DATI, Leonardo
Nacque a Firenze, probabilmente nel 1408 (nell'autunno del 1407, se si accettano i dati forniti dal suo epitaffio), terzo figlio di Piero di Giorgio e di Zenobia Soderini.
I Dati - mercanti di modeste origini - non facevano parte del patriziato di maggior credito ma avevano raggiunto posizioni di prestigio con alcuni loro membri chiamati a importanti cariche pubbliche, e specialmente con i fratelli fta' Leonardo, generale dei domenicani e probabile autore del poema La sfera, e Gregorio o Goro di Stagio (morto nel 1435), noto per la Istoria di Firenze e per la cronaca del Libro segreto (contrariamente a quello che scrivono i biografi, questi due personaggi non erano zii ma solo lontani parenti del Dati). Piero di Giorgio non era ricco, ma doveva godere di buone relazioni sociali se poté sposare una Soderini, nipote del banchiere Niccolò da Uzzano.
Il D. fece i suoi studi di grammatica e retorica per il notariato con un impegno che significava piena adesione alla cultura unianistica e che lo portò giovanissimo a disporre di una biblioteca valutata in 30 fiorini nel 1427 e in 40 nel 1430 (Arch. di Stato di Firenze, Catasto, 64, c. 363v; 391 c. 380r). Nel 1430-31, quando era già notaio, seguì i corsi del Sozomeno nello Studio fiorentino; e più tardi, dopo il 1435, divenne "leguin doctor". Amico in quegli anni di Giannozzo Manetti, in stretti legami con Antonio Agli e con quei giovani di formazione umanistica che intorno a Niccolò Della Luna godevano della protezione degli Strozzi, forse seguì anche i corsi del Filelfo e di Carlo Marsuppini e fu ammesso ai convegni di S. Maria degli Angeli presso il Traversari, non senza frequentare più disinvolte compagnie come quella del Burchiello, che per un certo affare lo fece suo procuratore il 9 luglio 1431 (Mehus-Salvini, p. XXXIV). E sul Burchiello scrisse (allora o più tardi, non sappiamo quando) il noto distico con il malizioso giudizio ripreso poi dal Landino nella Xandra (Carmina omnia, a cura di A. Perosa, Florentiae 1939, p. 79). Le ambizioni letterarie conseguenti a questo tipo di studi e di amicizie lo indussero, forse dopo una breve esperienza professionale, a cercare un impiego nell'ambiente della Curia, e attraverso un giovane poeta latino suo amico, il camaldolese Gabriele Landino (un cugino del più famoso Cristoforo), si procurò l'appoggio del Traversari, che nel gennaio del 1432 parlò di lui al cardinale Giordano Orsini. Questi si mostrò disposto ad assumere al suo servizio il D., purché si facesse prete (lettera del 5 febbr. 1432 del Traversari a Gabriele Landino: Epistolae, II, col. 630). Così il D. abbracciò la vita ecclesiastica e andò a Roma, probabilmente nel giugno successivo. Più tardi il Traversari (10 febbr. 1433: Epistolae, IIcoll. 78) si mosse ancora in suo favore con una amichevole lettera al card. Orsini. A Roma il D. si trovò in una posizione favorevole e negli anni fra il 1432 e il 1434, come si vede dalle sue lettere latine all'amico fiorentino Matteo di Simone Strozzi (in Flarnini, L. di Piero D., pp. 82-94)., poté avvicinare umanisti di fama - come Antonio Loschi, il Poggio e Cencio dei Rustici - e godere della protezione dell'Orsini, che gli procurò un beneficio nel 1433 e nel settembre 1435 gli fece poi assegnare da Eugenio IV la pieve dei SS. Ippolito e Cassiano di Laterina con una entrata annua di 150 fiorini d'oro. In quei primi anni del soggiorno romano dovette avere inizio la sua stretta e durevole amicizia con l'Alberti, che gli dedicò allora una lettera di commento alla propria Vita S. Potiti (Opuscoli inediti, a cura di C. Grayson, Firenze 1954, pp. 86 s.). E a Roma il D. approfondì quell'interesse per la poesia, e in particolare per la poesia latina., che già si era manifestato negli anni degli studi fiorentini. Prima del 1432 aveva probabilmente scritto in latino una priapea con i versi salaci dei quali parla Lapo da Castiglionchio (che per qualche tempo fu con lui al servizio dell'Orsini) in una sua egloga (Della Torre, p. 296); nel dic. 1433 spedì a Matteo Strozzi un carme latino (a noi non pervenuto) sulla cerimonia romana del 31 maggio per l'incoronazione dell'imperatore Sigismondo. Agli anni successivi è probabilmente da assegnare il poemetto, pure in latino, su s. Girolamo, forse composto con qualche riferimento alla Vita S. Potiti dell'amico Alberti e dedicato a un interlocutore dei suoi Libri profugiorion, Niccolò di Vieri de' Medici.
Quando la Curia si spostò a Firenze, nel giugno 1434, a causa della guerra che dilagava nel Lazio e minacciava la stessa Roma, il D. dovette tornare nella sua città con l'Orsini, che seguì probabilmente anche al concilio di Ferrara nel febbraio del 1438. Con lui rimase fino alla morte dell'Orsini, avvenuta il 29 maggio successivo. In questo soggiorno fiorentino dovette conoscere e frequentare il giovane Pietro Barbo (il futuro Paolo II, la cui educazione lo zio Eugenio IV aveva affidato ad Antonio Agli) e seguire quelle dispute dei segretari pontifici delle quali parla il Biondo nel De verbis Romanae locutionis. Delle sue amicizie di questi anni ci resta il ricordo in un epigramma per Ciriaco d'Ancona e nella dedicatoria che Lorenzo prete pisano scrisse per il suo Enchiridion (Mercati, p. 84). Doveva essere allora sempre in contatto con l'Alberti, cui restò legato anche dopo il suo passaggio a Ferrara, nell'estate del 1438, "in pestilentiae tempore" (lettera a Bernardo Orsini del 10maggio 1442, in Mehus-Salvini, pp. 2 s.), al servizio del cardinale Francesco Condulmer, un altro nipote di Eugenio IV che godeva di grande autorità per la sua carica di vicecancelliere della Chiesa. Con il Condulmer seguì probabilmente i lavori del concilio di Firenze (gennaio-luglio 1439). E di lì a non molto, nel 1441, partecipò in stretto accordo con l'Alberti alla preparazione del certame coronario, la celebre gara di poesia volgare indetta dallo Studio fiorentino sul tema dell'amicizia, con il sostegno finanziario di Pietro di Cosimo de' Medici.
Sollecitati anche dalle dispute sulla lingua latina ricordate nello scritto del Biondo, l'Alberti e i suoi amici volevano promuovere una letteratura volgare adeguata ai canoni della nuova cultura. Con questi propositi il D. recitò nel duomo di Firenze, il 22 ott. 1441, alla presenza della Signoria e dei segretari pontifici chiamati a giudicare dei poeti in gara, una scena De amicitia nella quale (forse per la prima volta nella storia letteraria italiana) venivano applicati al volgare schemi metrici latini. La scena comprendeva due parti in esametri condotti su modelli antichi, una terza parte costituita da un'ode saffica e un sonetto di chiusa che forse non venne recitato e fu aggiunto in un tempo successivo. Della prima si ha una versione latina attribuita al D. nel ms. 1142, ff. 45v-48r, della Bibl. Riccardiana di Firenze. Nella scelta dei metri e nel tono della composizione si rivelano l'interesse per il volgare ma anche la formazione chiaramente umanistica del D., insieme con una certa disarmonia fra temi tipicamente classici e spunti cristiani. Dopo la gara, il D. premise ai suoi versi un lucido proemio in volgare che si distingue per i pregi stilistici e per le informazioni di commento sul carattere della sua poesia.
La scena De amicitia piacque molto e per comune opinione fu ritenuta il migliore dei componimenti del certame; i giudici però la trovarono per qualche parte manchevole e non degna del premio - una corona d'argento -, che venne donato alla chiesa di S. Maria del Fiore. Ma l'interesse popolare fu assai intenso e il solenne convegno del 22 ott. 1441 non mancò di suscitare polemiche, alimentate anche da una Protesta (Gorni, Storia, pp. 167-72) attribuita all'Alberti che accusava i segretari pontifici di ambigua "invidia" per il volgare. Quasi insistendo su questi temi, lo stesso Alberti tributava poco dopo, nei suoi Profugiorum libri ... (p. 144), un calorosissimo elogio al D., che intanto aveva preparato fra la fine del 1441 e i primi mesi del 1442, in vista di una seconda gara del certame coronario che poi non si fece, l'Hiensal: una composizione in versi modellata sulle opere di Seneca che ha più il carattere di "una disputa filosofica versificata che non di una tragedia" (Perosa, p. 15).
L'Hiensal trattava dei perniciosi effetti dell'invidia, argomento del secondo certame, e suscitò perplessità nel Bruni, al quale sembrava più utile vituperare la stoltezza, come scrisse al D. in una lettera (Epistolarum, II, pp. 152 ss.), che l'Alberti credette rivolta contro di lui e frutto di un malevolo suggerimento di Carlo Marsuppini (ibid., pp. 157 s.). Dell'Hiemal possediamo solo una redazione latina: si è discusso a lungo dell'esistenza di una redazione in volgare oggi scomparsa. La questione è tuttora controversa, perché non restano testimonianze su questa supposta stesura originale; il Berrigan, contrario all'ipotesi del testo volgare, ricorda (p. 89) che un altro testo in latino fu preparato per il secondo certame dall'umanista Lauro Quirini. Altri ritengono che il D. avesse scritto la sua tragedia in latino con il proposito di tradurla poi in volgare.
Con le polemiche sul certame coronario è connessa anche una lettera latina che il Della Luna inviò al D. poco dopoil 22 ott. 1441 (Gorni, Storia, pp. 172 ss.) per esprimergli la sua ammirazione e per fargli avere una breve orazione in volgare sull'amicizia (ibid., pp. 174-78). Quella lettera e la risposta che ebbe il Della Luna (ibid., p.179) possono far pensare ad un nuovo soggiorno romano del D. che forse non vi fu. Probabilmente, invece, il D. rimase in Toscana o addirittura nella stessa Firenze, dove verso la metà di novembre deve essere avvenuta la sua rottura con il Condulmer, che lo licenziò bruscamente dopo averlo tenuto al proprio servizio per oltre tre anni. La data del licenziamento risulta dalla già ricordata lettera del D. a Bernardo Orsini del 10 maggio 1442, nella quale diceva di aver lasciato il cardinale ormai da sei mesi e di essere stato vittima della sua ingratitudine. Non conosciamo i particolari di questa vicenda che ebbe gravi conseguenze per lui e dovette attirargli anche lo sdegno di Eugenio IV. A Firenze, dove era titolare della parrocchia di S. Cristoforo in corso Adimari, il D. godeva di condizioni economiche modeste ma non proprio difficili: non pare infatti che la miseria lo abbia spinto a copiare codici a pagamento, almeno a giudicare dalla sua lettera a Fernando Filippo dell'8 maggio 1443 (MehusSalvini, pp. 11 s.). Il brusco allontanamento dall'ambiente di Curia, tuttavia, lo aveva certo deluso e sconvolto.
Non si rassegnò alla sfortuna e negli anni successivi fece di tutto per uscire dall'isolamento fiorentino. Continuò la sua attività letteraria e scrisse due egloghe, Mirilta e Chirlo, e il Trophaeum Anglaricum, un carme eroico di 500 esametri in cui descriveva "con virgiliana eleganza di stile e di immagini" (Rossi, Il Quattrocento, p. 245) la battaglia di Anghiari (29 giugno 1440) e soprattutto cercava di esaltare i meriti che il cardinale Ludovico Scarampi, suo nuovo protettore, aveva avuto nella vittoria conseguita in quella giornata dall'esercito fiorentino-papale. Mise inoltre in versi latini quaranta Favole di Esopo, cui aggiunse una dedica al protonotario Gregorio Correr degna di essere ricordata perché in essa affermava di non conoscere il greco ("non mihi littera graeca est"). Fino alla primavera del 1443 ebbe certamente frequenti contatti con l'Alberti, che partendo per Roma con la Curia mandò in visione a lui e a Tommaso Ceffi i libri Della famiglia. Il 6 giugno il D. rispose all'Alberti, a nome suo e dell'amico, con una lettera (Mehus-Salvini., pp. 18 ss.) nella quale in sostanza gli raccomandava di evitare toni ed espressioni troppo influenzati dal latino e di mantenere uno stile adeguato alla natura del volgare. Sui rapporti intercorsi fra il D. e Vittorino da Feltre abbiamo qualche testimonianza nelle sue lettere (ibid., pp. 13 s., 39-42) e nella dedica [1443] premessa da Sassolo da Prato al suo De Victorini Feltrensis vita ac disciplina (Garin, Ilpensiero pedagogico, pp. 504-11). Al centro dei pensieri del D. era però sempre il desiderio di procurarsi appoggi e di riavere un posto a Roma. A Eugenio IV si rivolse con una lettera del 29 maggio 1443 (Mehus-Salvini, pp. 26 s.) in cui chiedeva umilmente di essere perdonato e sollevato dalla vergogna ("ne ... ipse et sim et videar opprobrium hominum et abiectio plebis"), e con un carme con il quale altrettanto umilmente pregava il papa di aver pietà della sua sfortuna (Flamini, L. di Piero D., p. 20). Amici come l'Alberti e Girolamo Aliotti e personaggi influenti come il cardinale Scarampi l'arcivescovo di Firenze Bartolomeo Zabarella, il vescovo di Rimini Cristoforo da S. Marcello e il segretario di Eugenio IV Bartolomeo Roverella cercarono di aiutarlo, ma senza grandi risultati. L'appoggio decisivo, a quel che sembra, gli venne invece da casa Medici nel 1445. Nel novembre di quell'anno il D. era a Roma con una pressante raccomandazione di Giovanni di Cosimo il Vecchio per Roberto Martelli, direttore della filiale romana della banca Medici. Il 27 novembre il Martelli rispose a Giovanni che avrebbe fatto il possibile per aiutare il D., anche se la cosa non si presentava facile ("Per quello fantastico di messer Lionardo Dati ho avuto la tua ... io farò con parole e con facti verso di lui ... È persona intendente ma quella sua disgrazia non è bene purificata per ancora": Rossi, L'indole, pp. 43 s.). E nonostante il perdurare degli effetti di "quella disgrazia" (una condizione evidentemente molto nota che doveva risalire alla rottura del 1441 con il Condulmer o ad altra vicenda che non conosciamo), verosimilmente per un intervento del Martelli il D. riuscì poco dopo ad ottenere un posto presso il cardinale spagnolo Alfonso Borgia (lettere dell'Aliotti, dicembre 1445: Epistolae, I, pp. 150 s., e del Della Luna, 1 genn. [1446]: Mehlas-Salvini, pp. XXIIXXV).
Il Borgia, cardinale dal 1444, era molto legato alla corte di Napoli, alla quale aveva reso importanti servizi; questo spiega perché mentre era con lui il D. scrivesse (in uno spirito che non poteva non apparire ostile ai Medici) un'elegia piena di adulazione cortigiana per il re Alfonso d'Aragona e un carme Ad Florentinos che sembra rivolto ad illustrare i meriti di quest'ultimo proprio durante la sua impresa del 1447 contro la Toscana. Questa attività letteraria che si esprimeva per lo più in scritti d'occasione e si accompagnava con curiosità e interessi di altra natura (come ci ricorda la copia di sua mano, datata 1448, del De temporibus del Palmieri conservata nel ms. Laurenziano LXV- 46) si intensificò durante il pontificato di Niccolò V, al quale egli dedicò vari componimenti non privi di tratti vivi ed efficaci: l'Epistola de elevatione boni genii, dopo la congiura del Porcari del gennaio del 1453, il poemetto di 300 versi Ad Nicholaum V in Mahomet regem Turcorum (cfr. Black, p. 232), un carme Ad Nicholaum papam V sul rinnovamento edilizio di Roma, e infine i distici Supra tumulum Nicolai V.
Forse queste operette ebbero qualche risonanza, perché, pur rimanendo sempre piuttosto in ombra, il D. nel 1450 aggiunse ai precedenti benefici di cui godeva anche la pieve di S. Agata del Mugello e non molto dopo dovette conseguire un avanzamento decisivo ottenendo, probabilmente con l'aiuto del cardinale Barbo, un impiego in Curia in una carica minore (non in quella di segretario apostolico, come erroneamente ritengono il Voigt [Il risorgimento, II, p. 77] e il Pastor II, p. 493; cfr. Marini, I, p. 164]). Il suo accesso a questo impiego pare confermato da un passo dei Dialogi humilitatis di Lorenzo prete pisano (Mercati, p. 99), dove egli viene ricordato come "servus" di Niccolò V. Lo nominò segretario pontificio - probabilmente per premiarlo dell'azione svolta nelle settimane precedenti come conclavista del cardinale Barbo il 10 apr. 1455 Callisto III Borgia, che gli assegnò anche il diritto ad accedere, non appena si fosse reso libero un posto (come poi avvenne nel maggio 1456 per la rinuncia di Pier Candido Decembrio), al grado di "partecipante" in cui si trovavano i sei segretari apostolici più autorevoli e meglio pagati (Hofmann, II, p. 113). Dalla benevolenza di Callisto III il D. ebbe inoltre la pieve di S. Leonardo di Cerreto Guidi, il 24 genn. 1457, e un anno dopo, il 30 genn. 1458, un canonicato nel duomo di Firenze con una prebenda di 24 fiorini (forse non era stato inutile l'intervento del governo fiorentino, che nel maggio del 1455 aveva esortato il papa a favorirlo con "qualche degnità e'beneficio splendido": Mehus-Salvini p. 59).
Questi progressi ci mostrano il D. sempre più seriamente preso da impegni di carriera che coinvolgevano in gran parte anche la sua operosità di poeta e di letterato. Nel 1457 scrisse un epitaffio satirico che ricordava con scarsa simpatia il carattere polemico del Valla ("censor perdurus in omnes"); nel 1459 in occasione del convegno di Mantova per la crociata contro i Turchi, compose un carme in cui esaltava i propositi di guerra di Pio II, e forse nella stessa occasione scrisse anche i versi Ad episcopum Atrebatensem in onore di Jean Jouffroy, vescovo di Arras e poi cardinale, che il Flamini giudica una delle sue cose migliori. Degli anni fra il 1458 e il 1460 sono i Gesta Porsennae, un'operetta in prosa che voleva illustrare le imprese di Baccus Piccolomo, un favoloso antenato dei Piccolomini: operetta che il D. finse di aver tradotto da un codice scritto da un Caio Vibenna di Montepulciano nella tarda antichità "sermone vulgari", cioè nel latino della decadenza (e non in lingua etrusca, come spesso si è detto senza tener conto della testimonianza che è nella dedicatoria a Pio II: Mehus-Salvini, pp. LXIII-LXV). Al decennio fra il 1450 e il 1460 sono poi probabilmente da assegnare venti esametri per un Grisus Grysellus che sembra sia da identificare con il fiorentino ser Griso Griselli noto per la sua lunga amicizia con Donato Acciaiuoli. Agli ultimi tempi del pontificato di Pio II appartiene infine uno dei lavori di maggior rilievo del D., quello che reca forse le maggiori testimonianze sulla sua cultura: il commento al poema volgare La città di vita del Palmieri, commento composto prima dell'estate 1464 (lettera dei D. al Palmieri del 21 agosto: Rooke, I, p. XXI) e intessuto di un ricco apparato di note letterali e di citazioni che rivelano, insieme ad un significativo interesse per un'opera in volgare, una notevole dimestichezza con gli autori (poeti e prosatori, ma anche filosofi) della piena e della tarda classicità.
Si è discusso fino dal Cinquecento sulle teorie origeniane e neoplatoniche intorno al destino delle anime accolte ne La città di vita e sulle reali intenzioni del Palmieri e del D., che nell'impresa ebbe una parte primaria (il codice più autorevole del poema, il Laurenziano XL 53, che non fu divulgato fino al sec. XVIII, reca fra l'altro, ai ff. 124r e 213V, due miniature con la sua immagine). Molti indizi fanno pensare che vi fosse nei due amici la coscienza di porsi fuori dell'ortodossia; l'opera dei Palmieri, come è noto, fu presto severamente censurata dall'autorità ecclesiastica; ma, almeno per quanto riguarda il D., non abbiamo sufficienti notizie sul suo carattere e su questo particolare momento della sua vita per sapere se egli, vecchio curiale e prossimo vescovo, abbia affrontato deliberatamente il rischio di sostenere principi che riteneva in aperto contrasto con le dottrine della Chiesa, o se invece non abbia avvicinato le fantasie poetiche del Palmieri senza intenderne pienamente la pericolosità.
Il commento a La città di vita conclude o quasi l'attività di umanista del D., perché dopo il 1464, pur nel perdurare dei suoi vecchi interessi (nel novembre 1467 acquistò un De civitate Dei di Agostino dagli stampatori tedeschi che da qualche mese operavano a Subiaco; cfr. T. De Marinis, in Encicl. Ital., XXXII, p. 914. s. v. Subiaco), dovette essere molto assorbito dai compiti del suo ufficio e si dedicò sempre meno alle fatiche letterarie. Si ricordano per quest'ultima epoca della sua vita un epigramma scherzoso (sicuramente anteriore al 1467) per Lorenzo di Piero de' Medici e alcuni inni sacri a noi non pervenuti che, secondo la testimonianza di Michele Canensi (De vita, p. 159), avrebbe composto per le cerimonie del 26 maggio 1468 volute da Paolo II per celebrare la pace seguita alla battaglia della Molinella. Forse scrisse poco anche a causa delle sue non buone condizioni di salute: nel 1470 sfuggì a stento alla morte per una gravissima malattia (Aliotti, Epistolae, I, p. 549).
L'elezione al pontificato, il 31 ag. 1464, di Paolo II (Pietro Barbo, suo vecchio protettore ed amico) fu un evento particolarmente fortunato per il Dati. In settembre o ai primi di ottobre di quello stesso anno il nuovo papa lo nominò suo "prinio segretario" (cfr. la lettera di complimento del Filelfo del 28 ottobre: Epistol. familiar., f. 161v), con la responsabilità di coordinare tutta l'attività connessa con la preparazione e la spedizione dei brevi. In quell'ufficio di direzione della segreteria apostolica, le cui competenze sarebbero state poi formalmente definite da Innocenzo VIII in una bolla del 31 dic. 1487, ebbe alle sue dipendenze in questi servizi Domenico Galletti e Sigismondo dei Conti. E a questa sua posizione di grande autorità facevano cenno la Signoria fiorentina in una lettera di raccomandazione a Paolo II redatta da Bartolomeo Scala il 22 nov. 1465 (Mehus-Salvini, pp. LIX s.) e in modo più dettagliato l'Alberti nel proemio scritto probabilmente nel 1466 per il suo De componendis cifris (Opera inedita, pp. 310 s.).
Altri riconoscimenti vennero al D. a breve scadenza dalla promozione ottenuta nel 1464: il 10 maggio 1466 il papa gli assegnò, con un reddito di 180 fiorini di Camera, la badia di S. Gennaro di Capolona che era rimasta vacante per la morte di Giovanni Tortelli (già suo amico, a giudicare dai distici che gli aveva dedicato alcuni anni prima), e il 17 ag. 1467 lo creò vescovo di Massa Marittima con facoltà di conservare i precedenti benefici, ad eccezione del canonicato nel duomo di Firenze che però passò ad un suo nipote, Giorgio di Niccolò Dati. Nell'autunno del 1470 Paolo II voleva nominarlo cardinale e dargli l'arcivescovato di Firenze, allora vacante.
La pratica era in corso da tempo e il D. aveva svolto un'abile e tenace azione per convincere Lorenzo de' Medici a far inviare a Roma la richiesta formale della Signoria che per consuetudine veniva formulata in casi del genere; ma Lorenzo gli scrisse il 22 novembre (Lettere, I, pp. 228 s.) che non poteva favorirlo perché si era impegnato con un altro candidato, l'arcivescovo di Pisa Filippo di Vieri de' Medici. Pare però che le ragioni del rifiuto stessero in una profonda ostilità che Lorenzo, in questo caso ormai estraneo ai vecchi legami personali dei suoi maggiori, nutriva nei confronti del D., considerato, nonostante i rapporti apparentemente cordiali, persona vicina all'opposizione fiorentina e un vecchio nemico della famiglia Medici. Forse influì nella vicenda anche l'avversione dello Scala, che il D. aveva aspramente criticato presso i suoi amici fiorentini per certe innovazioni adottate nelle formule della corrispondenza con il Papa (lettera dello Scala ad Alessandro Braccesi del 13 nov. 1470: Kristeller. An Unknown Correspondence, p. 353).
Il D. morì a Roma, probabilmente nei primi giorni di gennaio dell'anno 1472.
Questa congettura è confortata da testimonianze che la fanno preferire all'ipotesi del Cappelletti (seguito dal Flamini e da altri), secondo la quale sarebbe morto vari mesi più tardi. Il 10 genn. 1472 doveva essere vivo perché l'Aliotti gli indirizzò da Arezzo una sua lettera (Epistolae, I, p. 597); ma l'8 gennaio fu nominato suo successore nel vescovato di Massa Marittima Bartolomeo Della Rovere (Eubel, II, p. 187, dove la data del registro Obligationes et solutiones 83 dell'Archivio Vaticano è correttamente interpretata secondo lo stile della Natività e quindi cade nel 1472 dello stile moderno). La sua morte è ricordata infine in lettere dell'Ammannati del 18 gennaio (Epistolae, f. 222r) e dell'Aliotti del giugno successivo (Epistolae, I,p. 604). Nella iscrizione sulla lastra tombale (trasportata nella chiesa del Gesù alla fine del sec. XVI, dopo che era stata disfatta la sepoltura costruita nel chiostro di S. Maria sopra Minerva) si dice che il D. morì nel 1472 in età di 64 anni e due mesi (Ughelli Coleti, III, col. 723). Quindi se si ritiene valida questa notizia, presumibilmente dovuta a persona bene informata, e si accetta l'ipotesi secondo la quale il D. sarebbe morto ai primi di gennaio di quell'anno, si deve spostare la data della sua nascita all'autunno del 1407 e considerare le note delle portate catastali del 1427 (19 anni) e del 1430 (22 anni) come indicazioni degli anni già compiuti da alcuni mesi al momento in cui vennero compilate.
Il D. ebbe nel sec. XV fama di buon poeta e godette di un credito di cui si sente larga eco negli eruditi del Settecento. Più tardi questi giudizi tradizioriali vennero respinti dal Voigt, che lo definì un mediocre poetastro, e dalla maggior parte dei critici (il Burckhardt non gli dedicò neanche una citazione), fino al saggio del 1890 del Flamini, che vide invece in lui il maggior poeta latino della Toscana del primo Quattrocento. Salvo qualche rara nota di consenso, il giudizio del Flamini è rimasto piuttosto isolato e solo negli ultimi anni si sono avuti segni di attenzione per la poesia latina del D. con la edizione dell'Hiensal a cura del Berrigan. Nel 1976 il Contini ha peraltro scritto (Letteratura italiana, p. 118) che le prose e le poesie latine del D. sono "atte a interessare unicamente gli eruditi".
La scena De amicitia è stata valutata molto favorevolmente di recente ad opera del Cardini e del Gorni, che la ritiene "il prodotto più originale e nuovo del primo Quattrocento toscano, dopo l'esperienza del Burchiello" (Storia..., p. 154).
Il commento a La città di vita del Palmieri, illustrato e in piccola parte pubblicato dal Bandi - nel sec. XVIII e dal Boffito nel 1901, è stato considerato con molta attenzione dal Garin, che in più occasioni ne ha parlato per esaminare l'atteggiamento del D. a proposito degli spunti origeniani e neoplatonici dei quali si occupò con spirito tutt'altro che ostile.
Opere: Distico per il Burchiello: più volte citato dopo la prima -ediz. di G. M. Crescimbeni, Dell'istoria della volgar poesia, III,Venezia 1730, p. 255, Si legge ora in D. De Robertis, Una proposta per il Burchiello, in Rinascimento, s. 2, VIII (1968), p. 4; epigramma per Ciriaco d'Ancona: in Kyriaci Anconitani Itinerarium, a cura di L. Mehus, Florentiae 1742, pp. 5 s.; scena De amicitia: dopo la prima ediz. in Opere volgari di L. B. Alberti, a cura di A. Bonucci, I, Firenze 1843, pp. CCXVI-CCXXIX, fu ripubblicata dal Carducci, La poesia barbara nei secc. XV e XVI, Bologna 1881, pp. 5-21, e da altri, e si legge ora in Lirici toscani del Quattrocento, a cura di A. Lanza, I, Roma 1973, pp. 396-406; Hiensal tragoedia: in J. R. Berrigan, L. D.: Hiensal tragoedia. A critical edition with translation, in Humanistica Lovaniensia, XXV (1976), pp. 85-145; egloga Mirilta: in F. Flamini, L. di Piero D. poeta latino del sec. XV, in Giorn. stor. d. letter. ital., XVI (1890), pp. 104-07; egloga Chirlo: in L. Cisorio, Un'egloga latina inedita di L. D., Pontedera 1893; elegia Ad Alphonsum regem Aragonum: in A. M. Bandini, Catalogus codicum manuscriptorum Bibl. Mediceae Laurentianae, III,Florentiae 1776, col. 631; versi Ad pontificem maximum (Eugenio IV), distici Supra tumulum Nicolai V, epitafflo satirico per il Valla: in Flamini, Cit., pp. 20 s., 63-65.
Inediti (nei mss. più noti; per gli altri v. P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Ind.): Carmen in laudem praestantissimi Hieroctymi Ecclesiae luminis (la dedicatoria a Niccolò dei Medici è in Mehus-Salvini, p. XLII), carme Ad Florentinos, Trophaeum Anglaricum (185 versi ne pubblica il Flamini, cit., pp. 49-56, 101-04), priapea databile prima del 1432, Carmen ad Nicholauni V in Mahomet regem Turcoruni (65 versi in Flamini, cit., pp. 65-70); carme Ad Episcopum Atrebatensem (Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 1207, ff. 36v-38v, 42rv, 47v-58r, 62rv, 63r-70r, 70v71v); carme a Pio II per la crociata contro i Turchi (Ibid., ms. 915, f. 231v); esametri dalle Favole di Esopo Ad Gregorium Corradum [sic] Venetuni (Firenze, Bibl. Medicea Laurenziana, ms. XC Sup. 90, ff. 177r-185v); commento al poema La città di vita di Matteo Palmieri (Ibid., ms. XL. 53; la pre generale con le notizie biografiche sul Palmieri e il commento al primo capitolo del primo libro del poema furono pubblicati dal Bandini, Catalogus, cit., V, Florentiac 1778, coll. 79-95; altri passi sono in G. Boffito, L'eresia di M. Palmieri "cittadino fiorentino", in Giorn. stor. d. letter. ital., XXXVII [1901], pp. 6 s., II, 24-27, 34-37, 42 s.); epigramma a Lorenzo de' Medici (Ibid., Acquisti e doni, ms. 82, ff. 54v-55r); L. Dati ad Pium II in gestis Porsennae regis per C. Vibennam conscrzpta sermone vulgari et in Latinum traducta (Siena, Bibl. comunale, ms. K. VI. 97; la dedicatoria a Pio II è in Mehus-Salvini, pp. LXIII-LXV); Epistola ad Nicolaum papani V de elevatione boni genii (Bibl. Apost. Vaticana, Mss. Chigi J. V. 194, f. 33r); distici per il Tortelli (Berna, Bibl. Bongarsiana, ms. 527, ff. 15v-25v).
Lettere: I. Ammannati Piccolomini.1 Epistolae et commentarii, Mediolani 1506, ff. 137v-138r 31 ag. 1467); L. Dati Epistolae XXXIII, rec. L. Mehus, qui Leonardi vitani a D. Salvino Salvino Italice scriptam edidit et Praefationem adiecit, Florentiae 1743, pp. XLI, XLIX-LI, LVII s., 1-60 (a diversi, [1441]-1446, 1464-1467); H. Aliotti, Epistolae et opuscolai I, Arretii 1769, pp. 373-76 (15 genn. 1468); F. Flamini, L. di Piero D., Cit., pp. 82-100 (17 lettere a Matteo di Simone Strozzi, 1432-1434; 10 lettere a Giovanni e a Piero di Cosimo e a Lorenzo di Piero de' Medici, 1456-1471); G. Gorni, St. del Certame coronario, in Rinascimento, s. 2, XII (1972), p. 179 (a Niccolò Della Luna [1441]); Script. Florent. I, a cura di A. M. Fortuna-C. Lunghetti, Firenze 1977, tavv. XXIX s. (due lettere a Giovanni e Piero di Cosimo de' Medici, 1456, 1464). Le lettere scambiate dal D. col Palmieri fra il 21 ag. 1464 e il 4 apr. 1460, già note in più edizioni., sono state ripubblicate: in M. Palmieri, Libro del poema chiamato "Città di vita", a cura di M. Rooke, I, Northampton, Mass., 1927, pp. XXI s. Lettere al D.: Francisci Philelfi... Epistolarum familiarum libri XXXVII, Venetiis 1502, ff. 161v, 204v, 208r, 211rv; I. Ammannati Piccolomini, Epistolae, cit., ff. 167rv, 230v; Leonardi Bruni Arretini Epistolarum libri VIII, II,Florentiae 1741, pp. 152 ss. (cfr. F. P. Luiso, Studi su l'epistolario di L. B., a cura di L. Gualdo Rosa, Roma 1980, p. 152); L. Dati Epistolae XXXIII, cit., pp. XIX-XXVIII, LV s. LXI; H. Aliotti, Epistolae, cit., passim; G. Gorni, Storia, cit., pp. 172 ss.; Lorenzo de' Medici, Lettore, I,a cura di R. Fubini, Firenze 1977, pp. 228 s.
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