LEONE
La data di nascita e le origini di L. non sono note. Alla morte di Sergio arcivescovo di Ravenna nel 769, L., arcidiacono, era il candidato alla successione sul quale era confluita la maggioranza dei voti, soprattutto quelli del clero, quando imprevedibilmente riuscì a imporsi un laico, Michele scriniario della Chiesa ravennate, contro il dettato dei canoni, ma con il sostegno militare di Maurizio, duca della Pentapoli, e del re longobardo Desiderio.
Ravenna, da pochi anni sottratta con il territorio dell'Esarcato all'Impero bizantino dai Longobardi e poi ceduta al papa per intervento dei Franchi, aspirava a liberarsi dal controllo di Roma, alla quale opponeva il suo recente passato di capitale dell'Esarcato e l'ampia autonomia e i privilegi della sua Chiesa. In questo difficile contesto l'elezione di Michele era dovuta soprattutto all'aristocrazia ravennate e si combinava con l'intento di una fazione cittadina filolongobarda di opporre all'ingerenza papale il sostegno del re Desiderio.
L. fu allora tradotto a Rimini, dove fu tenuto prigioniero. Per un anno circa, pur senza riuscire a ottenere la consacrazione da Roma per via della sua elezione anticanonica, Michele tenne la cattedra di Ravenna, finché il pontefice Stefano III ottenne dai Franchi il loro diretto intervento per allontanarlo dalla città. L. poté allora rientrare a Ravenna per esservi reinsediato come arcivescovo: sembra infatti che formalmente fosse già stato eletto tale, almeno secondo la testimonianza rappresentata da una nota manoscritta a margine del Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis di Agnello Ravennate, e così pare indicare anche il fatto che fosse stato necessario per i suoi avversari trasferirlo forzatamente fuori Ravenna. La posizione di Stefano III rimaneva comunque debole nei confronti dell'arcivescovo L., il quale, per quanto ostile al re longobardo e quindi poco propenso ad accordarsi con lui, non per questo giudicava necessario rinunciare alla rivendicazione dell'autonomia della sua Chiesa e del suo diretto dominio sulle terre dell'Esarcato; egli non ritenne dunque inappropriato intitolarsi, nei suoi documenti, arcivescovo e primate della Santa Chiesa cattolica ravennate ed esarca d'Italia. Ancor più debole era la posizione dello stesso pontefice rispetto al re longobardo, alla protezione del quale Stefano III era dovuto ricorrere in occasione di gravi torbidi scoppiati a Roma durante il suo pontificato in un momento in cui il re dei Franchi non era disposto a intervenire.
La morte del papa e l'avvento di Adriano I nel febbraio 772 mutarono ben presto il precario equilibrio raggiunto dalle forze in campo. L'elezione di Adriano I segnava in particolare la sconfitta a Roma del partito filolongobardo, prevalente alla fine del precedente pontificato. Ciò che poi accadde al capo di quel partito, il cubiculario Paolo Afiarta, fu piuttosto il risultato di un conflitto ormai dichiarato tra il nuovo papa e l'arcivescovo di Ravenna: mentre Afiarta era in missione presso il re Desiderio, Adriano I fece condurre un'inchiesta sulla sua responsabilità riguardo a gravi fatti del pontificato precedente. Trovatolo colpevole, il papa ordinò a L. di arrestarlo allorché tornando dalla sua missione a Pavia egli sarebbe passato da Ravenna o Rimini. L. lo fece sì arrestare, ma di sua iniziativa lo fece anche processare a Ravenna dal magistrato competente. Adriano I inviò allora all'arcivescovo un documento con la proposta di punire Afiarta con il confino in Grecia, assegnando a L. stesso il compito di inoltrare la proposta agli imperatori a Costantinopoli e contemporaneamente consegnare loro l'inquisito; L. invece rispedì indietro il documento papale, sostenendo che era rischioso far imbarcare Afiarta nell'Adriatico settentrionale, dove il duca bizantino di Venezia avrebbe avuto la possibilità di impadronirsi di lui e inviarlo a Desiderio in cambio di un altro ostaggio. Da ultimo Adriano I ordinò che l'ex cubiculario fosse consegnato a un suo messo perché fosse almeno condotto a Roma, ma quando il messo effettivamente giunse a Ravenna per prelevarlo, L. lo aveva già fatto giustiziare.
Era stata evidente l'intenzione dell'arcivescovo di riaffermare l'autonomia della sua Chiesa da Roma, nonché la completa estraneità del territorio dell'ex Esarcato alla sovranità bizantina; al tempo stesso però L. sceglieva di sottrarre al controllo di Adriano I un individuo che, pur essendo alla testa della fazione romana in quel momento avversa al papa, poteva offrire l'occasione di un accordo tra Roma e il Regno longobardo in cui Ravenna si sarebbe trovata schiacciata. D'altro canto L. non doveva avere scrupoli nel sacrificare un personaggio vicino a Desiderio, perché il re stesso, dopo il suo tentativo fallito di assicurare la cattedra di arcivescovo di Ravenna a un uomo a lui favorevole, tornava a una politica militarmente aggressiva contro i territori dell'Esarcato e della Pentapoli per intimidire il papa. Nel corso del 772 invase l'Esarcato, occupando Faenza, Comacchio e il Ducato di Ferrara, e giunse a devastare il territorio intorno a Ravenna. Nel febbraio 773 Adriano I si risolse a chiedere l'intervento dei Franchi di Carlomagno, che prontamente invasero il Regno longobardo. L'assedio della capitale Pavia era ancora in corso quando Carlomagno si incontrò a Roma con il papa e, il 6 apr. 774, pronunciò in favore della Chiesa di Roma una promissio donationis: tra le altre concessioni territoriali veniva riconosciuto al successore di Pietro il possesso di Ravenna, dell'Esarcato e della Pentapoli.
Proprio in quel periodo, tuttavia, L. tentava di imporre sugli stessi territori la propria indipendente autorità a scapito di quella papale. Le sue mire si estendevano a Faenza, Forlimpopoli, Forlì, Cesena, Bobbio, Comacchio, Ferrara, Imola e Bologna, dove egli aveva sostituito gli amministratori papali con uomini di sua fiducia, e per sostenere la legittimità delle sue pretese inviò un'ambasceria a Carlomagno. Era dunque inevitabile lo scontro con il papa, che sul finire del 774 inviò una lettera al re dei Franchi per protestare contro l'operato di L. e invocare il suo intervento. Nel 775 L., per nulla intimidito, si recò in Francia da Carlomagno per perorare la sua causa. Da questo momento in poi il papa assunse un tono più circospetto, seguitando a rivendicare con fermezza i diritti della Chiesa di Roma secondo quanto promesso in precedenza da Pipino e Carlomagno, ma evitando di vituperare vanamente L.: era ormai forse chiaro al papa che l'arcivescovo di Ravenna godeva presso la corte franca di un credito che poteva essere intaccato solo con argomenti precisi. Ed egli subito ne trovò. Nell'ottobre del 775 Adriano I girò a Carlomagno una lettera inviatagli dal patriarca di Grado Giovanni, ma giunta a destinazione non senza che prima, secondo Adriano stesso, L. avesse avuto l'ardire di intercettarla e leggerla. La lettera conteneva informazioni che L. si sarebbe affrettato a comunicare al duca longobardo di Benevento e ad altri nemici del papa e dei Franchi. Con ciò Adriano I gettava sull'arcivescovo di Ravenna il sospetto di partecipare ai piani per una sollevazione longobarda contro i Franchi, poi effettivamente scoppiata nel 776; quanto alla situazione nell'Esarcato, sempre secondo la testimonianza di Adriano I, L., fattosi più arrogante che mai dopo il suo incontro con il re franco, impedì ogni comunicazione con il papa agli abitanti di Ravenna e delle città contese dell'Emilia, nelle quali vietò l'ingresso agli inviati papali, come nel caso del sacellario Gregorio cui non fu permesso di entrare a Bologna e a Imola; Domenico, un rappresentante di Adriano inviato per governare Gavello, era stato invece attaccato e catturato da milizie agli ordini di L. e poi condotto a Ravenna.
Gli appelli per l'intervento del sovrano erano destinati a rimanere sostanzialmente inascoltati, almeno per il momento. La posizione di L. agli occhi di Carlomagno doveva essere infatti piuttosto solida: in generale era nell'interesse del re franco di conservare il prestigio e l'influenza dell'arcivescovo di Ravenna per limitare le ambizioni papali nell'Italia centrale, intendendo il re ridimensionare per quanto possibile la portata della promissio donationis del 774. L. era ben visto alla corte franca avendo già dato prova di essere ostile alla causa dei Longobardi in occasione dell'esecuzione di Paolo Afiarta. Inoltre, secondo la testimonianza del cronista Agnello, riecheggiata da Alessandro Manzoni nella tragedia Adelchi, sarebbe stato proprio L. a inviare un messo, il diacono Martino, per indicare all'esercito di Carlomagno la strada più sicura per entrare in Italia attraverso le Alpi aggirando lo schieramento difensivo longobardo posto alla chiusa di San Michele in Val di Susa.
L. morì a Ravenna il 14 febbr. 777, senza che lo si potesse indurre a riconsiderare le scelte della sua politica in favore dell'autonomia della Chiesa ravennate.
Fonti e Bibl.: Agnello Ravennate, Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis, a cura di O. Holder Egger, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae 1878, cap. 160, p. 381; Codex Carolinus, a cura di E. Dümmler - W. Gundlach, ibid., Epistolae Merowingici et Karolini aevi, III, Berolini 1892, nn. 49, 53, 54, 55, 85; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955, pp. 477 s., 490 s.; G. Rossi, Storie ravennati, a cura di M. Pierpaoli, Ravenna 1996, pp. 241 s.; O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, pp. 643 s., 673-675; Id., Adriano I, in Diz. biogr. degli Italiani, I, Roma 1960, p. 312; P. Delogu, Il Regno longobardo, in Storia d'Italia (UTET), Torino 1980, p. 185; Id., Desiderio, in Diz. biogr. degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 376 s.; R. Savigni, I papi e Ravenna. Dalla caduta dell'Esarcato alla fine del secolo X, in Storia di Ravenna, a cura di A. Carile, II, 2, Ravenna 1992, pp. 336 s. e ad ind.; S. Cosentino, Prosopografia dell'Italia bizantina (493-804), II, Bologna 2000, pp. 278 s.