PAOLAZZI, Leo
(Antonio Porta). – Nacque a Vicenza il 9 novembre 1935 da Anna Trentini, di famiglia benestante, e da Pietro Antonio, futuro proprietario della casa editrice Rusconi e Paolazzi.
Il nonno paterno, Bonfilio, svolse attività politica come deputato eletto nelle file del Partito popolare trentino e divenne sacerdote dopo la morte della moglie.
Paolazzi ricevette un’educazione fortemente cattolica dai genitori, che nel dicembre 1936 si trasferirono a Milano, dove il 16 febbraio 1937 nacque il fratello Mario (che morì per incidente di moto il 9 settembre 1975). Cresimato dal cardinale Ildefonso Schuster il 12 maggio 1946, frequentò il liceo-ginnasio parificato Leone XIII, dove ebbe come insegnante di filosofia Luciano Anceschi. Da studente partecipò alla squadra nazionale juniores di tennis. Compiuti gli studi universitari presso la Cattolica di Milano, vi si laureò in lettere moderne il 10 novembre 1960 con una tesi su La poesia di d’Annunzio verso il Novecento (relatore Mario Apollonio). Il 24 agosto 1957 sposò Emilia Alba (Lietta) Meneghelli, con rito religioso celebrato da don Luigi Villa (dal matrimonio nacquero Luca, nel 1958, e Monica, nel 1959).
La formazione cattolica fu considerata dai compagni di percorso del suo debutto poetico una caratteristica pregnante della sua scrittura: «cattolico indocile» lo definì Alfredo Giuliani nell’Introduzione all’antologia I Novissimi. Poesie per gli anni ’60 da lui curata (Milano, 1961), riferendosi alla ‘molla’ che faceva scattare nelle sue poesie un «sistema di fatti sincopati, brutali». La molla consisteva nello «sgomento metafisico», nella «duplicità “manzoniana” – scriveva – di questo cattolico indocile, di questo borghese improprio che invece che allontanare la vista dal “male” lo scruta e s’accorge che non riuscirà mai a spiegarlo senza residui». E ancora Edoardo Sanguineti, in un saggio del 1964, Il trattamento del materiale verbale nei testi della nuova avanguardia (poi in Id., Ideologia e linguaggio, Milano 1965, p. 127), scrisse, riferendosi al ciclo di poesie Rapporti umani: «il tema portiano […] si declina, in primo luogo […], sul versante fisiologico, insistendo sopra orrori anatomici di varia portata. In questo cattolico contemporaneo […] il trionfo della morte […] non è una nozione intellettuale, un’occasione etico-meditativa, ma è un dato bruto, rovesciato totalmente nel sensibile, articolato nell’immaginazione, depauperato di ogni sfondo ulteriore».
Il tema «portiano», scrisse Sanguineti: Leo Paolazzi aveva infatti abbandonato dal 1960 il nome anagrafico, scegliendo quello pseudonimo lombardo quasi per troncare le radici vicentine e il rapporto vincolante con la famiglia d’origine (anche se alla villa di Ca’ della Nave a Martellago, nucleo di ispirazione del primo romanzo del 1967, Partita, tornò fino al 1979). Divenne dunque Antonio Porta.
‘Antonio’ – confessò poi più volte – era stato scelto in quanto nome lombardo; ‘Porta’ in omaggio al grande poeta dialettale milanese Carlo Porta, e al suo modo espressionista di raccontare il reale. Con lo pseudonimo Antonio Porta firmò nel 1960 la plaquette La palpebra rovesciata, uscita per i Quaderni di Azimuth con copertina di Carlo Ramous. Aveva siglato invece come Leo Paolazzi il volumetto d’esordio, Calendario (Milano 1956), escluso poi dalla silloge approntata con il titolo Quanto ho da dirvi. Poesie 1958-1975 (Milano 1977), che segnava l’arco temporale della poesia in cui Porta si riconosceva. E ancora Leo Paolazzi era comparso a firma di poesie ospitate tra il 1958 e il 1960 nel Verri di Luciano Anceschi, rivista di cui il poeta fu redattore dal 1958 (Meridiani e paralleli, 1958, n. 4; Di fronte alla luna, 1960, n. 2, poi in La palpebra rovesciata, insieme con poesie che confluirono nei Rapporti), su La Parrucca (nel 1957) e su fogli d’arte cui collaborò tra il 1958 e il ’59, interessato com’era alla poesia visiva in forma di collage che segnò per Porta l’avvio degli anni Sessanta (su Mac: documenti d’arte d’oggi uscirono due poesie nel 1958).
Tra il 1963 e il 1967 prese parte attiva alla redazione delle riviste Marcatrè e Malebolge, e partecipò ad alcune mostre (fra Padova, Milano, Roma e Londra). In Malebolge (1964, n. 1, p. 61), accompagnò così i versi di L’Enigma naturale: «Queste poesie sono nate come collages […]. Di fatto ho ritagliato dal linguaggio dei quotidiani ciò che era veramente significativo […] ho cercato di sorprendere gli accostamenti necessari, i nessi tenuti nascosti e le analogie sostanziali. […] Si tratta […] di nuovi epigrammi […], quel genere di poesia che interviene più direttamente nel confronto con la realtà, con una più violenta carica di ironia e grottesca deformazione».
Nel 1963 era uscito Zero, edizione di poesia visiva in 30 esemplari, da leggersi accanto a Il grado zero della poesia (in Marcatrè, 1963, n. 2), in cui Porta vergò una lucida dichiarazione di poetica. Per lui il poeta si trovava a muoversi «insieme agli altri in una condizione paragonabile a quella di assenza di gravità», e in questa condizione di vuoto pneumatico, nello smarrimento di una società in trasformazione, i versi, disposti nello spazio come in un campo di tensioni, nei modi della poesia concreta, valevano «come bombe che dovessero portare luce in una stanza»; il finale era segnato da un radicale ‘senso del tragico’: «luce ne hanno portata ma si è visto che tutti erano morti, oramai e forse lo meritavano» (p. 42).
Quella dichiarazione era stata preceduta da Poesia e poetica, uno scritto uscito il 10 luglio 1960 in La Fiera letteraria già a firma Antonio Porta, riproposto con varianti nella Palpebra rovesciata con titolo Dietro la poesia (e accolto infine ne I Novissimi con nuove varianti tra le edizioni 1961 e 1965). Porta vi vergò le intenzioni della sua poesia, alla cui base, scrisse nel 1965, si colloca «l’avversione per il poeta-io, quello che ci racconta la sua storia […]. Si è avvertita […] l’importanza dell’evento esterno, da cui sentiamo colpita la comunità e non più, soltanto, la persona del poeta isolato: e lì ci si misura, noi, uomini […]. In questo senso si è interpretata la poetica degli oggetti, la poesia in re, non ante rem. […] Gli eventi, gli oggetti, gli emblemi del vero, sono poi materia da lavorare in modo quasi artigianale […] assumendo senza riserve la metrica accentuativa […]. La metrica accentuativa è soprattutto un metodo di penetrazione» (pp. 194 s.).
Su quegli elementi richiamò l’attenzione Giuliani introducendo l’antologia dei Novissimi, in cui Porta si trovò a fianco Pagliarani, Sanguineti, Balestrini e lo stesso Giuliani. Per il curatore, «l’accento delle poesie di Antonio Porta cade essenzialmente sugli eventi fisici e sulla loro estraneità allo sguardo di chi vuole penetrarli: estraneità e insieme appartenenza profonda», al punto che – insisteva – «sembra che Porta s’affidi interamente a un guardare stravolto, accanito sui fenomeni traumatici della cronaca, e che il suo problema sia di trovare l’espressione adeguata, plastica, alla rapida sintesi del suo occhio» (pp. 29 s.).
L’uscita de I rapporti. Poesie 1958-1964 (Milano 1966) concluse l’intenso apprendistato poetico, riunendo le plaquettes La palpebra rovesciata (1960), Zero (1963), Aprire (1964) e le poesie pubblicate nei Novissimi.
La raccolta, giudicata dalla critica il libro più eversivo di Porta, suscitò riscontri favorevoli, per gli aspetti di raggelata tensione e raddensamento materico, i fotogrammi allucinati e cruenti che riproducevano in versi le contraddizioni sociali dei primi anni Sessanta, traducendole in immagini di urto, trauma, deformazione, per mettere in luce quanto di asfittico conteneva quella «società / materasso, gommapiuma, carta / assorbente» (Di fronte alla luna).
Giovanni Raboni parlò (Paragone, giugno 1966) di «materia singolarmente vischiosa» affidata a «pochi nuclei figurativi o forse narrativi, a partire dai quali la vicenda si riproduce a cerchi concentrici»; Fausto Curi (in Ordine e disordine, 1965) aveva scritto che Porta era un visivo dalla «palpebra rovesciata», la cui tensione etica e conoscitiva si risolveva, tra Eliot e Brecht, «in un’ottica stravolta, abnorme», costruita sull’attrito «fra l’atrocità della materia e l’impassibilità del montaggio»; più tardi John Picchione (Bari 1995) trovò in quei testi la violenza di un Bacon, la crudeltà di un Artaud.
L’anno successivo uscì il romanzo Partita (Milano 1967), a conferma di una disposizione verso il registro narrativo pure se frantumato, sbriciolato in fotogrammi, sottoposto a montaggio di percezioni senza sviluppo. Intanto, tra il 1963 e il 1967, Porta prese parte attiva ai lavori del Gruppo ’63, inviando testi all’incontro di Palermo (1963) e partecipando agli incontri di Reggio nell’Emilia (1964), La Spezia (1966), Fano (1967), mentre proseguiva il lavoro redazionale per le riviste, cui si aggiunse la fondazione di Quindici (1966-69). Lasciata nel 1967 la casa editrice Rusconi e Paolazzi, in cui era entrato fin dal 1956, continuò a lavorare nell’editoria, dapprima per Bompiani (1968-77), quindi per Feltrinelli (1977-81), avviando anche una collaborazione con Il Giorno (1972-78). Nel 1969 uscì Cara (poesie 1965-68), raccolta che avviò una fase sperimentale tesa ad alleggerire «quella sorta di sospesa e coagulata drammaticità» dei Rapporti (così Curi citato in frontespizio) in nuove possibilità espressive e ritmiche (di ‘ritmo di respirazione’ parlò spesso Porta).
Nel caso del testo più emblematico, Come se fosse un ritmo, la parola si affidava a uno stile verbale di minuscoli segmenti visivi e fonici, frammenti di verbo+sostantivo proposti in colonna con identica scansione, ad assorbire banalità e trauma («si alzano dalle sedie / azzannano i bambini»…). Un materiale verbale «povero, denso, stopposo», scrisse Spatola sul Verri (1972, n. 38, p. 118). La sperimentazione si estese alle raccolte Metropolis (Milano 1971: apprezzato da Amelia Rosselli e finalista al Viareggio), e Week-end (Roma 1974, con prefazione di Maria Corti), in cui fotogrammi raggelati restituivano i gesti ripetitivi di un uomo-automa, alienato e disumanizzato. Sempre nel 1974 uscì a Torino La presa di potere di Ivan lo sciocco, testo teatrale che con la poesia condivideva i temi dell’utopia, espressi in linguaggio epico-narrativo.
La pubblicazione di Quanto ho da dirvi (Milano 1977: silloge delle poesie composte tra il 1958 e il 1975) concluse per Porta una fase di scrittura e di vita.
Nel 1974 fu siglato l’atto di divorzio congiunto dalla moglie, nel 1975 morì il fratello Mario. Seguirono mesi di silenzio poetico, finché si aprì un decennio di trasformazioni, inaugurato dal secondo romanzo, Il re del magazzino (Milano 1978), che mette a nudo, per il prefatore Giuseppe Pontiggia, l’«atrocità di un’offesa patita dallo sguardo» da parte di un personaggio sopravvissuto a una catastrofe planetaria, in una situazione da day after. Prese avvio una collaborazione intensa a quotidiani e settimanali (il Corriere della sera con il supplemento Sette; saltuariamente l’Unità, L’Europeo, Panorama, Comunicare); nel 1979 fu tra i fondatori di Tabula (1979-81), poi di alfabeta, nel cui comitato di redazione rimase fino alla sua chiusura nel 1988.
Sempre in quell’anno, per lui particolarmente fecondo, pubblicò per Feltrinelli Poesia degli anni Settanta. Antologia di poesia italiana dal 1968 al 1979, con introduzione e note critiche (Milano 1979), e iniziò a convivere con Rosemary Liedl, conosciuta nel 1977 alla Fiera del libro di Francoforte (e da cui ebbe tre figli: Giovanni nel 1980, Margherita nel 1982, Mario nel 1988). Sentiva sempre più urgente la necessità di «dare forma alla comunicazione», come dichiarò nell’antologia Nel fare poesia (Firenze 1985, p. 76). E sulla sfida alla comunicazione, sul bisogno di colloquialità, aprì Passi passaggi. Poesie 1976-1979 (Milano 1980), intitolando la prima sezione Brevi lettere ’78, così come Brevi lettere ’76, ’78, ’80-81 scandirono la tripartizione della successiva L’aria della fine (Catania 1982; 67 lettere complessivamente, di cui le prime 30 provenivano dal Re del magazzino).
La volontà di contatto si univa in quei testi, per Giuliano Gramigna (1986, pp.168 s.), con una «pulsione orale», un erotismo intenso, e insieme con un’idea di ‘transito’, di ‘trasformazione’, segnata da un eccesso di evidenza e di allarme: come se il bisogno di provare nuove forme lo portasse ad accelerare il passo verso ‘il buco, la cavità di imbuto che inghiotte’.
«Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne molte», confessò Porta commentando suoi testi scritti tra il 1958 e il 1985 (Nel fare poesia, p. 32). E frenetica divenne negli ultimi anni la sua attività, come promotore di eventi e convegni tra il 1984 e il 1989, e con l’impegno presso la Cooperativa Intrapresa a partire dal 1981, e l’organizzazione della Milanopoesia (1984-88), la fondazione delle riviste La Gola (1981-88) e Il Cavallo di Troia, sempre nel 1981, la collaborazione alla RAI, l’esperienza presso la Fonit Cetra S.p.A. dall’85, l’insegnamento come docente a contratto presso università italiane e straniere, mentre si infittì una produzione ad ampio raggio fra poesia, narrativa, traduzione, scrittura di teatro, scritti civili, poemetto per l’infanzia (Emilio illustrato da Altan, Milano 1982).
Nel 1984 uscì Invasioni (Milano; premio Viareggio) in cui convivono racconto e sequenza lirica, versi brevissimi e forma poemetto, crudo espressionismo e levità, cui seguirono La festa del cavallo (Milano 1986), testo teatrale tramato di segnali apocalittici e utopia di rinascita, e Melusina. Una ballata e un diario (Milano 1987), che affiancava epopea popolare e forma diaristica («io scrivo sempre poesie di tipo diaristico», confessò Porta in un seminario bolognese del 1988); e ancora la traduzione della Spoon River anthology di Edgar Lee Masters (Milano 1987, con introduzione), cui seguì la traduzione di Sleep di Amelia Rosselli (Sonno-Sleep 1953-1966, Roma 1989 e Genova 2003).
Nel 1988 uscì Il giardiniere contro il becchino (Milano), sintesi del percorso del poeta Antonio, che di Leo aveva conservato a vita «una rara inquietudine aperta nei grandi occhi stupiti, e una carica insaziabile, un desiderio intenso di poesia» (Anceschi, Ricordo, in il verri, 1993, n. 3-4, p. 15).
In quella sintesi si trovarono congiunti il poemetto Airone, «suite di frammenti lirici», scrisse Gramigna nel Corriere della sera (15 maggio 1988), che conservavano la «pronuncia esatta e tagliente» colta da Maurizio Cucchi nell’intera sua produzione (Introduzione all’ed. Oscar, Milano 1998); tre poemi per teatro, costruiti su intrecci di voci (Fuochi incrociati; Pigmei, piccoli giganti d’Africa; Salomé, le ultime parole); fotogrammi di spessore etico e icastico.
La morte sopraggiunse improvvisa, interrompendo progetti in fase di realizzazione (il romanzo Los(t)angeles, su tutti. Vi si legge nel frammento 5: «ormai devo andare più avanti, non mi può fermare nessuno, soltanto la morte, non lo dico per scherzo»).
Antonio Porta morì per infarto a Roma il 12 aprile 1989.
Il 17 giugno gli venne dedicata una cerimonia pubblica a Milano presso la Villa Comunale ex Reale. L’8 dicembre il Comune di Milano lo insignì dell’Ambrogino d’oro alla memoria.
Opere. Poesia: Calendario, Milano 1956; La palpebra rovesciata, Milano 1960; Zero, Milano 1963; Aprire, Milano 1964; I rapporti. Poesie 1958-1964, Milano 1966; Cara, Milano 1969; Metropolis, Milano 1971; Week-end, Roma 1974; Quanto ho da dirvi, Milano 1977; Passi passaggi, Milano 1980; L’aria della fine, Catania 1982 (Genova 2004); Emilio, Milano 1982 (con nuovo testo, Milano 2002); Invasioni, Milano 1984; Nel fare poesia, Firenze 1985; Melusina, una ballata e un diario, Milano 1987; Il giardiniere contro il becchino, Milano 1988. Opere postume: Poesie 1956-1988, a cura di N. Lorenzini, introd. di M. Cucchi, Milano 1998; Poemetto con la madre e altri versi, copertina di E. Tadini, Castel Maggiore 2000; Yellow (con poesie inedite), a cura di N. Lorenzini, note di F. Lombardo, Milano 2002; Tutte le poesie (1956-1959), a cura di N. Lorenzini, Milano 2009; Poesie in forma di cosa. Opere 1959-1964, Sesto San Giovanni 2012.
Narrativa: Partita, Milano 1967 (1978, con nota d’autore); Il re del magazzino, Milano 1978 (Genova 2003, Milano 2008); Se fosse tutto un tradimento, Milano 1981. Opere postume: Partorire in chiesa (racconto, a cura di R. Liedl, Milano 1990; Los(t) angeles (romanzo incompiuto), Firenze 1996; La scomparsa del corpo (tutti i racconti, Lecce 2010). Tra le opere teatrali: La presa di potere di Ivan lo sciocco, Torino 1974; La stangata persiana, Milano 1985; La festa del cavallo, Milano 1986.
Volumi postumi: Il progetto infinito, a cura di G. Raboni, Milano 1991, riunisce scritti critici di Porta su poesia e teatro; Abbiamo da tirar fuori la vita. Scritti per “Sette” e per il “Corriere della sera” (1988-89), a cura di D. Bernardi, Lugano 2013, riunisce scritti di impostazione civile. Una traduzione recentissima delle poesie è uscita per cura e con introduzione di G.M. Annovi: Piercing the page: selected poems 1958-1989, Los Angeles, 2012. Una esaustiva bibliografia delle opere è stata curata da Rosemary Liedl per Avanguardia, 1999, n. 12, pp. 61-102. È in preparazione, infine, la pubblicazione in rete del sito www.antonioporta.it, che renderà possibile la lettura di scritti divenuti introvabili, traduzioni, lezioni di poesia e altro materiale raro.
Fonti e Bibl.: Il Fondo Porta presso Apice, Università di Milano, conserva la biblioteca e l’archivio, con materiale preparatorio di opere, un ricco epistolario, una raccolta della produzione originale di poesia visiva (la biblioteca è catalogata e consultabile dall’OPAC d’Ateneo).
Per la bibliografia critica, quantitativamente ampia, si segnalano, oltre alle fondamentali pagine di Giuliani, Sanguineti, Curi, citate nel testo, i saggi di: A. Guglielmi, Porta, in Vero e falso, Milano 1968, pp. 145-147 (poi in Il piacere della letteratura, Milano 1981); S. Agosti, Porta e la scena della crudeltà, in Id., Poesia italiana contemporanea, Milano 1995, pp. 153-65; R. Barilli, Antonio Porta, in Id., La neoavanguardia italiana, Bologna 1995 (Lecce 2007), pp. 61-67; la voce di G. Raboni, Antonio Porta, in Letteratura italiana (Marzorati), X, I Contemporanei, Milano 1979, pp. 9911-9913; i saggi di G. Gramigna, Passaggi da Porta a Porta, in Id., Le forme del desiderio, Milano 1986, pp. 168-174; C. Bello, Antonio Porta, l’ostinazione del conflitto originario, in Avanguardia, 1999, n. 12, pp. 30-49; A. Cortellessa, Antonio Porta, Angelus Novissimus, in Avanguardia, 1999, n. 11 (poi in Id., La fisica del senso, Roma 2006, pp. 273-284); S. Colangelo, L’“usus videndi” di Antonio Porta, in Id., Metrica come composizione, Bologna 2002, pp. 97-108; G.M. Annovi, Incarnazioni, in Id., Altri corpi, Bologna 2008, pp. 175-204; C. Bello, Con gli occhi di Porta, in Poetiche, 2013, 39, pp. 187-209. Sono da consultare inoltre: J. Picchione, Introduzione a Antonio Porta, Bari 1995, pp. 175-186; Poeti italiani del secondo Novecento, II, a cura di M. Cucchi - S. Giovanardi, Milano 1996 (2004), pp. 1246-1250; A. Porta, Tutte le poesie, cit., pp. 52-63, 619-648. Monografie: L. Sasso, Antonio Porta, Firenze 1980; M. Moroni, Essere e fare. L’itinerario poetico di Antonio Porta, Rimini 1991, oltre a J. Picchione, cit.; i numeri monografici delle riviste Nuova Corrente, 1986, n. 98, pp. 237-357; Poesia, maggio 1989 (Per Antonio Porta, pp. 3-19); Testuale, 1991, n. 12, pp. 4-54; il verri, settembre-dicembre 1993, n. 3-4, pp. 13-106; nonché gli atti relativi a: Antonio Porta il progetto infinito, a cura di N. Lorenzini, in il verri, ottobre 2009, n. 41, pp. 5-153; Il giardiniere contro il becchino. Memoria e (ri)scoperta di A.ntonio Porta, a cura di A. Vaccaro, Trezzano sul Naviglio 2012; “Mettersi a bottega”: Antonio Porta e i mestieri della letteratura, a cura di A. Terreni - G. Turchetta, Roma 2012.