Les bonnes femmes
(Francia/Italia 1959, 1960, Donne facili, bianco e nero, 104m); regia: Claude Chabrol; produzione: Robert Hakim, Raymond Hakim per Paris Films/Panitalia; soggetto: Claude Chabrol; sceneggiatura: Paul Gégauff; fotografia: Henri Decaë; montaggio: Jacques Gaillard; scenografia: Jacques Mély; musica: Paul Misraki, Pierre Jansen.
Ritratto di quattro commesse parigine tra illusioni e mediocrità, con tragedia finale: Jane, attendendo il fidanzato impegnato nel servizio militare, cerca di godersi ogni istante della vita; Ginette, dietro la seriosa vita diurna, nasconde un'attività di cantante in un locale di second'ordine; Rita ambisce a sistemarsi tranquillamente col figlio di un droghiere; Jacqueline crede di aver trovato il grande amore in un motociclista galante, ma viene da lui strangolata.
È un film che fece scandalo. In occasione della sua prima proiezione pubblica, Claude Chabrol non solo fu fischiato, ma dovette essere protetto fisicamente dagli spettatori furiosi che volevano aggredirlo. Oggi un simile accanimento può risultare incomprensibile, se non addirittura ridicolo. Ma il fatto che anche L'âge d'or di Luis Buñuel (1930) o La règle du jeu di Jean Renoir avessero suscitato reazioni del genere dimostra fino a che punto il film desse fastidio. Perché? Non tanto per il soggetto, quanto piuttosto per il modo in cui esso viene affrontato. Chabrol, descrivendo il quartiere delle chincaglierie e dei negozi di articoli casalinghi o sanitari tra République e Bastille, fornisce un ritratto privo di compiacimento di una Parigi brutta e che abbrutisce, una Parigi più provinciale della provincia. Ritorna qui quell'immagine di un mondo cupo e sordido, popolato di personaggi miserabili o disprezzabili, che aveva fatto la fortuna del cosiddetto cinema francese di qualità degli anni Cinquanta. Se non che, per Chabrol, gli esseri umani non sono ignobili o deboli per natura, ma per cultura. E questa visione delle cose cambia tutto.
Il regista ci propone uno sguardo sociologico dalla forte connotazione politica, tanto più insidioso ‒ e quindi scioccante ‒ proprio perché camuffato: si tratta di ritrarre la piccola gente che fa il suo ingresso nella società dei consumi, quella degli anni Sessanta di De Gaulle. Les bonnes femmes, che testimonia questo mutamento, inizia e finisce con l'immagine del globo di un dancing che, girando su se stesso, riflette e restituisce sotto forma di molteplici raggi la luce, intrappolata in questa sorta di specchietto per le allodole. Lo stesso accade ai personaggi del film, in particolare alle quattro commesse del negozio di elettrodomestici (all'epoca il non plus ultra nell'ideale di felicità legata al comfort), che si lasciano trascinare con gioia nella trappola di un materialismo dove tutto sembra regalato, ma nulla è gratuito. Lo sguardo del regista è dunque morale. Esso si manifesta brutalmente nella scena dello zoo, dove nobiltà e bellezza sono appannaggio esclusivo degli animali in gabbia. La bruttezza, la volgarità e soprattutto la stupidità sono invece prerogativa dei visitatori umani che li prendono in giro. Chabrol capovolge la situazione, osservando gli uomini come se fossero gli ospiti dello zoo. Il tratto impone una visione caricaturale, immediatamente cancellata da una scrittura che si propone come realistica e ordinaria, nello stile della Nouvelle vague cui Chabrol appartiene. L'irritante dissonanza provocata dalla commistione di queste due posizioni è una delle ragioni della reazione del pubblico di allora. Ed è lo stesso motivo per cui La règle du jeu di Renoir fu violentemente contestato nel 1939.
Chabrol accentua questo disagio mostrando il vuoto intellettuale, affettivo e sessuale dei suoi personaggi. Tutti cercano di colmarlo, ma il ridicolo tentativo di sfuggire a una tetra e disperante realtà è destinato al fallimento, in assenza di strutture sociali e culturali. Il sogno è solo una fantasticheria. Sopravvive una mediocrità che trova rifugio, quasi una protezione vitale, nella volgarità. Chabrol appartiene a quella categoria di autori per i quali la cosiddetta volgarità, lungi dall'essere contraria ai buoni costumi estetici, accede al rango della bellezza. Si tratta di una reazione difensiva, di una stimolante scappatoia alla miseria morale generalizzata. Diviene allora logico e necessario che la vittima designata sia la commessa troppo sensibile, che aspira a un mondo ideale dove tutto è bellezza, purezza e delicatezza. L'illusione del grande amore romantico è la causa del delitto, o meglio, lo invoca.
Il racconto non procede su eventi organizzati, ma su perdite di tempo. La successione delle sequenze si snoda in scene costruite unicamente sulla loro inutilità rispetto al crescendo drammatico. Avremo quindi il dancing, il giro in macchina, la piscina, lo zoo, il pranzo di fidanzamento. Ma sono soprattutto le scene del negozio a fondarsi sul senso di una presenza vissuta come assenza, di una vacuità assoluta. La visione, da morale, diviene metafisica. Tutto finisce inghiottito in una disperante staticità. Il futuro è una scommessa che in fondo a se stessi si riconosce come inutile, e provoca azioni miserabili o velleitarie: diventare cantante, sposarsi in vista di una trascurabile e ridicola ascesa sociale, vivere il grande amore. La sola soluzione consiste nell'accettare la vacuità del mondo, nel sottomettersi alla realtà imposta dalla società e dalla sua economia di mercato, nell'abbandonarsi al materialismo più basso e godersi grossolanamente ogni istante di vita, come fa il personaggio interpretato da Bernadette Lafont.
Il tono del film ricorda le dissonanze della musica contemporanea. Impossibile sfuggire alla sua asprezza e alla sua aggressività. Questa cattiveria, tuttavia, non è rivolta alle nostre quattro commesse. In quanto esseri umani, Chabrol le rispetta. Ma in una società commerciale che annienta ogni valore a parte quello del denaro, è normale che esse divengano facili prede del sistema. Per questo il regista le ritrae così come le vede: incolte, stupide, inerti, in poche parole indegne della rappresentazione riservata alla donna prima di questo film. Persino nei film popolari o nei ritratti delle malvage protagoniste dei gialli, sullo schermo la donna conserva sempre una certa nobiltà, negata in Les bonnes femmes, dove una delle protagoniste verrà eliminata proprio perché fingerà nobiltà d'animo e di sentimenti. Questo modo di trattare i personaggi spiega la reazione scandalizzata di una parte del pubblico. E costituisce oggi la ragione della longevità del film.
Interpreti e personaggi: Bernadette Lafont (Jane), Stéphane Audran (Ginette), Clotilde Joano (Jacqueline), Lucile Saint-Simon (Rita), Ave Ninchi (madame Louise, la cassiera), Pierre Bertin (Belin), Mario David (André Lapierre), Sacha Briquet (Henri), Claude Berri (André), Albert Dinan (Albert), Jean-Louis Maury (Marcel), Serge Bento (fattorino), Claude Chabrol (bagnante in piscina).
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