Le vie della divulgazione scientifica
Tradurre dall’italiano in italiano
Per capire cosa si intende per divulgazione, c’è un esempio che permette di chiarire subito il concetto. Ecco una frase (vera) presa di peso da un libro: «Nella categorizzazione del reale la determinazione di certi attributi discriminanti non è riducibile se non a una elaborazione della percezione ambientale che semplificando i dati ha anche la funzione di facilitare l’attività strumentale del soggetto».
Avete capito qualcosa? Andreste avanti nella lettura di un libro scritto in questo modo? Divulgare vuol dire, in casi come questo, tradurre. Tradurre dall’italiano in italiano. Ecco come potrebbe essere scritto il testo citato in un linguaggio divulgativo: «Nell’osservare la realtà tendiamo a raggruppare le cose in categorie, individuando certe loro caratteristiche: questa elaborazione mentale ci consente di semplificare i dati, per poterli utilizzare poi più facilmente».
Tutto questo mi riporta alla mente un prezioso consiglio che il biologo inglese Peter Brian Medawar (1915-1987) dava ai suoi studenti in un libro: «evitate di far percorrere, ai vostri lettori, una distesa di vetri rotti a piedi nudi» (Advice to a young scientist, 1979; trad. it. 1981, p. 82).
Purtroppo molti testi importanti sono spesso cosparsi di vetri rotti, spine, aculei, acidi corrosivi, che fanno inutilmente soffrire (e spesso anche allontanare) il lettore. E qui occorre naturalmente chiarire un punto essenziale. Va benissimo che gli esperti parlino tra loro in modo specialistico: lo fanno i matematici, i ferrovieri, i medici, i piloti, i tributaristi, anzi è doveroso l’uso di un certo linguaggio nella propria cerchia professionale, in quanto ogni parola ha un significato ben preciso. Ma le cose vanno in modo diverso quando ci si deve rivolgere a persone che non hanno lo stesso tipo di specializzazione, anzi, che sono incompetenti nella materia.
Un esempio. Se si parla di fisica a un avvocato, quale linguaggio bisogna usare? Quanto ne sa di fisica un avvocato? Probabilmente sa solo quello che ha imparato a scuola (a meno che coltivi letture proprie). Quindi ricordi lontani e spesso obsoleti. Malgrado sia una persona istruita e colta, nella comprensione della fisica si trova al livello di un ragazzo intelligente di quindici anni (il quale, anzi, ne sa certamente di più), e dunque occorre utilizzare con lui un linguaggio estremamente divulgativo.
La stessa cosa vale se si parla di chimica a uno storico, o di genetica a un critico d’arte. In altre parole occorre distinguere tra cultura e competenza. Ognuno di noi è competente nel proprio campo, ma non necessariamente in un altro. Quindi: tutti abbiamo bisogno di divulgazione, quando vogliamo capire qualcosa che non conosciamo.
Questo concetto è importante, perché a volte si tende a pensare che la divulgazione (che contiene al suo interno la parola vulgus) sia destinata a persone poco istruite: non è così. È destinata a far capire le cose a persone (anche coltissime) che non hanno la competenza necessaria.
I danni di un linguaggio poco comprensibile
Se si è tagliati fuori da certe conoscenze a causa di un linguaggio specialistico, si rischia di essere amputati di una parte importante delle capacità di capire le infinite connessioni che, in particolare, la scienza (e anche la tecnologia) continuamente crea all’interno della società e della stessa cultura.
Questo vale, del resto, per ogni altro tipo di saperi, perché tutto ha bisogno di divulgazione: anche l’arte, la musica, l’economia (se gli elettori capissero un po’ più di economia, un Paese potrebbe forse funzionare meglio). E questo permette di capire i danni di vario tipo provocati dalla mancanza di divulgazione.
Spesso si dice che un linguaggio difficile è uno strumento di potere, per escludere gli altri dal sapere, o per intimidire. Oppure che è un modo per esibire la propria erudizione (in passato era tipica la citazione di frasi latine). Forse ciò è vero, ma solo in parte: più semplicemente, la maggior parte delle volte, è soltanto una cattiva abitudine, una difficoltà a esprimersi in un diverso linguaggio. Imparare a divulgare, infatti, è come imparare una lingua straniera: occorre studiare, esercitarsi e naturalmente avere attitudine per questo particolare modo di parlare e di scrivere. Perché, come è stato detto, «è più difficile essere facili». Nel senso di saper ‘tradurre’ bene, senza tradire.
I danni dovuti a un linguaggio specialistico usato al di fuori della propria cerchia professionale sono numerosi, in ogni campo. Basta visitare un sito archeologico, un monumento storico, un museo e leggere i cartellini, per accorgersi che non sono stati scritti per i visitatori. Sono pieni di dettagli dotti, di date, di riferimenti che il visitatore, il più delle volte, dimentica in una frazione di secondo dopo averli letti, perché non toccano i suoi interessi, non stimolano la sua curiosità, il suo piacere di scoprire, non fanno ‘vivere’ ciò che si vede.
Ci sono ricerche che mostrano come alla fine di un percorso museale o espositivo il visitatore solitamente ha capito decisamente poco della civiltà raccontata attraverso questi cartellini.
Ciò vale per il contenuto di molti altri ‘cartellini’: la cartella delle tasse, i rendiconti bancari, le clausole assicurative (ma qui l’interesse è proprio quello di non far capire troppo...). O anche le schede dei referendum. Un esempio famoso è quello delle tre schede per la consultazione sulle centrali nucleari: non era comprensibile la domanda referendaria, perché veniva riportato solo il numero della legge da abolire con un linguaggio tortuoso e specialistico. È vero che, per ragioni di inattaccabilità formale (e per evitare contestazioni) può rendersi necessaria una formulazione di quel tipo, ma in questo caso, per es., con una nota tra parentesi sarebbe stato più che opportuno spiegare all’elettore a quale dei tre quesiti si riferiva ogni scheda, proprio per una forma di rispetto per chi votava e doveva decidere su questioni importanti.
Questo tipo di linguaggio viene spesso usato, paradossalmente, anche da chi dovrebbe invece aiutare il proprio cliente a capire come funziona l’oggetto che ha comprato, e non a fargli maledire l’azienda produttrice ogni volta che consulta il manuale: si tratta dei famigerati ‘libretti di istruzione’. Ci sono libretti di 50, a volte 100 pagine, per far funzionare un telefono cellulare o un videoregistratore, con un linguaggio che nessuno mai utilizzerebbe quando parla, dove «attivare il selettore di funzione» vuol semplicemente dire «premere il bottone rosso». Anche in questo caso si rende inutilmente difficoltoso ciò che potrebbe essere facilmente comprensibile.
Qualcuno ha detto che è tipico delle persone poco intelligenti rendere complicate le cose più semplici. È vero, ma solo in parte. Il più delle volte l’errore lo commette chi sceglie le persone sbagliate: erroneamente, infatti, si pensa che un esperto sia la miglior persona per spiegare una cosa, mentre molto spesso non lo è. Un esperto che deve spiegare come funziona un videoregistratore o qualunque altro oggetto tende a parlare una lingua che non è quella del suo interlocutore. Questo avviene anche perché manca il contatto diretto con la persona cui è destinata la spiegazione. Ci sono piccoli esperimenti di psicologia che spiegano bene questo fenomeno.
Mettersi nei panni degli altri
Si è, per es., provato a mettere dei passanti in particolari situazioni e a osservare come si modificava il loro linguaggio a seconda degli interlocutori. La situazione era la seguente: un volontario, complice dello psicologo, fermava degli individui in una stazione ferroviaria e chiedeva loro un’informazione. Ottenuta la risposta, ringraziava. Successivamente i complici cambiavano: a chiedere la stessa informazione era un bambino, oppure uno straniero. Il linguaggio cambiava, si adeguava all’interlocutore: le persone rispondevano in modo sempre più chiaro e attento, assicurandosi che chi li ascoltava avesse capito. Avevano insomma un riscontro immediato delle loro spiegazioni, e adattavano il linguaggio alla capacità di comprensione dall’individuo che avevano di fronte.
Gli autori di libretti di istruzione (ma non solo loro) scrivono invece senza avere di fronte il destinatario o, meglio, i destinatari tra i quali ci sono persone molto diverse, che avrebbero bisogno di linguaggi differenti (e magari di versioni diverse del libretto). Un buon linguaggio divulgativo però funziona bene per tutti e può rappresentare quel territorio comune in cui ognuno può ritrovarsi (magari con note aggiuntive a piè di pagina per gli esperti).
Questo non avviene perché le persone che scrivono cartellini, libretti di istruzione o didascalie museali non si curano di controllare quanto gli utenti o i visitatori hanno capito (o hanno faticato a capire): non li hanno dinanzi, non osservano le loro espressioni perplesse, irritate o annoiate.
Stranamente mentre l’economia di mercato induce le aziende a soddisfare i clienti perché continuino a sceglierle, nell’ambito della comunicazione del prodotto (egualmente importante) non si osserva lo stesso spirito competitivo.
Il fatto di considerare l’esperto la persona adatta a scrivere un testo o anche ad allestire un museo ha creato in certi casi danni gravissimi. Perché, specialmente in passato (ma ancora oggi), ha di fatto scoraggiato lettori e visitatori, impedito l’accesso a conoscenze preziose, ha spento interessi e forse vocazioni, non svolgendo quello che è il ruolo fondamentale della comunicazione culturale: accendere i cervelli.
Naturalmente non è sempre così. Le cose funzionano quando (raramente) capita che l’esperto sia anche un buon comunicatore, capace di mettersi dalla parte di chi riceve l’informazione, cioè il pubblico. Oppure quando questa parte, importante, della comunicazione viene delegata a un esperto in divulgazione. Si tratta di una tendenza emersa, per es., in certi musei della scienza, dove l’équipe non è più formata soltanto dallo scienziato e dall’architetto, ma si è allargata al comunicatore, che mette la sua capacità sia di linguaggio sia creativa al servizio del messaggio.
Questa integrazione evita anche clamorosi errori dovuti a mancanza di collegamento tra le parti. Un caso esemplare è quello di un gruppo di divulgatori scientifici che fu contattato per allestire un nuovo museo di fisica, seguendo le indicazioni generali degli esperti (e naturalmente con la loro consulenza). Decisero di creare un ambiente buio, con particolari effetti luminosi che potessero meglio illustrare certi fenomeni della fisica, attraverso una serie di esperimenti. Tuttavia l’edificio era in fase di costruzione e l’architetto lo aveva previsto con grandi vetrate. In altre parole si era ideato il museo a prescindere dal contenuto, cercando semplicemente di fare un’opera architettonica di qualità. Agire in questo modo è come fare un abito senza conoscere le misure del destinatario e senza neppure sapere per quale occasione servirà.
Come si dice, a ognuno il suo mestiere: il divulgatore (dotato ovviamente di una preparazione scientifica) deve creare l’allestimento, lo scienziato deve essere il referente e il controllore della correttezza, l’architetto a sua volta deve ‘vestire’ l’opera, seguendo le esigenze dell’allestimento e suggerendo eventuali soluzioni creative per quanto riguarda il contenitore.
Non confondere i livelli
In passato molto spesso è mancata completamente la percezione che la comunicazione (effettuata attraverso le parole, le immagini, gli scritti, gli oggetti o quant’altro) debba sempre usare un linguaggio adatto al pubblico che vuole raggiungere: se si confondono i livelli, il risultato finirà per non accontentare nessuno, né gli esperti né il pubblico.
Questo può valere anche per le enciclopedie, soprattutto quelle del passato meno sensibili alle esigenze divulgative (ma anche oggi gli esempi negativi non mancano). Un’enciclopedia infatti è anch’essa, proprio per sua natura, un’opera divulgativa. Raccoglie migliaia di voci e per ognuna deve elaborare una sintesi, puntuale e aggiornata. Ma chi sono i lettori di un’enciclopedia? La destinazione dipende naturalmente dal tipo di opera che si vuole realizzare, ma è evidente che di norma è destinata a raggiungere un pubblico molto diversificato, con livelli e competenze differenti. Per scrivere i testi solitamente vengono scelti esperti dei vari settori che in questo caso sono chiamati a scrivere per il pubblico non necessariamente di competenti. Spesso attraverso un attento lavoro redazionale il linguaggio specialistico viene ‘tradotto’ diventando così, il più delle volte, comprensibile.
Per quanto riguarda le riviste scientifiche, la soluzione adottata è la separazione degli autori e dei testi, raggruppati in vari livelli. Vi sono riviste specialistiche di settore, che si rivolgono in modo specifico ai propri addetti ai lavori (riviste per biologi, oppure per fisici, o per informatici ecc.). Vi sono poi riviste scientifiche generaliste, di alto livello (come «Nature», «Scientific American»), che contengono lavori originali ma anche parti leggibili da chi ha una formazione scientifica. Poi ci sono vere e proprie riviste di divulgazione scientifica riservate a persone che hanno familiarità e interesse per la scienza, e che contengono ogni tipo di argomento, trattato in modo comprensibile. Infine vi sono riviste o giornali che hanno rubriche o pagine di scienza e di tecnologia destinate a un pubblico generale, quindi con un taglio più giornalistico, sia per la scelta dei temi sia per la trattazione.
In questo modo ognuno può scegliere il suo livello di competenza. E trovare il proprio modello di divulgazione. Va detto, in proposito, che la divulgazione è importante anche per gli stessi scienziati: la ricerca infatti è diventata così ramificata e specializzata che solitamente un astrofisico sa poco di biochimica cerebrale e, analogamente, un geologo non sa molto di psicologia sperimentale: riviste di divulgazione di livello sono quindi molto utili per informare su cosa sta avvenendo in altri campi.
Il fisico Edoardo Amaldi, che per anni aveva lavorato fianco a fianco con Enrico Fermi, raccontava che quest’ultimo era un ottimo divulgatore, molto bravo nello spiegare le cose ai suoi collaboratori. Alla fine dell’esposizione chiedeva se era chiaro ciò che aveva finito di illustrare e di fronte alla risposta affermativa riprendeva da capo la spiegazione, entrando nei dettagli, per approfondire i passaggi che aveva saltato.
Si tratta di un modo di procedere molto efficace perché per capire i dettagli bisogna prima aver afferrato l’insieme. Bisogna aver ben chiaro il contesto, il concetto generale, il paesaggio, per così dire. A quel punto i dettagli vanno a collocarsi nei punti giusti e a integrarsi in uno schema mentale acquisito. Questa è la ragione per cui spesso un lettore non riesce a inquadrare bene una notizia, o a capire il senso di una ricerca: gli manca il contesto, il quadro d’insieme in cui questa notizia o questa ricerca si inseriscono.
Se si vuol aiutare un lettore a capire è quindi sempre importante collocare un fatto nuovo nel suo contesto, senza dare per scontato che chi legge già lo conosca.
Accendere il cervello
Ma esistono particolari tecniche per divulgare? È un po’ come chiedere se esistono tecniche per parlare o per scrivere: esistono naturalmente delle regole generali, ma ciò che si dice o si scrive è soprattutto il frutto della propria professionalità, preparazione, creatività, stile, talento e così via.
Vi sono però alcuni elementi che è importante tenere sempre presenti. Per comprendere ciò è forse utile anche in questo caso partire da un piccolo esperimento di psicologia.
In un laboratorio del dipartimento di psicologia di un’università americana, alcuni studenti sono stati sottoposti, uno alla volta, a un curioso test. Dovevano leggere articoli di giornali o di settimanali mentre un poligrafo (quella che impropriamente viene chiamata la macchina della verità) registrava le loro leggere variazioni di battito cardiaco, tensione muscolare, sudorazione, pressione arteriosa ecc., attraverso una serie di sensori. In altre parole i dati del poligrafo, in parallelo con il procedere della lettura, segnalavano la maggiore o minore ‘eccitazione’ del soggetto nei confronti dell’articolo. Cioè si evidenziava l’attenzione, e quindi l’interesse, che la lettura suscitava.
Questo piccolo esperimento rileva un aspetto fondamentale del funzionamento del cervello. Schematizzando al massimo, è ben noto che il nostro cervello è composto da più parti collocate in tre aree principali: quella più arcaica e più interna che presiede a certe funzioni automatiche di base, quella intermedia, il cosiddetto sistema limbico, che è il centro delle emozioni, e infine la corteccia, il sottile strato che avvolge il cervello, composto da neuroni molto finemente intrecciati che presiedono alle attività superiori (elaborazione delle memorie, immaginazione, linguaggio, musica, intelligenza, comandi motori ecc.). Queste varie aree agiscono naturalmente in modo integrato e danno luogo al comportamento.
L’esigenza fondamentale di sopravvivere richiede comportamenti adatti a evitare le cose dannose e a raggiungere invece quelle utili. Una lunga evoluzione ha creato un meccanismo molto efficace: ogni volta che ci troviamo di fronte a una situazione spiacevole oppure piacevole, il centro delle emozioni reagisce e ‘accende’ il sistema nervoso, creando uno stato generale di allerta, di attenzione, e produce particolari sostanze biochimiche che raggiungono la corteccia cerebrale. È questa particolare condizione che consente alla corteccia di memorizzare un evento, attraverso la crescita di microscopiche ramificazioni nella rete dei neuroni. In altre parole il nostro cervello è continuamente in contatto con il mondo esterno, percepisce milioni di immagini, suoni, sensazioni, ma si ‘accende’ e memorizza solo quelle esperienze che per lui sono significative: in pratica che rappresentano premi oppure punizioni. Questa memorizzazione sarà tanto più intensa quanto più queste esperienze hanno comportato un rischio oppure una gratificazione. In questo modo il nostro cervello impara a reagire e a comportarsi adeguatamente quando una situazione analoga si ripresenterà.
Ovviamente si tratta di un sistema molto più complesso e raffinato, che qui abbiamo schematizzato, delineando solo il concetto di base. Ma ognuno può facilmente verificare che il film della sua vita è costituito soprattutto da ‘fotogrammi’ che hanno creato forti emozioni, rimaste impresse nella memoria: successi e insuccessi, amori e delusioni, promozioni e bocciature, vittorie e sconfitte, gioie e dolori, malattie e guarigioni, matrimoni e separazioni, soddisfazioni e amarezze, innamoramenti e abbandoni, nascite e morti. L’elenco è sterminato e riempie ogni vita umana. Con livelli di emozione ovviamente diversi e con significati diversi a seconda delle esperienze individuali. È proprio per questa ragione che, se si vogliono ‘accendere’ le emozioni in un lettore o in un telespettatore (e quindi interessarlo), è importante presentargli situazioni in cui egli possa immedesimarsi ed essere coinvolto. Se si guardano, per es., le trame dei film (specialmente di quelli che fanno cassetta) si vedono facilmente i tiranti delle emozioni: amori, lotte, avventure, inseguimenti, scene che fanno ridere, piangere, rabbrividire, stupire, inorridire, meravigliare e così via. Anche la pubblicità si avvale degli stessi meccanismi per colpire le emozioni dello spettatore con immagini spettacolari, divertenti, inusuali, sorprendenti, in modo da indurlo a memorizzare la scena e a ricordare la marca del prodotto. Con una ripetitività che permette di fissare bene il ricordo.
Nel mondo dell’informazione, si dice spesso, i grandi titoli si riferiscono soprattutto a cinque ‘S’: sesso, sangue, soldi, salute, sport. Ma si potrebbero aggiungere molte altre ‘S’, come scandali, stupore o speranza. Anche i telegiornali, a loro modo, mettono sempre in evidenza le notizie più emotive.
La capacità di coinvolgere
Tornando al precedente esempio degli studenti collegati al poligrafo, la lettura di vari tipi di testi può consentire allo sperimentatore di misurare le variazioni emotive da essa prodotte. In questo modo si può misurare non soltanto la risposta al tipo di notizia, ma anche al modo in cui essa è scritta. A creare emozioni, infatti, è anche lo stile di chi scrive, la sua capacità di coinvolgere il lettore, di suscitare il desiderio di continuare ad andare avanti.
Insomma è anche il giornalista (o lo scrittore) che riesce ad ‘accendere’ il cervello. A volte persino su argomenti non particolarmente emotivi che non appartengono alle famose ‘S’, ma che vengono resi emotivi grazie al modo in cui sono raccontati.
Un punto cruciale della scrittura divulgativa è che non basta essere chiari, bisogna riuscire a coinvolgere l’emotività. In modo diverso naturalmente, ricorrendo a tecniche più nobili, percorrendo strade più indirette, ma avendo sempre come bersaglio strategico l’‘accensione’. Perché se non si attivano i centri che regolano l’attenzione non si verifica, nella corteccia cerebrale, quella situazione biochimica adatta a suscitare (e a mantenere) l’interesse.
Naturalmente esistono anche testi in apparenza noiosi e poco coinvolgenti che possono attivare il sistema e creare interesse: per es., un fiscalista leggerà con attenzione le nuove norme che vengono a modificare il pagamento dei contributi, un fisico leggerà avidamente la versione originale dell’ultima ricerca sul bosone di Higgs, un matematico si divertirà a leggere un articolo sulla storia dei numeri primi. Ognuno, insomma, prova interesse per le notizie che riguardano il campo nel quale è competente. Il problema principale del divulgatore è quello di suscitare curiosità e partecipazione in un pubblico molto differenziato per livello educativo, competenze, interessi.
Una ‘nobile’ emotività può essere suscitata rivolgendosi a una qualità che tutti gli esseri umani posseggono, sia pure in misura diversa: la curiosità, il desiderio di conoscere, il piacere di scoprire. E per farlo il divulgatore deve usare tutti gli strumenti a sua disposizione: creatività, esempi, aneddoti, metafore, racconti, grafiche, animazioni e anche umorismo. Non è un caso se una delle regole dei conferenzieri anglosassoni è quella di aprire il loro discorso con un aneddoto o con una battuta in grado di suscitare una risata nel pubblico: è un modo, questo, per stabilire un rapporto umano, ma anche per colpire l’emotività e aprire un canale di comunicazione.
L’umorismo è da sempre un compagno di strada dell’intelligenza, ed è proprio una di quelle ‘nobili emotività’ che consentono di mantenere acceso l’interesse. Per questo nella trasmissione televisiva Superquark trasmessa dalla RAI si è spesso fatto ricorso a cartoni animati, realizzati dal disegnatore/creatore Bruno Bozzetto. Questi cartoni animati sono stati usati per spiegare gli argomenti più difficili, in particolare quelli per i quali mancavano immagini, perché riguardanti atomi, molecole, concetti astratti.
Con questa tecnica è stato possibile trattare temi complessi come la meccanica quantistica, la relatività, l’embriologia, la superconduttività, la matematica delle catastrofi, la statistica, la genetica e moltissimi altri aspetti della ricerca scientifica. I cartoni animati (realizzati con la consulenza di esperti nei vari campi) permettevano di spiegare fenomeni e teorie che sarebbe stato impossibile illustrare diversamente e al tempo stesso provocare un’‘accensione’ dell’attenzione, che permettesse di seguire con più interesse il discorso.
È un esempio tipico di come la chiarezza del linguaggio e l’emotività unite insieme possano aprire la strada alla comprensione e all’apprendimento.
La peggior nemica della cultura: la noia
Ma c’è di più, in particolare per quanto riguarda la televisione: se cala l’attenzione cala anche l’interesse, il pubblico se ne va e di conseguenza diminuisce l’ascolto. E se diminuisce l’ascolto, spesso si abbatte anche la mannaia sul programma...
Quando si accusa la televisione di fare programmi di bassa qualità, bisogna rendersi conto che oggi la televisione è condizionata dall’audience. Anche la RAI, con un canone del tutto inadeguato (e largamente evaso), è costretta a trovare le sue risorse sempre più nella pubblicità, e quindi deve andare necessariamente alla ricerca della ‘quantità’. E la quantità la si cerca nella parte bassa della piramide.
Ecco perché è così importante riuscire ad agganciare un vasto pubblico con un linguaggio adeguato: se un programma culturale, scientifico, educativo è noioso e non riesce a raggiungere la soglia minima di ‘galleggiamento’, naufraga: viene spostato a tarda notte, o addirittura viene soppresso. Quindi un linguaggio divulgativo, creativo, stimolante, non è solo un modo per rendere interessante un programma, ma è l’unico modo per salvarlo; altrimenti al suo posto arrivano varietà, quiz, film, sport. Molti, purtroppo, non hanno ancora ben capito che il peggior nemico della cultura è la noia. Se subentrano disinteresse, difficoltà di capire, mancanza di stimoli, si cambia programma. E in questo modo si priva il pubblico di un importantissimo strumento di informazione culturale. Paradossalmente è un linguaggio troppo dotto che provoca la diffusione in televisione dei tanto vituperati programmi di intrattenimento. Senza volerlo chi pensa di fare cultura in questo modo finisce per essere il miglior alleato di coloro che premono per una programmazione, come si dice, di ‘nani e ballerine’.
Le due culture
Un’ultima osservazione per quel che riguarda la divulgazione scientifica. La diffusione di una cultura scientifica in Italia, lo sappiamo, soffre di antichi mali dovuti a uno schiacciante dominio della cultura letteraria. In Italia quasi non si pone il famoso problema delle ‘due culture’, talmente è sproporzionato il peso di quella letteraria: basta leggere le pagine culturali dei giornali, o i programmi scolastici, o ascoltare qualunque dibattito per rendersi conto che la cultura scientifica è quasi del tutto assente.
Esiste infatti un equivoco di fondo, cioè che scienza e tecnologia siano come degli ‘scaffali’ con una serie di barattoli allineati: chimica, fisica, genetica, elettronica, meccanica, astronomia e via dicendo. Tutte cose che con la cultura (specialmente con la filosofia) hanno poco a che fare. È interessante, a tale proposito, il fatto che anche nei giornali la pagina della scienza (nei pochi casi in cui è presente) venga separata dalle pagine culturali.
Ma, a ben guardare, la scienza è spesso strettamente connessa alla filosofia. Nel senso che cerca proprio di rispondere ad alcune delle domande che si sono presentate nella storia della riflessione filosofica: come ha preso origine l’Universo, come è apparsa la vita sulla Terra, come è nato l’uomo, cosa ha dato origine alla grande varietà di forme di vita, come funziona un sistema vivente, perché siamo tutti diversi, cosa c’è nell’infinitamente piccolo, come funziona il cervello, cos’è il comportamento, cosa sono lo spazio e il tempo, e molto altro. A queste domande danno risposte l’astrofisica, la biochimica, la biologia, la genetica, la fisica delle particelle, la neurofisiologia, la psicobiologia, la meccanica quantistica.
La conoscenza del nostro mondo esterno e interno oggi procede proprio grazie allo sviluppo della ricerca in tutti i campi, aprendoci gli occhi e la mente su un numero infinito di esplorazioni, che sovvertono, in gran parte, antichi modi di vedere la natura e il mondo. Tutto questo non è incorporato in quella che viene percepita come ‘cultura’, anzi ne rimane fuori. Molte persone colte, addirittura, affermano quasi con civetteria di non sapere niente di scienza.
Più grave ancora è la difficoltà di questo tipo di cultura di percepire quella che si potrebbe definire la ‘filosofia della tecnologia’. Cioè la difficoltà di capire l’immenso ruolo che la tecnologia ha avuto nel cambiare radicalmente le società umane, in ogni campo (non solo quello industriale, o delle telecomunicazioni o della medicina). Se si dice che la liberazione femminile è un sottoprodotto del petrolio, certamente si usa un’immagine forte, ma anche vera. La liberazione della donna (come quella dell’uomo) dall’analfabetismo, dalla miseria, dalla sudditanza, è il frutto di una crescente capacità di produrre cibo e oggetti attraverso le macchine, creando così abbondanza e ricchezza, e permettendo a una società di mandare a scuola i propri giovani fino a 16, 18 o 25 anni, anziché obbligarli a zappare tutta la vita nei campi. Alla fine dell’Ottocento due terzi della popolazione italiana lavorava la terra, con le mani, per trarre il poco cibo necessario a sopravvivere.
Del resto basta fare il conto di quanto costino oggi un diploma o una laurea in termini di materie prime, energia, cibo, erogati per venti anni o più, senza una contropartita in lavoro (con la fornitura anche di insegnanti, aule, trasporti, riscaldamento, libri ecc.) per comprendere quanto sia fondamentale un sistema tecno-scientifico-energetico per mantenere una società della conoscenza, dove anche la cultura cosiddetta ‘classica’ può sopravvivere e svilupparsi grazie a questo sistema che le fornisce il sostegno. Perché anche un libro di filosofia è il frutto di una catena di eventi tecnologici che gli consentono di esistere (macchine che fabbricano la carta, macchine stampatrici, inchiostri, colle, coloranti e…lettori). Prima dell’esistenza delle macchine i libri si scrivevano a mano: per produrre una Bibbia occorreva un intero gregge di pecore, in grado di fornire le pelli per le pergamene, e quindi un monastero poteva realizzare tutt’al più due o tre Bibbie l’anno. Ma era poco importante, perché allora non c’erano i lettori.
Anche un filosofo, oggi, può filosofare perché ha dietro di sé un sistema tecnologico di supporto. È un consumatore assoluto, perché non produce cibo, oggetti, servizi. Pensa e scrive. Del resto, in grandissima parte, le professioni tipiche di una società moderna (e in particolare quelle culturali) sono ben lontane dal produrre cibo, oggetti o servizi.
Leggere il proprio tempo e saperlo interpretare
Se il ruolo della cultura consiste anche (e forse soprattutto), nella capacità di saper ‘leggere’, cioè capire, il proprio tempo e di ‘scriverci’ sopra, cioè di saperlo guidare, orientare, non sarebbe bene che gli ‘uomini di cultura’ imparassero a conoscere un po’ meglio la macchina tecno-scientifica-energetica che regge il sistema e che sta oggi trasformando il mondo a una velocità crescente?
È tipico degli uomini di cultura lamentarsi dei danni e delle storture provocate da determinate applicazioni tecnologiche, e magari anche (con decenni di ritardo!) delle conseguenze nefaste di uno sviluppo che mette in pericolo l’ambiente e il clima. Ma dove erano quando si doveva cercare di capire questi processi e di intervenire?
La gestione di questa macchina è stata affidata all’economia (che ha regole sue, tutte diverse) e alla politica, che agisce per sua natura soprattutto sul breve o brevissimo termine. Ovviamente il panorama non è così desolante: ci sono state, meritoriamente, persone che hanno cercato di capire questi processi e di influenzare il loro andamento. Ma troppo poche, e con troppe difficoltà nella diffusione delle idee.
Si torna al punto di partenza ossia quello dell’importanza della divulgazione nell’aiutare persone di ogni livello culturale a comprendere il ruolo della scienza e della tecnologia, grazie a un linguaggio (inteso nel senso più ampio) che possa far capire che hanno importanza non soltanto i singoli eventi (la conta delle galassie, la pecora Dolly, l’ultimo tipo di computer, o il nuovo farmaco contro l’Alzheimer): quello che conta infatti è capire come la conoscenza scientifica e l’innovazione tecnologia siano strumenti straordinari per ‘leggere’ e trasformare il mondo in cui viviamo.
Non è un caso se la ricerca in Italia soffre oggi dei mali che ben conosciamo, viste le condizioni in cui versa la cultura scientifica. Anche questo dovrebbe costituire un fondamentale obiettivo della divulgazione: spiegare all’opinione pubblica che una società moderna e competitiva per essere tale non può permettersi di investire poco e male nella ricerca e nell’innovazione, e addirittura praticare una selezione basata sulle combines e non sul merito.
Divulgare il metodo: il ‘modello’ Feynman
Un ultimo importante fattore è fuor di dubbio il metodo. La scienza opera con regole destinate a rendere le conoscenze acquisite un patrimonio comune. La regola principale infatti è di dimostrare sempre quello che si afferma (diversamente da ciò che avviene nella filosofia, nella politica o nella religione). Per questo le conoscenze, una volta superate le forche caudine di controlli incrociati, da soggettive possono diventare intersoggettive. E possono contribuire a far crescere, nel tempo, il corpo solido del sapere.
Nelle scuole, purtroppo, si insegnano le scienze, ma non la scienza, intesa come metodo, come approccio ai problemi e ricerca delle soluzioni. Un metodo che chiede di giudicare sulla base dei fatti, e non delle opinioni, e dove l’applicazione delle regole comporta non soltanto severità nelle procedure, ma anche integrità morale da parte di chi opera.
Anche questo è il ruolo della divulgazione: spiegare l’etica che è alla base della correttezza scientifica, e che deve sempre essere rispettata.
Proprio per questo è molto illuminante richiamare un brano del discorso che Richard Phillips Feynman (1918-1988), uno dei più estrosi e autorevoli fisici del Novecento, insignito del premio Nobel nel 1965, tenne al CALTECH (California Institute of Technology) in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 1974-75. Discorso che è anche un modello di divulgazione scientifica.
«Nei mari del Sud vivono popoli che praticano [il] ‘culto dal cargo’, dove ‘cargo’ sta per ‘merce portata dagli aerei’. Durante la guerra hanno visto atterrare aerei carichi di ogni bendidio, e ora vogliono che la cosa continui. Hanno tracciato delle specie di piste, ai cui lati accendono fuochi; hanno costruito una capanna di legno in cui siede un uomo con due legni a mo’ di cuffie, da cui spuntano pezzi di bambù a mo’ di antenne – è il controllore di volo –, e aspettano che gli aerei atterrino. Hanno fatto tutto correttamente. La forma è perfetta e rispetta quella precedente: ma la cosa non funziona. Non atterra nessun aereo. Quindi parlo di ‘scienze da cargo cult’ perché sono scienze che seguono i precetti e le forme apparenti dell’indagine scientifica, senza però un elemento essenziale, dato che gli aerei non atterrano.
A questo punto dovrei indicarvi l’elemento mancante. Ma sarebbe difficile quanto spiegare agli isolani dei mari del Sud come fare ad arrivare a un certo benessere. Non è semplice quanto dire loro come migliorare la forma delle cuffie. C’è soprattutto una cosa che in genere manca nelle scienze da cargo cult: un’idea che tutti ci auguriamo abbiate imparato a scuola – non la esplicitiamo mai, speriamo che la scopriate da soli, grazie a tutti gli esempi di indagine scientifica che avete studiato. Ora invece sarà interessante formularla apertamente.
Si tratta dell’integrità scientifica. Un principio del pensiero scientifico che richiede una totale onestà, una disponibilità totale. Per esempio, quando si effettua un esperimento bisogna riferire tutto ciò che potrebbe invalidarlo, e non soltanto quel che sembra corretto, nonché le altre cause che potrebbero originare gli stessi risultati. Bisogna riferire tutti i punti superati con precedenti esperimenti, e cosa sia avvenuto di nuovo, e come, nonché accertarsi che tutti possano capirlo. Dovete comunicare i dettagli che potrebbero mettere in forse l’interpretazione, se vi sono noti. Dovete fare del vostro meglio per spiegare qualsiasi eventuale discordanza. Se elaborate una teoria, e la pubblicate, dovete pubblicare tutti i fatti che la contraddicono, oltre a quelli che la sostengono.
Ma c’è un problema ancor più sottile. Quando avete sistemato le idee in una teoria completa e la riferite agli altri, dovete accertarvi che i fenomeni che la teoria spiega non siano soltanto quelli che vi hanno fatto venire in mente l’idea originale: la teoria, una volta completata, deve quadrare anche con altri fenomeni.
Occorre fornire tutte le informazioni per aiutare gli altri a giudicare il valore del vostro contributo; non si possono dare solo quelle che orientino in un determinato modo.
Questa idea sarà ancora più chiara se la si confronta, per esempio, con la pubblicità. Ieri sera ho sentito che l’olio Wesson non impregna il cibo. È vero. Non è uno slogan disonesto. Ma sto parlando di qualcosa di più: l’integrità scientifica si colloca a un livello più alto della non disonestà. Quello slogan pubblicitario avrebbe dovuto aggiungere che nessun olio impregna il cibo, alla giusta temperatura. A una temperatura diversa, invece, tutti impregnano il cibo, compreso l’olio Wesson. In questo modo si fornisce un rapporto causale, non il semplice fatto (che in sé è vero). Questa è la differenza con la quale dobbiamo misurarci.
Sappiamo per esperienza che la verità finisce col venire a galla. Altri scienziati ripeteranno il vostro esperimento e scopriranno se era corretto o meno. I fenomeni della natura coincideranno o meno con la vostra teoria. E magari otterrete una fama temporanea, ma se non avrete lavorato con molta precisione la vostra reputazione di scienziato non sarà buona. Sono questa integrità e questa volontà di non ingannarsi che mancano alla ricerca delle scienze da cargo cult.
Gran parte delle difficoltà, per le scienze da cargo cult, dipendono dall’argomento, dall’inapplicabilità dei criteri scientifici alla materia. Va nondimeno rimarcato che non sono le uniche difficoltà. Questi sono i motivi per cui gli aerei non atterrano, ma resta il fatto che non atterrano.
L’esperienza ci ha insegnato come evitare di autoingannarci. Faccio un esempio: Millikan ha misurato la carica di un elettrone con un esperimento in cui spruzzava goccioline d’olio, e ha ottenuto una risposta che ora noi sappiamo non essere del tutto esatta. Non lo è perché Millikan non aveva i dati esatti sulla viscosità dell’aria. È molto interessante studiare la storia delle misure della carica dell’elettrone, dopo Millikan. Se riportaste quelle misure su una curva temporale, vi accorgereste che la prima è leggermente superiore a quella di Millikan, la successiva ancora di poco superiore, e così via fino a raggiungere una cifra di parecchio più grande.
Perché mai non si è trovata subito la cifra più alta? È una storia di cui gli scienziati si vergognano, eppure il motivo è chiaro. Ogni volta che uno scienziato otteneva un valore molto superiore a quello di Millikan, pensava di aver sbagliato e cercava l’errore. Se la misura era più vicina a quella di Millikan, non tentava di rintracciare l’errore in modo minuzioso: eliminava i valori troppo discordanti. Ci è servito da lezione, non soffriamo più di questa malattia.
Mi spiace però dire che a quanto ne so non esiste un corso che insegni la storia, la lunga storia di come si sia imparato a evitare l’autoinganno. Forse contiamo sul fatto che gli studenti la imparino per osmosi.
Primo principio: non ingannare se stessi. La persona più facile da ingannare siamo proprio noi stessi, quindi occorre molta vigilanza. Se non v’ingannate, non ingannerete neppure gli altri scienziati: vi basterà essere normalmente onesti.
Vorrei aggiungere una cosa assai meno essenziale per la scienza, ma di cui sono personalmente convinto: non si deve nemmeno tentare di ingannare i non scienziati, quando si parla da scienziato. Non voglio consigliarvi di non mentire a vostra moglie o alla vostra fidanzata, cioè nella vita quotidiana, quando vi comportate come ogni altro essere umano. Vedetevela col vostro rabbino. Parlo di un’integrità ulteriore, specifica; parlo del non mentire, anzi del farsi in quattro per dimostrare dove forse si è sbagliato: ciò fa parte dell’agire scientifico. E questa è la vostra responsabilità di scienziati, sia nei confronti dei colleghi, sia verso tutti gli altri.
Sono rimasto sorpreso da una conversazione con un amico che doveva parlare alla radio. Lui si occupa di cosmologia e di astronomia, e si chiedeva come fare a spiegare le applicazioni pratiche delle sue ricerche. ‘Tanto’, dissi io, ‘non ce ne sono’. ‘Già, ma se lo rivelo non me le finanzieranno mai più’. Secondo me questa era una disonestà. Se vi presentate come uno scienziato, dovete spiegare quello che state facendo. Se nessuno vorrà aiutarvi, be’... può succedere.
Un esempio pratico del principio che vi ho indicato è questo: se avete deciso di verificare una teoria o di spiegare qualche nuovo concetto, dovete pubblicarne i risultati, qualsiasi essi siano. Se pubblichiamo risultati soltanto di un tipo possiamo far apparire valida la nostra argomentazione. Ma dobbiamo pubblicare anche i dati negativi.
La stessa rigorosa integrità va mantenuta quando enti governativi vi chiedono un parere. Immaginiamo che un senatore vi domandi se convenga cercar petrolio in una località della sua circoscrizione, e invece a vostro avviso sia meglio farlo altrove. Se non pubblicate i vostri risultati, non avrete dato nessun parere scientifico. Sarete stati usati. Se la vostra risposta sarà confacente agli interessi governativi o politici, la useranno come argomento a loro favore; altrimenti, non la pubblicheranno di certo. Questa non la chiamerei una consulenza scientifica.
Ci sono altri errori tipici di una scarsa scientificità. Quando insegnavo alla Cornell, avevo a che fare con i colleghi di psicologia. Una studentessa mi descrisse l’esperimento che intendeva fare. Era stato scoperto che in circostanze X i topi reagivano con un comportamento A. Lei voleva modificare le circostanze da X a Y e controllare se la reazione sarebbe rimasta A.
Le spiegai che occorreva innanzitutto ripetere in laboratorio il primo esperimento, per vedere se il risultato era sempre A nelle stesse condizioni X; poi avrebbe potuto cambiare le condizioni in Y, e vedere se A mutava. Soltanto così avrebbe saputo se la differenza era dovuta alla variante scelta.
Felice del consiglio, la studentessa andò a trovare il suo professore. Giammai, disse lui: la prima esperienza è già stata fatta, ripeterla sarebbe una perdita di tempo. Era il 1947, e la prassi corrente era di non ripetere gli esperimenti psicologici ma soltanto di modificarne le condizioni.
Oggi rischiamo di trovarci nella stessa situazione, persino nel glorioso campo della fisica. Sono rimasto sbalordito quando mi hanno riferito di un esperimento, svolto con il grande acceleratore di particelle del National Accelerator Laboratory, in cui un ricercatore ha utilizzato il deuterio. Per paragonare i risultati ottenuti con l’idrogeno pesante a quelli avuti con l’idrogeno leggero, ha utilizzato i dati dell’esperimento con idrogeno leggero eseguito da un altro ricercatore, con altre apparecchiature. Gli si è chiesto il perché, e ha spiegato che, con il pretesto che tanto i dati sarebbero stati uguali a quelli ottenuti in precedenza, non gli avevano concesso l’uso delle apparecchiature (sono costosissime e vengono assegnate per pochissimo tempo) per ripetere l’esperimento con l’idrogeno leggero. I responsabili del programma del National Accelerator Laboratory sono tanto smaniosi di nuovi risultati, e pertanto nuova pubblicità e altri fondi, da rischiare di distruggere con le loro mani il valore degli esperimenti, che pure sono l’unico scopo del laboratorio che dirigono. È spesso difficile per i ricercatori del NAL completare il proprio lavoro nei modi che l’integrità scientifica esige.
Non tutti gli esperimenti di psicologia sono però raffazzonati come quello di cui vi ho raccontato. Migliaia di topi hanno scorrazzato per i labirinti senza che si approdasse a nulla. Nel 1937, però, un certo Young compì un esperimento assai interessante. Aveva costruito un lungo corridoio, che aveva su un lato le porte da cui i topi entravano e sull’altro delle porte dietro alle quali si trovava il cibo. Voleva vedere se riusciva a insegnare ai topi a passare dalla terza porta a partire da quella da cui entravano, qualunque essa fosse. Invece no, i topi si precipitavano direttamente verso la porta che nascondeva il cibo la volta precedente.
Come facevano a riconoscere proprio quella, in un corridoio dove ogni porta era identica all’altra? Quella porta doveva avere qualcosa di particolare. Young le riverniciò tutte, e controllò che la superficie fosse sempre assolutamente liscia. Eppure i topi coglievano una differenza. Forse annusavano l’odore del cibo? Young sparse dei prodotti chimici, che modificavano l’odore a ogni passaggio. I topi continuavano a distinguere una qualche differenza. Suppose allora che i topi si orientassero alla luce del laboratorio, proprio come delle persone, e oscurò il corridoio. Niente da fare.
Infine scoprì che i topi si orientavano col rumore della loro corsa nel corridoio, e lo cosparse di sabbia. Una dopo l’altra, aveva eliminato ogni possibilità, ottenendo così che i topi passassero dalla terza porta.
Ora, dal punto di vista scientifico l’esperimento di Young merita trenta e lode; dà senso a tutti gli altri, perché scopre gli indizi seguiti davvero dai topi, e non quelli immaginati dal ricercatore. Inoltre, ci indica esattamente le condizioni in cui operare, in tutti gli esperimenti simili, per renderli precisi e controllarne ogni elemento.
Ho studiato gli sviluppi di questa ricerca. I resoconti degli esperimenti successivi non accennavano mai a Young. Nessuno faceva uso dei suoi criteri, né copriva di sabbia i corridoi. Continuavano a far correre i topi come prima, senza tenere conto delle grandi scoperte di Young e senza citarne le pubblicazioni, perché Young non aveva scoperto nulla di nuovo sui topi. In realtà aveva scoperto tutto quello che occorreva sapere. Trascurare ricerche come queste è tipico delle scienze da cargo cult.
Un ultimo esempio: gli esperimenti sulla percezione extrasensoriale condotti da Rhine e altri. Le critiche e le autocritiche sono state assai numerose, le tecniche sperimentali sono migliorate, e contemporaneamente sono diventati sempre meno clamorosi i risultati, fino a scomparire. Tutti i parapsicologi sono a caccia dell’esperimento che possa essere ripetuto in identiche condizioni e con identici risultati, così da ottenere dei dati statistici. Fanno correre un milione di topi... no, scusate, di persone, e ottengono un certo dato statistico. Ma ripetendo l’esperimento non ottengono lo stesso dato. E quindi Rhine sostiene che è irrilevante giungere a un esperimento ripetibile. Ma questa è scienza?
Rhine parla anche di una nuova modalità di selezione, nel discorso con cui si dimette dalla carica di direttore dell’Istituto di parapsicologia. Nel dire ai colleghi quello che devono fare, raccomanda di dedicarsi agli studenti che abbiano dimostrato la capacità di ottenere con regolarità dei risultati soddisfacenti; di non perdere tempo con studenti ambiziosi e precisi, che ottengono raramente risultati. Questo è molto grave. È pericoloso insegnare agli studenti il modo per ottenere risultati a ogni costo, invece del modo di condurre un esperimento con integrità scientifica.
Vi auguro una cosa sola: la fortuna di trovarvi sempre in una situazione che vi consenta di mantenere liberamente l’integrità di cui ho parlato, di non sentirvi costretti a perderla per conservare il posto, trovare fondi, o altro. Possiate avere sempre questa libertà». (R.P. Feynman, «Surely you’re joking, Mr. Feynman!». Adventures of a curious character, ed. E. Hutchings, New York-London 1985; trad. it. «Sta scherzando, Mr. Feynman!». Vita e avventure di uno scienziato curioso, Bologna, Zanichelli, 1988, pp. 339-44: pubblicato per gentile concessione dell’editore Zanichelli).