LEONE
Le origini e l'anno di nascita di L. non sono noti. Monaco, nel 981 divenne abate del monastero romano dei Ss. Bonifacio e Alessio sull'Aventino.
Il monastero, affidato quattro anni prima da papa Benedetto VII al metropolita Sergio di Damasco, suo primo abate, seguiva la regola benedettina ma accoglieva anche monaci basiliani, ed era un'istituzione prestigiosa all'interno dell'Urbe, nonché punto di incontro tra l'Occidente latino e l'Oriente bizantino. Nel 984 vi morì come monaco Crescenzio de Theodora, che aveva lasciato ai figli la guida della potente fazione cittadina da lui rappresentata.
Secondo una testimonianza dello stesso L., poco prima, probabilmente tra il 981 e il 983, nel monastero si era fermato anche il presbitero Giacomo, venuto a Roma per essere consacrato dal papa arcivescovo di Cartagine. Benedetto VII aveva allora inviato il presbitero presso L. perché fosse preventivamente vagliata la sua preparazione dottrinale, sulla quale evidentemente il papa era incerto a causa del declino e dell'isolamento del clero della Chiesa di Cartagine. Un altro personaggio che soggiornò nel monastero negli anni 990-992 e 994-996, prendendovi anche l'abito monastico sotto la guida spirituale di L., fu il vescovo Adalberto di Praga, uomo dalle forti inclinazioni mistiche che morì poi da martire nel corso della sua missione evangelizzatrice in Prussia. La sua Vita, nelle versioni redatte da due diversi autori, narra come al monastero sull'Aventino egli fosse giunto dietro consiglio e raccomandazione di Nilo da Rossano, molto amico di Leone.
Sotto il pontificato di Giovanni XV L. fu coinvolto in una annosa questione che preoccupava il Papato e sottrasse l'abate al suo monastero, temporaneamente affidato ad Adalberto di Praga.
Si era allora creato un profondo dissidio tra la Sede apostolica, da un lato, e, dall'altro, parte del clero di Francia e il re Ugo Capeto. Inizialmente, nel momento in cui si era resa disponibile la sede arcivescovile di Reims, il re aveva infatti favorito l'elezione ad arcivescovo di Arnolfo per conciliarsi il favore degli ultimi esponenti della dinastia carolingia, cui Arnolfo apparteneva e alla quale Ugo Capeto si era sostituito in Francia. Il nuovo arcivescovo non aveva però tardato a mostrare la sua propensione all'intrigo a vantaggio della vecchia dinastia spodestata, per cui nell'estate del 991, al concilio di Saint-Basle-de-Verzy, Arnolfo, su pressione del re e in modo anticanonico, fu deposto e sostituito da Gerberto d'Aurillac, il futuro papa Silvestro II, che aveva aspirato alla cattedra arcivescovile di Reims prima di Arnolfo. Questo modo di procedere rappresentava un abuso per il Papato, ma spiacque anche al Sacro Romano Impero, dove l'imperatrice Teofano, reggente per il figlio ancora minorenne Ottone III, aveva fino ad allora tentato di influire sul Regno di Francia proprio attraverso la persona dell'arcivescovo di Reims. Teofano, morendo al momento dell'apertura del concilio, lasciava l'Impero nelle mani dei tutori di Ottone III e dell'ava paterna del giovane imperatore, Adelaide, che non ebbero la possibilità di affrontare direttamente la questione. Tuttavia essi si sforzarono di dare tutto il loro appoggio al papa.
Nell'autunno del 991 Giovanni XV inviò allora in Germania come propri legati Domenico vescovo di Sabina e L., affidando in particolare a quest'ultimo il compito di indire e presiedere un nuovo concilio di vescovi francesi e tedeschi per la definizione della questione. Significativamente, l'anno seguente fu scelta Aquisgrana, città cara alla memoria dei Franchi, ma appartenente all'Impero germanico, come sede del concilio. L'iniziativa fu un completo disastro perché i vescovati di Francia non risposero alla convocazione, mentre L., constatato il fallimento, tornò a Roma. Giovanni XV convocò allora presso di sé i vescovi francesi responsabili della deposizione di Arnolfo di Reims, nonché gli stessi sovrani Ugo e Roberto Capeto. La risposta che ne seguì era quasi una provocazione (ma vedi contra Lair, p. 232): il papa fu invitato a sua volta a un incontro a metà strada, a Grenoble, dove per consuetudine, secondo Ugo Capeto, i papi incontravano i re di Francia (non si sa a quale tradizione si volesse con ciò alludere). Nella primavera del 993 L. forse era già partito per negoziare una soluzione con i Capetingi (Riché, 1987, p. 149; Huschner, pp. 587 s.), ma non vi sono notizie certe circa l'attività del legato papale per gli anni 993-994. Il fatto comunque che egli pensasse di poter regolare una questione riguardante l'episcopato di Francia senza abbandonare i confini dell'Impero germanico manifesta la stretta dipendenza del Papato dalla corte ottoniana e indisponeva i Capetingi, che irrigidirono le loro posizioni: l'episcopato francese, riunitosi a Chelles, confermò le risoluzioni prese sul conto di Arnolfo nel 991 con la dichiarazione della loro irrevocabilità. Ancora nel 994, per quanto si rendesse necessaria una risposta tempestiva, Giovanni XV temporeggiava: l'intervento papale nello scisma di Reims era stato in effetti condizionato quasi fin dall'inizio dalla grave situazione in cui si era trovato il papa a Roma dacché il controllo della città, dopo la morte dell'imperatrice Teofano nel 991, era passato nelle mani di Crescenzio Nomentano, che governava la città con durezza e teneva il papa in scacco. Agli inizi del 995 Giovanni XV ebbe la possibilità di inviare nuovamente L., nel quale evidentemente riponeva la più completa fiducia, quale legato in Germania per concertare, con il sostegno dei vescovi tedeschi, la convocazione dell'episcopato francese a un concilio che finalmente avesse un seguito. Con la convocazione di esso nel giugno del 995 a Mouzon, città nella provincia ecclesiastica di Reims anche se politicamente soggetta all'Impero, indubbiamente si era fatto un passo nella direzione giusta. La partecipazione dell'episcopato tedesco fu però assai ristretta e solo Gerberto d'Aurillac, come arcivescovo di Reims, era lì a rappresentare quello francese. Egli intendeva comunque, malgrado l'interdizione dei suoi sovrani, giustificare la propria condotta agli occhi di L. e mantenersi in buoni rapporti con il clero tedesco. Sarebbe stato solo allora, dopo che era già stata fissata per il luglio seguente la data della successiva riunione del concilio, che L. ebbe visione del testo degli atti del sinodo di Saint-Basle-de-Verzy nella versione accuratamente redatta da Gerberto d'Aurillac. Gli atti contenevano, tra l'altro, la rielaborazione di un discorso recisamente antipapale pronunciato in quella circostanza dal vescovo di Orléans, con l'intento di negare al pontefice romano il diritto all'intervento nelle questioni dell'arcidiocesi di Reims. Ci si sarebbe resi conto solo allora, da parte papale, che si trattava di una questione di principio, molto più grave delle circostanze che l'avevano generata. La reazione di L., pronta e decisa, si manifestò con una dura lettera per i re Ugo e Roberto (in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, III, a cura di G.H. Pertz, Hannoverae 1838, pp. 686-690; Oeuvres de Gerbert…, a cura di A. Olleris, Clermont-Ferrand 1867, pp. 237-243, CXLIX-CL).
In essa, sorvolando sulla posizione di Gerberto, L. riversava la responsabilità dello scisma di Reims sui sovrani capetingi e respingeva le accuse mosse alla Sede apostolica. Innanzi tutto, circa l'ignoranza rimproverata ai romani pontefici, L. con tono polemico antintellettualistico ribaltava l'argomento, affermando che la vera sapienza non è quella trasmessa da Platone, Virgilio o Terenzio, ma la semplicità evangelica di Pietro, il primo vicario di Cristo. Inoltre, la venalità di cui si accusava il Papato non sarebbe stata altro che il suo buon diritto di accettare doni dai fedeli, così come Cristo non ritenne sconveniente accettare i doni dei re magi. Infine, sarebbe stata falsa l'affermazione per cui la Sede apostolica, caratterizzata da quella presunta ignoranza e venalità, avrebbe perso prestigio e autorevolezza agli occhi delle Chiese orientali, d'Africa e Spagna: testimoniavano in senso contrario le ambascerie inviate a Roma fino a quel momento da quelle comunità cristiane per ottenere guida, consiglio e legittimità, come era stato il caso in particolare della missione di Giacomo, candidato all'arcivescovato di Cartagine, ospite nel monastero dello stesso Leone.
Dopo Mouzon, il sinodo si riunì di nuovo direttamente a Reims, nel luglio 995, ove sembra che lo stesso Arnolfo ebbe la possibilità di intervenire. Malgrado alcune fonti indichino questo concilio come risolutivo per la deposizione di Gerberto e la reintegrazione di Arnolfo come arcivescovo di Reims, la questione si trascinò fin dopo la morte di Ugo Capeto nell'ottobre 996 e il concilio di Pavia del febbraio 997, tenuto dal nuovo papa Gregorio V. Tale concilio prevedeva le sanzioni più gravi per l'episcopato francese e per il re Roberto, che per carattere e per ragioni personali era meno determinato del padre a tenere testa al papa. Gerberto comprese che la situazione stava cambiando e, lasciata la Francia, passò alla corte dell'imperatore Ottone III, ormai maggiorenne, ma pur sempre molto giovane e ben presto conquistato dalla personalità di Gerberto. Arnolfo dunque fu liberato e recuperò la sua cattedra arcivescovile.
Gregorio V aveva dovuto convocare il concilio di Pavia in quella città perché con una nuova sommossa Crescenzio Nomentano si era impadronito di Roma e aveva costretto il papa alla fuga. Nel febbraio-marzo 997 Crescenzio aveva poi convinto Giovanni Filagato, già arcivescovo di Piacenza e abate di Nonantola, a occupare con il nome di Giovanni XVI il trono papale, che pagò, prevedibilmente, con la scomunica da parte di Gregorio V e la spoliazione dei suoi titoli. Per il suo operato negli anni difficili dello scisma di Reims era cresciuto invece il favore di cui godeva L. presso la corte imperiale e lo stesso Ottone III: il 31 maggio 996 L. aveva infatti chiesto e ottenuto dall'imperatore un diploma che sanciva la conferma e l'ampliamento dei diritti e privilegi posseduti dal suo monastero sull'Aventino entro e fuori la città di Roma, fino ad Albano e Torre Astura. Sembrerebbe poi che poco dopo, entro il marzo 997, lo stesso L. fosse nominato abate di Nonantola al posto di Filagato.
L'identificazione tra un abate Leone di Nonantola, al quale è indirizzato un diploma di Ottone III del 25 marzo 997, con L., sebbene non certa, rimane tuttavia probabile (anche se taciuta o espressamente negata da autori del passato come Mabillon, p. 85, Nerini, p. 123; Tiraboschi, p. 100). Importante a questo proposito è un passo di una lettera di Pier Damiani a papa Nicola II (Die Briefe des Petrus Damiani) in cui l'autore, meditando di rinunciare al suo titolo di cardinale vescovo, cita vari personaggi che avevano spontaneamente deposto cariche o titoli ecclesiastici a loro spettanti, tra cui un Leone abate di Nonantola che, posto suo malgrado e quasi a forza a capo dell'abbazia, a stento sopportò di rimanervi un paio di anni per il suo temperamento mistico sempre più distaccato dal mondo, e poi volle ritirarsi senz'altro nel monastero romano dei Ss. Bonifacio e Alessio. Costui altri non sarebbe, quindi, che lo stesso L. abate di quel monastero ed ex legato papale che, dopo aver occupato per due anni, su richiesta di Ottone III, la posizione di abate di Nonantola, resasi vacante per la destituzione di Filagato, volle tornare, ormai vecchio e stanco, al suo monastero. Rimane tuttavia qualche dubbio per il fatto che Pier Damiani, alludendo rapidamente alla vita del personaggio da lui citato anche prima che divenisse abate di Nonantola, lo presenta come un uomo semplice, intento a svolgere una modesta attività di economo per il suo monastero, e non fa menzione alcuna delle importanti missioni condotte da L. come legato papale, né della sua posizione di abate del monastero sull'Aventino. Tiraboschi (p. 100), pertanto, preferiva identificare questo abate di Nonantola con un altro Leone, semplice monaco proveniente dallo stesso monastero sull'Aventino cui era preposto L., senza spiegare però perché proprio su di lui fosse caduta la scelta di farne l'abate di una delle più prestigiose abbazie dell'Italia centrosettentrionale. Forse Pier Damiani non esaltava il passato di L. abate all'Aventino semplicemente perché non era sua intenzione darne in quel contesto un profilo biografico, ma semplicemente citarne come esempio la modestia, tramandando l'ultima immagine che conosciamo di L., un uomo ormai tutto intento a meritarsi il compenso della vita eterna, morto nel suo monastero in odore di santità in data non precisata.
Sembra invece mancare di solido fondamento la diffusa convinzione per cui, dopo essere stato abate a Nonantola, L. avrebbe occupato per circa un altro biennio anche la cattedra di arcivescovo di Ravenna. Essa prende spunto dal fatto che nella serie degli abati di Nonantola tratta da un codice originario del monastero si legge: "Anno Domini 996. Leo archiepiscopus ordinatus est" (Catalogi abbatum Nonantulanorum), dove con archiepiscopus si intende, per anticipazione, che un Leone, ordinato abate nel 996 e lasciata poi la carica, avrebbe ottenuto successivamente un arcivescovato. Si è successivamente identificato tale abate Leone di Nonantola del 996-998 con un Leone attestato quale arcivescovo di Ravenna a partire dal 999 in quanto destinatario di un diploma di Ottone III di quell'anno. Così, in ultima analisi, L. abate del monastero sull'Aventino, già identificato con il Leone di Nonantola di cui parlava Pier Damiani, attraverso la voce della serie degli abati nonantolani appena citata, ha finito per essere identificato anche con l'arcivescovo Leone di Ravenna del periodo 999-1001. Al contrario, però, Pier Damiani in un passo successivo a quello già citato si riferisce proprio allo stesso arcivescovo Leone di Ravenna, l'unico con questo nome in quel periodo, come persona affatto diversa dall'abate Leone di Nonantola di cui aveva già parlato (e quindi, conseguentemente, diverso dall'abate dei Ss. Bonifacio e Alessio). Tale testimonianza, soprattutto in considerazione del fatto che Pier Damiani era originario di Ravenna e scriveva di eventi accaduti solo un sessantennio prima, non può essere ignorata (malgrado le argomentazioni di Tiraboschi, pp. 97 s., Mabillon, Nerini, pp. 123 s.; Die Briefe des Petrus Damiani, pp. 364 s., nn. 92, 95).
Bisogna ricordare, invece, che nell'elenco degli abati nonantolani cui si è fatto riferimento è attestata l'esistenza per il periodo 1000-02 di un altro abate sempre di nome Leone, ricordato così: "Leo abbas annos 2. Ordinatus anno Domini millesimo". Si dovrebbe forse identificare con quest'altra voce dell'elenco l'abate Leone di Nonantola di cui parla Damiani (e quindi lo stesso L. abate del monastero romano) cosicché non sarebbe necessario procedere alla sua identificazione successiva con un arcivescovo ravennate. Se ne ricaverebbe allora che L. divenne abate di Nonantola un po' più tardi rispetto alla data normalmente proposta, intorno al 1000, per lasciare tale carica nel 1002, quando era ancora vivo Ottone III, e uscire dalla scena pubblica, così come affermato da Pier Damiani.
Di L. non sono noti il luogo né la data di morte.
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