EBREI, Lettera agli
È collocata come ultima fra le lettere di S. Paolo nell'ordine comune del Nuovo Testamento: e idealmente può essere considerata come un anello di congiunzione tra l'epistolario paolino e il Vangelo di S. Giovanni.
L'autore lascia in disparte "l'insegnamento elementare sul Cristo" per sollevarsi "all'insegnamento perfetto" (Ebrei, VI, 1). Egli si slancia dall'inizio, come il IV Vangelo col suo prologo, nelle profondità del mistero di Gesù, di cui delinea la supremazia e la persona. Gesù è il Figlio di Dio, il quale ha apportato la rivelazione suprema. I Profeti, Mosè, gli angeli stessi non sono che servi; al Figlio invece sono applicabili le parole "Il tuo trono, o Dio, è nei secoli dei secoli" e ancora: "Tu, all'origine, o Dio, hai stabilita la terra, e opera delle tue mani sono i cieli, essi periranno, ma Tu rimarrai; tutti invecchieranno qual vestimento... ma Tu sei sempre lo stesso e i tuoi anni non verranno meno" (I, 1-14). Se il titolo di Figlio è quello usato da Gesù stesso, il modo col quale viene interpretato ed esposto si riallaccia strettamente (con varianti sempre notevoli per l'importanza del soggetto) al pensiero di S. Paolo, e in particolare allo svolgimento cristologico della lettera ai Colossesi (v.). Dio "costituì lui erede di tutto, per mezzo di lui creò anche i secoli": "tutto egli sostiene (ϕέρων τὰ πάντα) con la parola della sua sostanza". Questo per i suoi rapporti e per la sua azione nell'universo. Quanto alla sua natura e ai suoi rapporti con Dio, il Figlio è esplicato come "l'irradiazione della gloria di Dio e l'impronta della sua sostanza" (I, 3). I termini hanno un parallelo nella letteratura alessandrina, e in particolare nel libro della Sapienza (questa ivi è descritta come "il raggio della luce eterna, lo specchio senza macchia dell'attività di Dio, e l'immagine della sua bontà"; Sap., VII, 26) e da Filone Alessandrino (ἀπαύγασμα, in De spec. leg., IV, 123 e De opif. mundi, 146, come in Ebrei, I, 3).
Più ampiamente, tanto da apparire il tema fondamentale, è svolta l'idea del sacerdozio e del sacrificio di Cristo. Il concetto evidente già nell'epistolario di S. Paolo. il quale vi sopraedifica la tesi fondamentale della redenzione, in nessun documento aveva però raggiunto tale sviluppo (da IV, 14 a X, 18). Se prima il sacrificio volontario di Gesù è messo in rapporto con l'agnello pasquale (I Corinzî, V, 7, I Pietro, I, 19), ora viene contrapposto al culto sacrificale dell'Antico Testamento preso nel suo complesso. Esso conferma un'alleanza nuova, per più rispetti superiore all'antica. Non più sacerdoti i quali debbano offrire vittime per i proprî peccati prima che per i peccati del popolo, ma un sacerdote unico, santo e senza macchia che offre sé stesso per i peccati altrui, a redenzione dell'umanità. Il tabernacolo eretto da Mosè per ordine divino è superato da un tempio ideale celeste, nel quale Cristo fu fatto degno di penetrare, e nel quale potranno entrare - a differenza del santuario di Gerusalemme - tutti i fedeli da lui santificati.
Parrebbe volersi dall'autore rialzare la povertà materiale in cui è il culto cristiano, privo ancora d'un tempio e sino d'ambienti che possano stare a paragone di una sinagoga, mancante di una definita e riconosciuta classe sacerdotale e di riti, quali i giudaici, solenni per la partecipazione festosa di tutto un popolo. Abramo, Mosè, Aronne, appaiono come personaggi ai quali l'animo dei fedeli è tuttora attaccato; s'intravede un pericolo di defezioni, cui è fatto cenno (XI, 39), laonde si esalta la fede e la costanza nella fede, di cui diedero esempio i personaggi più santi dell'Antico Testamento.
Data d'origine. - Dallo sviluppo della tesi, e dall'ambiente di sentimenti e d'idee che la lettera presuppone, si può dedurre la data d'origine, dai più collocata avanti la caduta di Gerusalemme, fra il 66 ed il 70 d. C. La data assegnata da G. Volkmar e da altri (sotto Traiano 116-118 d. C.) è oggi a ragione abbandonata, perché l'uso che Clemente Romano fa dell'epistola è fuori d'ogni dubbio (I Clem., 36, 2-5). Ma anche la tesi sostenuta da H. Holtzmann e da T. Zahn, che propendono per la persecuzione di Domiziano (circa l'anno 90), urta contro il contenuto dell'epistola. Il culto giudaico infatti è ancora nel suo splendore perché esercita un fascino. Il sommo sacerdote "entra nel santuario ogni anno col sangue altrui" (IX, 25). Si deduce dal continuo rinnovarsi delle vittime che esse non potevano rendere gli oblatori perfetti: "altrimenti, non si sarebbe forse cessato di immolarle?" (X, 1-3). L'autore argomenta ancora: "chiamando questa alleanza un'alleanza nuova, Dio ha dichiarata antica la prima. Ora ciò che è invecchiato, che è antico, è presso a finire" (VIII, 13). Ma con la rovina di Gerusalemme e del Tempio il sacerdozio ebraico e il suo culto non erano presso a finire, ma già tramontati (v. ebrei: Religione).
Destinatarî. - La lettera è priva dell'indirizzo, almeno nel testo attuale. Il titolo "agli Ebrei" è l'unico presentato dalla tradizione ed è dato da ottimi codici, quali il Sinaitico, il Vaticano, l'Alessandrino e dalle versioni; è testimoniato già da Clemente Alessandrino (presso Eusebio, Hist. Eccl., VI, 14, 2) e da Tertulliano (De pud., 20). D'altra parte non trova oggi accoglimento l'idea di E. Reuss, di F. Ch. Baur, di A. G. Hoffmann che vedevano nell'epistola il più antico trattato sistematico di teologia cristiana, piuttosto che una vera lettera. Accenni a una comunità determinata non mancano (V, 11; X, 34): lo scrivente manifesta la speranza d'essere loro presto restituito (XIII, 19); verrà a loro con Timoteo che è stato prosciolto, se non ritardi troppo: porge in fine il saluto "di quelli d'Italia" (XIII, 23, 24). Per l'identificazione della chiesa destinataria tutte le ipotesi sono state affacciate: Corinto, Antiochia, le chiese di Galazia, e con maggiori probabilità Gerusalemme, Roma, Alessandria. La frase οἱ ἀπὸ τῆς 'Ιταλίας (XIII, 24) non è decisiva, perché può indicare cristiani originari d'Italia e da essa lontani; ma, come ha provato F. Blass, poteva usarsi ugualmente bene di cristiani nativi e residenti in Italia (ἀπο = ἐξ).
L'idea ancora più corrente è quella antica, che vedeva i destinatarî nelle comunità ebraiche palestinesi o in quella gerosolimitana. L'indicazione dei codici più antichi e delle versioni può riposare su dati tradizionali. D'altra parte che chiese della gentilità s'interessassero tanto del culto giudaico non è molto verosimile.
Autore. - Nelle chiese d'Occidente la lettera fu aggregata solo nel sec. IV e dopo lunghe discussioni al corpus dell'epistolario paolino. Il Canone Muratoriano, composto verso il 180 probabilmente a Roma, ne esclude implicitamente, secondo l'interpretazione di alcuni, l'origine paolina, affermando che Paolo scrisse a sette chiese. Il simbolo delle sette chiese che ricevettero lettere dall'Apostolo è pure svolto da S. Cipriano, che condivideva quindi le idee del Muratoriano: e il catalogo detto del Mommsen (edito da T. Mommsen in Hermes, XXI, 1886, p. 142-156), composto in Africa verso il 360, ricorda solo tredici lettere di S. Paolo. D'altra parte la lettera non era ignorata in Occidente. Clemente Romano scrivendo ai Corinzî verso il 90, riferisce lunghi e caratteristici brani della lettera; Tertulliano la cita con onore attribuendola a Barnaba (v.), e Caio presbitero romano (199-207), a testimonianza di Eusebio e di S. Girolamo, negava esplicitamente che essa fosse di S. Paolo e ne rifiutava l'autorità contro i montanisti. Nelle chiese orientali invece è affermata nitidamente non solo la sua autorità, ma la sua origine da Paolo. Non è che non si avvertano, in scuole esegetiche del valore di quella d'Alessandria, le divergenze di stile e di lingua tra essa e l'epistolario paolino; ma la tradizione conservatasi è più forte di siffatte difficoltà. Panteno, considerato come fondatore del Didaskaleion d'Alessandria, spiegava la mancanza del nome di Paolo nella lettera come originata da umiltà (Clem. Aless. presso Eus., Hist. Eccl., VI, 14). Clemente stesso spiegava la perfezione stilistica, inconsueta nelle indiscusse lettere paoline, congetturando che Paolo l'avesse scritta in ebraico e Luca tradotta in greco. Origene concludeva "le sentenze essere dell'apostolo (Paolo), ma la dizione e la composizione doversi ad altri, che voleva rammentare e redigere in iscritto quanto aveva udito dal maestro" (presso Eus., Hist. Eccl., VI, 25). I testimoni delle chiese palestinesi, come S. Cirillo di Gerusalemme; della chiesa e della scuola antiochena, quali S. Giovanni Crisostomo; Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro; della chiesa siriaca, quali Afraate, S. Efrem, S. Giacomo di Nisibi, l'affermano di S. Paolo.
La conoscenza e discussione delle testimonianze orientali nel fiorire degli studî ecclesiastici nel sec. IV fece edotti del valore canonico della lettera anche in Occidente.
Il concilio di Trento, fissando il canone dei libri santi adottò, dopo una discussione se convenisse indicare l'autore, la formula: "quattordici lettere di Paolo apostolo" (A. Theiner, Acta genuina Concilii Tridentini, I, pp. 73-86). Esaminando l'interno della lettera stessa, si nota un'identità fondamentale di pensieri e di frasi con S. Paolo, non senza però sviluppi particolari d'idee. Più notevoli fra questi l'ampiezza di svolgimento dato al sacerdozio di Cristo e l'esposizione sistematica del culto dell'Antico Testamento come adombrazione del Nuovo: il mosaismo non viene considerato come una legge incapace, nonostante la molteplicità dei precetti, di portar l'uomo alla giustizia, ma come una religione destinata a cedere alla più perfetta religione cristiana, e pertanto non più atta, con la moltitudine dei sacrifizî, a produrre qualcosa di perfetto. Anche gli addentellati col pensiero alessandrino sono più numerosi e sensibili che non presso Paolo. J. G. Carpzow ha raccolti da Filone i testi paralleli più significativi con grande abbondanza e accuratezza; ma occorre rilevare anche le differenze: manca ogni accenno, come in Paolo, a una dottrina tanto fondamentale presso Filone come quella del Logos. Il modo di citare la Bibbia si distacca da quello di Paolo.
Il redattore non deve essere Paolo, ma un discepolo diretto di lui e uno dei più distinti. Verso Paolo ci conduce la menzione stessa di Timoteo (XIII, 23), oltre la tradizione dell'origine paolina della lettera. Questa tradizione merita rispetto, per quanto non sia facile determinare la parte ch'ebbe l'apostolo nella lettera. Si può pensare che, mentre Paolo era in prigione (XIII, 19), uno dei suoi intimi redigesse la lettera a nome di lui che voleva mandare prima del finire della vita l'ultimo pensiero ai suoi connazionali. Il nome del redattore ci sfugge, cancellato nella tradizione dal nome dell'apostolo. Fra quelli suggeriti: Barnaba, Luca, Apollo, Clemente, Aristione, Sila, offre maggiori verosimiglianze Apollo.
Bibl.: Ancora utile: J. G. Carpzow, Sacrae exercitationes in S. Pauli Epistolam ad Hebraeos ex Philone Alexandrino, Helmstadt 1750. Fra i recenti: Westcott, The Epistle to the Hebrews, Londra 1889, 2ª ed., 1892; A. Schaefer, Erklärung des Herbräerbriefes, Münster in W. 1893; B. Heigl, Verfasser u. Adresse des Briefes an die Hebräer, Friburgo in B. 1905; Fr. Dibelius, Der Verfasser des Hebräerbriefes, Strasburgo 1910; B. Weiss, Der Hebräerbrief in zeitgeschichtl. Beleuchtung, in Texte u. Unters., XXXV, Lipsia 1910; H. Holzmeister, Zum Eingang des Hebräerbriefes, Innsbruck 1913; L. Méchineau, L'Ep. agli Ebrei secondo le risposte della Commissione biblica, in Civiltà catt., 1917; M. del Medico, L'auteur de l'Épître aux Hébreux, Rom 1914; J. Moffatt, Hebrews, in Int. Crit. Comm., Edimburgo 1924; E. Menégoz, La théol. de l'Épître aux Hébreux, Parigi 1894; F. Prat, La théol. de S. Paul, 10ª ed., Parigi 1924; M. L. MacNeile, The Christology of the Epistle to the Hebrews, Chicago 1914; B. H. Streeter, The primitive Church, Londra 1929, H. Windisch, Der Hebräerbrief, Tubinga 1931.