà la rivoluzione fascista, la maturità spirituale sarà ancora un po' troppo speculativa e solo indirettamente giuridica ed economica.
Nella prima reazione contro i torbidi bolscevichi, il fascismo è stato più liberale che socialista, ma poi ha acquistato via via coscienza della necessità di concretarsi in una superiore concezione, che fosse sì, antiliberale e insieme antisocialista, ma nel senso di far suo e portare ad altro livello quel che il liberalismo doveva ma non poteva essere, per aver respinto da sé il socialismo che aveva generato, e quel che doveva e non poteva essere il socialismo, per aver rinnegato il liberalismo da cui era stato generato. Incerto nei primi anni, il fascismo ha poi sistemato il suo sindacalismo di stato, dal quale ha proceduto e va tuttora procedendo verso il corporativismo integrale, di là da ogni residuo del liberalismo individualistico e del socialismo materialistico.
Per quanto il corporativismo non sia che ai primi passi, già si vede tuttavia con chiarezza la direzione del cammino e si comprende in quale maniera esso si avvii a risolvere le antinomie, sopra analizzate, del liberalismo. Individuo e stato, speculativamente ricondotti a unità, trovano la loro vita effettiva nella costruzione dell'organismo sociale. Quell'unità naturale che si aspettava dal vecchio liberalismo, come risultante o somma d'infinite azioni individuali reciprocamente estranee e arbitrarie, si tramuta ora nella cosciente determinazione di un fine sociale organico in cui s'identificano la volontà dello stato e quella dell'individuo. Se l'uomo vive in società, il suo contenuto spirituale ha la caratteristica della socialità, e i due aspetti del suo essere, l'individuale e lo statale, non possono distinguersi. Il liberalismo ne aveva voluto fare un essere meramente individuale e vi aveva poi dovuto giustapporre contraddittoriamente uno stato di cui non poteva determinare i limiti. Ora si comprende che, se stato e individuo sono due, lo stato non può essere stato e l'individuo individuo; cioè lo stato non può essere davvero autorità e l'individuo davvero libertà. Ma, d'altra parte, perché questo non avvenga e possa verificarsi l'identificazione di stato e individuo, è indispensabile concepire in modo diverso la natura e il fine dei due termini. Lo stato non può essere più un ente, un governo, una burocrazia, contrapposto ai cittadini, anche se voluto e costituito da essi: deve invece integralmente combaciare con tutti gl'individui organicamente disposti, esserne il loro sistema. L'individuo, per contro, non può vivere in una sfera arbitraria o particolaristica, ma deve realizzare la sua libertà e la sua iniziativa nella collaborazione, e riconoscere il carattere pubblicistico della proprietà. Ora il problema è di vedere come sia possibile trasformare questo ideale nella realtà delle istituzioni sociali e come debba essere costituito uno stato che a esso risponda. La soluzione si cerca nella corporazione, intesa come termine mediatore dell'astratto individuo e dell'astratto stato, attraverso la quale l'individuo concepito nella sua spiritualità, e cioè nella sua attività produttrice, si solleva allo stato per quel tanto che riesce a costituirlo, e lo stato si esprime nell'autogovemo di tutti gl'individui nelle loro specifiche funzioni. Si svuotano così di contenuto tutti i concetti tradizionali del liberalismo individualistico e della democrazia; il concetto di burocrazia, perché tutti i cittadini divengono collaboratori dello stato; il concetto di diritto pubblico e di diritto privato, perché tutto il diritto diventa pubblico; il concetto di rappresentanza, perché ogni cittadino rappresenta, nella specificità della sua funzione di governo, sè stesso e tutti gli altri; il concetto di maggioranza, perché ognuno esprime e fa valere la sua volontà e la sua iniziativa nell'unanimità dell'azione statale; il concetto di eguaglianza e di elettoralismo, perché nessuno è eguale e può dare un voto che abbia eguale valore nella costitutiva gerarchia dello stato.
Ma la trasformazione principale si ha nel concetto stesso di politica, che nel liberalismo, riguardando una realtà statale secondaria rispetto alla realtà individuale, si differenziava e non poteva non differenziarsi dall'economia, in cui propriamente si esprimeva l'interesse dell'individuo. Universalizzata l'economia col rendere pubblicistica la proprietà e considerata quindi economica o etica ogni azione umana, scompare il dualismo di politica ed economia, e scompare l'espressione tipica della prima in quanto astratta ideologia: il partito politico. Contemporaneamente si trasfonna quello che era il mondo meramente economico, governato dalle leggi della concorrenza. Iniziativa privata e intervento statale, e in conseguenza il problema dei rispettivi limiti, diventano termini e problema senza significato, dal momento che non vi è più un privato che si trovi dinnanzi lo stato e uno stato non costitutivo dell'individuo. Lo stato e l'individuo non hanno più limiti positivi e la loro dialettica si svolge soltanto con i loro termini negativi. Lo stato etico si arricchisce delle infinite determinazioni della vita individuale e non v'è più problema che possa rimanergli estraneo.
In siffatta concezione unitaria e organica della vita, il corporativismo non si arresta ai confini della nazione, e si volge agli altri paesi perché convengano nell'azione comune. L'internazionalismo del vecchio liberalismo tendente a esaltare l'individuo e l'internazionalismo del socialismo tendente a rivendicare i diritti della classe, miravano in realtà a negare la nazione in un generico universalismo: il corporativismo, invece, non ha ragione di annullare perché non pone barriere, e, come nell'economia tende a superare i termini antitetici di protezionismo e liberismo con quello di collaborazionismo, così nella superiore vita politica, che dall'economia più non si distingue, il suo ideale non può essere che quello dell'organica collaborazione in cui si realizza la vera libertà.
Bibl.: H. J. Laski, Political thought in England from Locke to Bentham, Londra 1920; id., Liberty in the modern state, Londra 1930 (trad. it., Bari 1931); A. O. Hansen, Liberalism and American education in the eighteenth century, New York 1926; L. Mises, Liberalismus, Jena 1927; M. Kingsley, French liberal thought from Boyle to Condorcet, Londra 1929. Per la storia generale del liberalismo e per bibl. v. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Bari 1925. Una storia del liberalismo europeo può anche ritrovarsi in B. Croce, Storia d'Europa nel sec. XIX, 3ª ed., Bari 1932 (libro, come il precedente, sbagliato per il suo punto di vista). Per la bibliografia dei particolari argomenti considerati nel testo v. le voci a cui si è rinviato. Sui rapporti tra liberalismo e fascismo, oltre l'articolo di B. Mussolini sul fascismo, in Encicl. Italiana, XIV, pp. 847-851, cfr. G. Gentile, Che cosa è il fascismo, Firenze 1925; U. Spirito, Capitalismo e corporativismo, Firenze 1933; e le riviste La nuova politica liberale (Roma 1923-24; poi Educazione politica, 1925-26; e, dal 1927, Educazione fascista), e Nuovi studi di diritto, economia e politica, Roma 1927 segg.