Le "temporali calamità"
Vergando il prologo della sua Cronica, all'indomani della Peste Nera e delle sue sequele, sin dalle prime righe Matteo Villani evocava quella che a lui e ad una buona parte dei suoi contemporanei pareva un'evidenza: cioè "che per la macchia del peccato la generazione umana tutta è sottoposta alle temporali calamità e a molta miseria e a innumerabili mali" (1). L'affermazione del mercante fiorentino era di carattere generale ed in certo senso soffusa di pessimismo anche se, a ben guardare, si trattava piuttosto di altro. Matteo, come il ben più noto suo fratello maggiore Giovanni, di cui aveva intrapreso di continuare l'opera, sentiva il bisogno d'inquadrare la narrazione degli eventi d'una storia che per l'epoca si poteva dire universale, comprendendo essa pressoché tutto quello di cui si aveva allora notizia in Italia. Ora, lo scrittore enumerava tutta una serie di deplorevoli vicissitudini umane accanto a quelle che agli uomini non potevano essere ascritte, come appunto "pestilenzie, mortalità e fame, diluvi, incendi, naufragi" (2). Tutto quanto si svolgeva nel mondo sublunare pareva indubitabile, però, che fosse condizionato da forze superiori, celesti e divine: né la pur vasta cultura del tempo, come quella delle precedenti generazioni e di parecchie delle successive, offriva coordinate più attendibili per servire da inquadramento. Si trattava di una cultura all'interno della quale era tuttora molto vivo - se non preponderante - un sottofondo escatologico ed al cui orizzonte più o meno lontano si profilava la "fine dei tempi".
Non per la paratattica enumerazione di Matteo Villani, ma per l'ancora inadeguata possibilità di sceverarne e identificarne l'incidenza, non è consentito a tutt'oggi valutare forse nemmeno approssimativamente il peso specifico delle "mortalità" nell'insieme dei processi storici dell'Europa e dell'Italia del Trecento. Un'assai nutrita serie di studi si è certo proposta, soprattutto in questo secolo, di misurare l'entità del fenomeno e di esaminarne i complessi aspetti, da quello demografico o sociale a quello economico o spirituale. I risultati permangono piuttosto ridotti e senza dubbio la loro modestia va ascritta in parte alla qualità, per noi insufficiente, delle tracce che i contemporanei ci hanno lasciato delle ricadute delle varie, spesso molto gravi, pestilenze del secolo XIV (3). Se ad esempio si guardasse al caso veneziano si dovrebbe riconoscere che, pur stando alle indagini più recenti, il salasso demografico subìto nel 1348 dal grande centro lagunare rimane incerto fra le cifre di circa 38.000 o 70.000 morti su di una popolazione di 110-120.000 abitanti (4). Se un tale divario è riscontrabile su di un piano almeno apparentemente più individuabile, si comprenderà quante difficoltà si presentino nella sfera psicologica, mentale o religiosa.
Di fatto nondimeno quello delle pestilenze fu un fenomeno davvero globale, le cui varie facce hanno tutte un alto interesse ed una specifica rilevanza. Così non appare meno necessario porci, malgrado le difficoltà di risolverlo, anche il problema di come le popolazioni lo risentirono e lo contestualizzarono. Su tale piano si dirà subito che, se da un lato la comunità veneziana ricorse a delle categorie di giudizio in tutto simili a quelle di una gran parte della Penisola, dall'altro pervenne a reagire in modi abbastanza peculiari.
In questa complessa trama, in un certo senso, molto sta nello sceveramento fra particolarità lagunari e visuali o capacità di risposta assai comuni ad una zona più ampia, nonché nell'esame del gioco fra atteggiamenti culturali d'insieme e dispiegamento d'energie proprie a determinati ambienti umani.
Che le pestilenze sollevino una quistione di fondo non è del resto dubbio. Una società che ne fu investita in modo tanto vasto e profondo, e drammaticamente ne risentì, mostrò nello stesso tempo non solo di non interrompere sostanzialmente il funzionamento delle sue strutture, ma nemmeno fece apparire molto tarpati gli slanci di tante delle sue molteplici imprese. Così sarebbe sorprendente che in svariati settori quelle "mortalità", con le loro implicazioni ed altresì con l'accompagnamento di fattori di natura diversa, non avessero avuto delle ripercussioni più che serie e non avessero dato luogo o contribuito a situazioni di crisi. L'impiego di questo termine nondimeno, se non si riduce ad una tautologia, reca di per sé ben poca luce di fronte appunto alla robusta persistenza non solo delle abituali attività ma allo sviluppo di imprese belliche oltremodo cospicue, di operazioni economiche ad ampio raggio nonché di una maturazione culturale decisiva e di prim'ordine.
Senza invischiarsi in questa sede nella vexata quaestio della crisi del XIV secolo, sarà opportuno sottolineare che - fra le "temporali calamità" veneziane o meno del Trecento - le epidemie costituirono una pesante trama quotidiana che il secolo precedente non aveva conosciuto e che appunto avvolse tutte le società europee. La società italiana ne ebbe immediata e particolare coscienza, cercando da un lato di subirle in maniera mentalmente sostenibile e dall'altro di fronteggiarle su tutti i piani.
Alla quindicina di pesti che già Bartolomeo Cecchetti enumerava per la laguna oltre un secolo fa (5), studiosi successivi ne hanno aggiunta ancora qualcuna. L'intensità delle une e delle altre risultò varia, non essendovi dubbio peraltro che anche per la città di San Marco la più ardua da superare fu quella del 1348. Le loro ondate successive fecero comunque del Trecento un secolo particolare, in continuo confronto con simili calamità e pervaso dalla convinzione che esse costituissero insieme un elemento imprescindibile della vita collettiva ed un nemico con il quale era giuocoforza destreggiarsi e misurarsi per non soccombervi. Il notaio cretese Lorenzo de' Monaci, che redasse il suo Chronicon nel 1428, constatò che almeno dal 1348 a Venezia si era aperta una fase pressoché ininterrotta di simili angosciose prove (6).
Il vocabolario utilizzato per evocare via via tale calamità - a parte l'assai dotta gamma terminologica di cui sul tardi fece appunto sfoggio il de' Monaci - appare nei documenti ufficiali solo moderatamente originale. Eppure proprio la terribile Peste Nera venne designata con sfumature che non possono non apparire alquanto singolari. Il 21 luglio 1348 e poi ancora l'11 del mese successivo in due deliberazioni del senato la si menzionò come "caso fortuito" (7). Prima d'interpretare tale definizione senz'altro disinvolta, va osservato che essa rientrava nell'ottica volutamente riduttiva che dell'orribile fenomeno le autorità cercarono di proporre. In secondo luogo il termine "fortuito" rinviava mentalmente alla nozione di "accidentale", che in proposito ricorre ad esempio il 22 luglio 1348 nel Quaternus consiliorum del duca di Candia (8), giacché tutto quanto avveniva sulla terra era visto come una conseguenza non necessaria dell'azione delle forze cosmiche. Quando alla peste si rinviava in un contemporaneo registro delle Grazie, si parlava peraltro di "orribilem mortalitatis insultum", come per indicarne il carattere eccezionale ed eccessivo, forse anche indebito (9). In ogni caso questi atti ufficiali accoglievano la versione cristiano-ecclesiastica dell'evento, che consideravano come un effetto del giudizio divino (10). Nondimeno non risulta che a questo riguardo a Venezia ci si sia spinti molto oltre nelle cerimonie religiose propiziatorie nel corso del Trecento. Del resto in varie altre città italiane esse furono pure talora limitate o soppresse proprio per l'infuriare della peste (11).
Due erano le grandi versioni del flagello delle ripetute e devastanti mortalità. La prima lo considerava un effetto della corruzione dell'aria, provocata a sua volta dagli influssi congiunti di determinati corpi celesti; la seconda vi ravvisava senz'altro un intervento della divinità, che in tal modo castigava gli uomini peccatori. È superfluo ricordare che non solo i medici si rivelarono del tutto impotenti di fronte a tale morbo, ma che il prestigio del loro sapere era sufficientemente basso perché le loro interpretazioni non venissero considerate molto attendibili né costituissero il punto di riferimento valido per un giudizio almeno verosimile. D'altra parte non è proprio detto che i fedeli fossero davvero convinti di aver peccato di più quando sopravveniva la terribile moria, ma sul piano mentale erano quasi sprovvisti di appigli per negare che Dio avesse la facoltà ed i mezzi per punirli quando lo ritenesse opportuno, al fine di riportarli sul più retto cammino e farli ravvedere. Senza dubbio, in ogni caso, per tutto un insieme di motivi, l'ascendente del clero che sosteneva a spada tratta simili tesi era maggiore di quello di coloro che si rifiutavano di attribuire la responsabilità della peste alle influenze degli astri. Non solo gli astrologi non costituivano un corpo potentemente organizzato e capillarmente insediato come quello degli ecclesiastici, ma la loro dottrina era meno afferrabile rispetto al ragionamento etico-religioso dei ministri del culto. Del resto, come dubitare che la divinità avesse più potere di tutti i pianeti o delle stelle? Infine, contro le affermazioni degli astrologi prendevano chiaramente posizione molti dotti laici. Francesco Petrarca, ad esempio, colse proprio l'occasione dell'epidemia del 1363 per trasformare la lettera in cui invitava l'amico Boccaccio a riparare a Venezia in una prolungata invettiva contro di essi e contro le loro pretese spiegazioni.
Il grande letterato soggiornava allora nella città lagunare, di cui doveva certamente apprezzare le misure messe in opera per la pubblica salubrità. Come più tardi il de' Monaci e senza dubbio alla stregua di tanti contemporanei colti o meno, il Petrarca era impressionato dall'incalzare pressoché ininterrotto delle epidemie dal 1348 in poi e dalla loro inusitata violenza (12). Non meraviglia che la sua mente creativa lo portasse anche più in là di buona parte dei credenti ad immaginare e quasi plasmare, personificandola, una forza malefica ed aggressiva dietro quelle ripetute calamità. Anche per lui senza dubbio il supremo motore e reggitore era Dio, anche ai suoi occhi le pestilenze erano provocate e volute da lui piuttosto che dagli astri o da altre cause naturali. Ma fra la divinità ed i peccatori prendevano sempre più forma, sotto le ondate delle epidemie, non solo per il Petrarca ma per le generazioni trecentesche innanzitutto italiane, il fantasma e l'azione di un essere superiore non puramente simbolico: la Morte.
Non stupisce affatto che tale processo si verificasse nello spirito del poeta che appunto nel suo Triumphus Mortis aveva abbozzato l'immagine di questa sorta di protagonista librantesi nell'aria fra il cielo e la terra. Si trattava di una forza che campeggiava ormai ampiamente nella sfera dei timori e delle angosce della sensibilità collettiva, non certo in contraddizione con i voleri divini, ma operante in modo assai autonomo e quasi svincolato da considerazioni morali e perfino religiose. Una figura pronta ancora a colpire secondo l'ottica cristiana chi maggiormente si abbandonava ai piaceri mondani, ma soprattutto ugualitaria nella inesorabilità del suo irrompere e del suo scatenarsi. Lo aveva appunto sottolineato il Petrarca:
Io son colei che si importuna e fera
chiamata son da voi, e sorda e cieca
gente a cui si fa notte innanzi sera (13).
Secondo l'autore toscano quella
[...> donna involta in veste negra,
con un furor qual io non so se mai
al tempo de' giganti fusse a Flegra (14)
mieteva le vite e gli stessi popoli con una spada, mentre gli artisti contemporanei la rappresentavano anche in atto di saettare o di recidere con una falce. Nella sua lettera del 1363 al Boccaccio da Venezia, dopo l'evocazione della mortalità che aveva già infierito su varie regioni italiane, il Petrarca la ricordava ancora come una inesausta e feroce guerriera (15), mentre il de' Monaci si limitava più tardi a coglierne la capacità di raggiungere ovunque e chiunque: "fugientes et remanentes ab hac peste indifferenter rapiebantur" (16).
Riprendendo una ben diffusa opinione, sempre secondo il de' Monaci, la gerarchia dei flagelli partiva dalla fame, proseguiva con il terremoto e culminava con la peste (17). Senza dubbio il cronista si riferiva a quanto era accaduto fra il 1347 ed il 1348, quando cioè ad una iniziale carestia avevano fatto seguito dei terremoti a Venezia e nel Veneto, dal de' Monaci appena segnalati di proposito (18) ed ancor prima ben descritti nella Cronica di Giovanni Villani. Nell'area lagunare la scossa tellurica era cominciata il 25 gennaio 1348, "nella quale rovinarono infiniti fummaiuoli, ovvero cammini, che ve ne avea assai belli e più campanili e molte case s'apersono [...> E significavano [...> danni e pestilenze" (19). Lungo tutto il Trecento, ma in base ad una radicata e molto diffusa visuale che investirà almeno anche il Cinque ed il Seicento, ogni grande calamità era preceduta ed annunciata da "segni". Su questo piano la cultura e la mentalità apparivano assai fortemente influenzate dal sapere astronomico-astrologico e per così dire scientifico dell'epoca. Non meraviglia affatto tuttavia che questo modo di vedere si coniugasse agevolmente e saldamente con l'ottica biblico-cristiana e che tale delinearsi dei "segni" fosse interpretato come un linguaggio divino carico di sensi prevalentemente morali.
Calamità collettive e salvazione s'incrociavano strettamente, al punto da fare parte del medesimo discorso, almeno secondo il modo in cui la sensibilità predominante lo faceva proprio. Fra cielo e terra intercorreva infatti, per queste generazioni, un dialogo diretto ed abbastanza serrato. Essendo il primo l'augurata destinazione dei credenti e la terra una zona di transito, appariva oltremodo persuasivo e normale che il primo parlasse ed ammiccasse ai fedeli ed in particolare li istradasse verso di sé. Non si trattava solo di un invito, in quanto quest'ultimo era accompagnato dal risvolto di un insieme di minacce e quasi d'interventi coercitivi, sia pur a scopo salutare. Fosse aumentata la coscienza di esser meno cristiani di prima o meno di quanto si dovesse esserlo, fosse il magistero ecclesiastico ad inculcarlo o un effettivo dilagare dell'attaccamento ai beni mondani ed una noncuranza per quelli spirituali, fatto sta che le calamità trecentesche e soprattutto la peste vennero ufficialmente considerate come legittime correzioni divine (non senza che accennasse ad apparire un senso di repulsione per simili pesanti castighi e che spuntasse un embrionale rigetto del loro preteso significato etico).
Quello che si pensava della peste, i modi in cui vi si reagiva, si stavano sempre più rivelando bifronti. La cultura dominante, o che ancora faceva di tutto per rimanere tale, non solo a livello dottrinale e pastorale, ma anche a quello della partecipazione effettiva e delle risposte di tanti Cristiani, mise in primo piano l'interpretazione etico-religiosa. Di fronte alle "mortalità" non si ricorse infatti soltanto alle cerimonie abituali, come le processioni, ma si incrementarono le manifestazioni del "patetico" nella pratica devota come nella raffigurazione artistica. In particolare si promossero iniziative penitenziali su assai ampia scala e circolarono forti inquietudini sulla fine dei tempi. Una cultura alternativa vera e propria cominciò nondimeno ad apparire in gestazione, e soprattutto i responsabili delle attività civili - come si vedrà specificatamente nel caso veneziano - si orientarono ed agirono in direzioni assai diverse, pur senza dissociarsi dalle visuali religiose in maniera esplicita ed ostensibile.
Concentrando le sue riflessioni sulle pestilenze ripetute e micidiali di cui era stata vittima Venezia, Lorenzo de' Monaci menzionava certo la tesi secondo la quale esse fossero provocate dalla corruzione dell'aria, causata a sua volta dalla disposizione dei pianeti e delle stelle ed in ultima istanza dalla volontà divina. Ma dovendo esprimere la sua convinzione profonda, egli concordava con quanto a suo modo aveva sostenuto il Petrarca nella lettera a Giovanni Boccaccio. Riguardo al preciso rapporto fra la peste ed i comportamenti umani, "io ti dico [scriveva all'amico> che i nostri mali nascono tutti dall'ira di Dio [...>, né prima avrà fine che pentiti e corretti gli animi a diverso tenore di vita si convertano o vinta dai meritati supplizi ceda e si prostri l'umana pervicacia" (20). Forte di quest'intima persuasione appunto, il Petrarca derideva le pretese degli astrologi: se il flagello fosse venuto da cause naturali, i raggi solari non avrebbero tardato a consumare o fugare i letali miasmi, che invece obbedivano a ben altra logica (21). A quella che ribadiva il de' Monaci: "credendum est has atrocissimas pestes a corruptione potius animorum quam aeris, propter nostra scelera et flagitia divinitus evenire. Deus enim, qui saepe ferit ut sanet, corripit ut parcat et plectit temporaliter ne aeternaliter irascatur [...> " (22).
Non veniva insomma percepito ed ancor meno esplicitamente colto che, impostato così, il dialogo fra cielo e terra era del tutto ineguale e poteva riuscir crudele. Eppure questo fu apparentemente il miglior modo in cui, in questa micidiale temperie trecentesca, si poterono e si seppero sopportare le "temporali calamità", ed in particolare quella consistente nella furia di un morbo fino ad allora inaudito e peraltro universale. Senza dubbio una capillarmente radicata e diffusa fede religiosa aiutò i credenti e svolse la funzione di pressoché sufficiente, se non rasserenante, equilibrio di fronte alle lacerazioni di ogni sorta ed alle angosce provocate dall'immane trionfo della morte.
Al punto che si poté persino intravedere senza totale scoraggiamento che quei "grandi segni e giudicii di Dio" fossero proprio del genere di quanti il Nuovo Testamento aveva predetto "che doveano apparire alla fine del secolo" e cioè al termine di ogni umana vicenda (23).
Senza alcun dubbio la peste giunse a Venezia dal mare, e cioè da uno dei porti già infetti ai quali la città era intensamente collegata, nelle prime settimane del 1348. Da un lato non si può certo chiedere che anche uno dei più avveduti governi dell'epoca si rendesse conto sin dalle prime avvisaglie che si trovava di fronte ad una calamità di proporzioni bibliche e di fulminea propagazione. Dall'altro, non solo a Venezia, vi fu una fase iniziale durante la quale, oltreché sorpresi, ci si sentì disorientati, malgrado che altre epidemie si fossero verificate assai di recente ed in alcuni casi fossero risultate assai micidiali. Simili inaudite calamità, che si trattasse di forti terremoti o appunto di preoccupanti pestilenze, provocavano un senso di sbigottimento, anche per il sottofondo mentale appena evocato, che le faceva in primo luogo apparire "naturali" e cosmiche insieme, come senza valido rimedio (24). Né l'organizzazione amministrativo-sanitaria, allora rudimentale pressoché ovunque, era tale da rappresentare un sia pur lontanamente adeguato ricorso.
Così non meraviglia che nessun riflesso ufficiale della peste sia stato rinvenuto a Venezia prima della fine del mese di marzo 1348, mentre ve ne furono vari a Candia circa due mesi prima (25). Alcune delle misure prese dalle autorità veneziane di quell'isola prefigurarono d'altronde quelle che furono decise in seguito nella capitale (26). Lo scarto che si poté osservare nell'intervento delle autorità lagunari, di circa due mesi fra l'assai chiara apparizione dell'epidemia e la messa in opera di misure per fronteggiarla, va considerato dunque come pressappoco "normale". Lo conferma ad esempio il caso di Orvieto; ma l'accurata indagine di Elisabeth Carpentier sottolinea come questa fosse quasi la regola (27). Inizialmente l'irruzione della mortalità veniva smussata e come assorbita: ma innumerevoli fino ai nostri giorni sono gli esempi di analoghi atteggiamenti che si situano fra l'incuria e la lentezza soprattutto sul piano amministrativo. D'altronde, in un emporio come quello realtino, poteva parere che si avesse un assai preciso interesse ad occultare la possibilità di ciò che avrebbe potuto danneggiare i fruttuosi scambi e gli affari.
Non v'è dubbio che quella del 1348 fu la prima epidemia davvero universale: tale carattere però poteva essere colto anche dagli osservatori più attenti solo con un certo scarto (28). Abituato dal suo ambiente mercantesco alle valutazioni quantitative, all'indomani di quella pestilenza Matteo Villani azzardava che essa avesse fatto più vittime del diluvio, calcolando non a torto il sopravvenuto aumento della popolazione del globo (29). Anche gli storici odierni sono tentati di attribuire al salasso del 1348 non solo il successivo calo netto della popolazione veneziana, ma addirittura il fatto che quel colpo non poté essere ricuperato demograficamente sin verso il 1500 (30). Nondimeno non va dimenticato che a Venezia, come altrove, a quella prima fierissima calamità ne seguirono varie altre e quindi prima di ulteriori ricerche non sono valutabili né la reale incidenza della catastrofe iniziale né quella delle mortalità successive.
Reinhold C. Mueller ha segnalato la tarda emergenza, forse in parte voluta, della consapevolezza lagunare del diradarsi delle file del ceto patrizio, giacché essa si sarebbe manifestata soltanto all'inizio del secolo XV (31). Tuttavia già il Gallicciolli, e sulla sua scia il Romanin, avevano sostenuto che nelle casate nobiliari si erano contate nel 1348 poco meno di un migliaio di vittime, con la totale estinzione di una cinquantina di famiglie (32). Che la desolazione fosse grandissima lo attestano i documenti stessi di quegli anni, si dicesse che la città era "plurimum depopulata et inhabitata" o si parlasse della "caritudo hominum" (33). Assai più eloquenti e probanti, in ogni modo, sono le decisioni che vennero prese fra il 12 ed il 15 giugno 1348 dal maggior consiglio. I membri del grande consesso non esitarono allora - e cioè all'indomani dell'apice della pestilenza - a riconoscere che per i vuoti creatisi nei loro ranghi la quarantia non raggiungeva più il quorum richiesto e persino il consiglio dei dieci non riusciva più a riunirsi al completo. Da un lato si decise di procedere a nuove nomine ma dall'altro, intervenendo troppo pochi ai suoi lavori e periclitando la condotta degli affari pubblici, il maggior consiglio ne delegò il disbrigo al senato il 22 giugno 1348 (34).
La prima misura per far fronte al flagello risulta quella presa il 30 marzo 1348 dal maggior consiglio, che nominò allora una commissione al fine d'investigare "super omni modo et via que videretur eis [Nicolò Venier, Marco Querini e Paolo Belegno> pro conservatione sanitatis et ad evitandum coruptionem in terra" (35). Il compito che s'imponeva sempre più era quello di occuparsi della massa di cadaveri che si erano andati accumulando e continuavano ad infestare l'area urbana. I tre magistrati cominciarono ad agire proprio con una proposta in questo senso: né la città mancava di risorse in merito, neppur di fronte al dilagare della morìa. Oltre agli spazi fino ad allora riservati alle tombe, tanto nell'interno delle chiese che in prossimità dei vari edifici ecclesiastici, v'erano varie località propizie nella laguna. Colà si crearono nuovi cimiteri, dov'era disponibile terreno consacrato, e quando i primi risultarono colmi se ne individuarono altri, come a Sant'Erasmo e a San Martino di Strada. Per la benedizione delle vittime e la celebrazione delle messe si dispose che vi rimanessero dei sacerdoti e si ordinò che le fosse avessero una profondità di almeno cinque piedi. In linea di massima per essere sepolti così doveva essere versato un obolo; ma, pur di disinfestare Venezia, non si esitò comunque ad espellere a spese pubbliche i corpi degli ammorbati per i quali nessuno fosse in grado di pagare.
Era questo solo un aspetto del problema, giacché i morti o i moribondi andavano individuati tempestivamente. Secondo Lorenzo de' Monaci - come non è neppure difficile supporre - un certo numero venne avviato al cimitero ancor prima di spirare (36). Ve n'era che cessavano di vivere senza aver ottenuto i sacramenti, altri che nottetempo erano sepolti di soppiatto nel suolo pubblico o addirittura sotto i pavimenti delle case. Proprio rievocando simile dramma collettivo, il fetore dei corpi nelle case deserte e lo spettacolo degli oggetti preziosi lasciati in abbandono, il cronista, a mo' di postumo epitaffio, scrisse: "tota civitas unum erat sepulcrum" (37). Come in tanti altri luoghi, anche a Venezia lo sgomento e la paura giunsero ad infrangere i legami familiari più stretti. Del resto tale fenomeno non venne anche esplicitamente giustificato e simili comportamenti approvati dalle menti più fredde (38)?
Assai più per l'esigenza di sopravvivere che per carità o assistenza, dunque, le autorità si valsero della preesistente struttura dei capi di sestiere, rinforzando l'opera di ciascuno di essi con tre "buoni uomini". Questi drappelli e tali sorveglianti erano incaricati di tener d'occhio o di visitare le singole case e di provvedere al trasporto dei cadaveri ritrovati. Giacché poi v'era a Venezia la consuetudine popolare di esporre i morti al compianto ed all'obolo dei vicini o dei passanti, o sulla soglia o nell'ambito della casa, tale usanza venne rigorosamente vietata(39. Fino al luglio del 1348 - e cioè sino a quando si poté percepire con chiarezza il calare della pestilenza - ai capi dei sestieri era stato affidato altresì il compito di dare la caccia ai forestieri che fossero approdati a Venezia già colpiti dal morbo. A chi avesse infranto il divieto di entrarvi in quelle condizioni - ed in particolare a coloro che ne avessero favorito l'ingresso - s'infliggevano il carcere, un'ammenda e la combustione del vascello.
Senza dubbio era relativamente più realizzabile liberare la città dai cadaveri che impedir ai vivi di entrarvi. Perciò si presero delle misure severe: tutte le barche dirette a Venezia vennero sottoposte ad una sorveglianza speciale affinché ogni appestato potesse essere inesorabilmente respinto (eccettuati gli ambasciatori, i negozianti più cospicui e qualche altra persona di particolare riguardo). Naturalmente molto severe furono le pene in cui sarebbero incorsi i barcaiuoli che avessero osato introdurre dei morti. Si temeva infatti che i corpi delle vittime della pestilenza, che certi famigliari intendevano ricuperare e seppellire in città, potessero riattizzarvi il morbo; perciò, per la durata di un anno a partire dal 10 luglio 1348, nessuna spoglia doveva esservi riportata: la barca che avesse tentato di farlo andava bruciata ed il suo conducente gettato in prigione per un mese (40). Meraviglia alquanto che le autorità avessero atteso quella stessa data per proscrivere le carni porcine in cattivo stato, alle quali anche in altre città era attribuita la corruzione dell'aria (41). Anche per quanto riguardava la vendita del vino non si era saputo bene cosa fare e si erano prese decisioni che poi vennero corrette. In un primo momento si era ordinato di chiudere le osterie e di vietare alle barche di offrire vino al minuto lungo i rivi. Proprio il 10 luglio si consentì però - per il sopravvenuto ottimismo, o per la pressione degli interessi in gioco? - di far riaprire otto osterie a Rialto e cinque a San Marco, sia pure con un preciso orario di apertura: si era d'altronde constatato che erano proliferate le mescite abusive (42).
Una calamità tanto vasta e micidiale perturbò profondamente non solo la vita quotidiana ma anche le più essenziali esigenze amministrative, patrimoniali, finanziarie e marittime. Come ha giustamente sottolineato Elisabeth Crouzet-Pavan, la pestilenza del 1348 rimase impressa nella memoria collettiva e politica sino in pieno Quattrocento (43), benché quelle del 1307 e del 1320 avessero posto già seri problemi, in particolare per quanto riguardava gli insepolti ed i cimiteri (44). Grazie anche alla problematica della sua indagine, questa studiosa ha rilevato che la dinamica della conquista e del controllo dello spazio urbano come delle bonifiche subì un brusco arresto nel 1348, mentre il crollo demografico rimase ben percepibile almeno fino al 1353 (45).
Solo intorno al 1360 si poté scorgere una timida ripresa in questo significativo settore, in particolare nelle aree periferiche dell'Angelo Raffaele e di San Nicolò dei Mendicoli, di Santa Margherita e di Santa Croce (46).
Allo stato attuale delle ricerche non è ancora consentito misurare su tutti i piani il peso specifico della Peste Nera a Venezia e nemmeno quello delle analoghe calamità che la seguirono. Poiché la maggior parte dei documenti presi in considerazione è stata quella emanata dalle pubbliche magistrature, malgrado poco meno di un secolo e mezzo di epidemie più o meno violente, una prima constatazione nondimeno s'impone: quella di un organismo che non solo non si accasciò ma si ricompose di continuo e fece fronte in modo più che ragguardevole ai compiti che si trovò dinanzi. Questo malgrado la crisi che investì le contrade dislocando degli assetti antichi, malgrado il rinnovamento del paesaggio sociale ed umano che risultò dall'immigrazione dei nuovi arrivati.
Scrivendo proprio all'indomani della Peste Nera, essa apparve a Matteo Villani una svolta epocale, come "uno rinnovellamento di tempo e secolo" (47), anche se senza dubbio il cronista si rendeva conto fino ad un certo punto del significato di quanto scriveva. Da un punto di vista etico tradizionale, quello di cui ci sono stati testimoni tanto i fratelli Villani ed il Petrarca quanto Lorenzo de' Monaci, la delusione fu nondimeno pressoché completa: non solo il flagello non aveva reso gli uomini migliori, ma li aveva addirittura ancor più immersi in una farragine di vizi. Anzi, con il ripetersi delle pestilenze, si poté proprio osservare lo stesso: che cioè l'intervento divino non faceva affatto ravvedere i superstiti, si trattasse della catastrofe del 1348 o di quella del 1362 che pur, secondo Matteo Villani, fece a Venezia 20.000 vittime (48). Secondo le informazioni che gli giungevano dalle varie parti e senza dubbio anche dall'emporio lagunare, l'interessato cronista fiorentino non aveva affatto appreso che in alcun centro di rilievo si fossero verificati fenomeni di ravvedimento collettivo o di serio ricupero morale (49).
Sovente più attenti alle vicende di più apparente risonanza o semplicemente di più agevole documentazione, gli studiosi hanno ancora molto cammino da percorrere per stabilire in quale misura i costumi, i comportamenti morali e giuridici, le relazioni sociali risentirono nel corso del Trecento del dramma ricorrente e così diffuso della peste. Senza alcun dubbio quest'ultima non ebbe soltanto qua e là delle ricadute, in particolare nella sfera politica o economica; senza alcun dubbio tutto un insieme di rapporti umani ne uscì più o meno profondamente intaccato, talvolta sul breve talaltra sul lungo periodo. Né ovviamente sarebbe meno notevole mettere in rilievo quel che resistette e ciò che, senza rimanere proprio inalterato, si protrasse nel tempo all'interno di ciascuna compagine peninsulare.
Per quanto riguarda Venezia è chiaro che occorre andare al di là di certe testimonianze dell'epoca, improntate inevitabilmente ancora ad un'ottica marcatamente religiosa (anche se questa era allora la sola capace di offrire dei forti sostegni psicologico-intellettuali per contestualizzare e sopportare l'immane disastro). Non è certo permesso di sceverare se coloro che furono investiti dalla rilassatezza nei riguardi della disciplina precedentemente osservata o ritenuta valida, che si gettarono con avidità maggiore di prima sulla via del guadagno o del successo mondano, quanti insomma allentarono in un modo o in un altro i tradizionali ormeggi etici, risultarono una maggioranza o solo una minoranza davvero ridotta. E comunque almeno possibile rilevare nell'ambiente lagunare un insieme di reazioni e di atteggiamenti che, da un lato, confermavano la sua fedeltà a certe visuali ed a certe impegnative scelte economico-politiche, dall'altro indicavano la ferma volontà di evitare un tracollo, di sventare ogni riflusso di potenza, di superare la tremenda prova facendo appello a tutte le proprie energie. Se i responsabili lagunari non mettevano esplicitamente in dubbio la visuale del castigo divino, presero delle iniziative che non apparivano proprio in linea con essa e sembrarono più di prima contare sulle sole loro forze per attutire gli effetti di quell'intervento ed in fondo prescindere da esso.
Certo, questo atteggiamento non fu proprio soltanto delle autorità veneziane, ritrovandosene tracce del tutto analoghe negli altri casi indagati. Nell'ampio capitolo in cui Matteo Villani, all'indomani della Peste Nera, ne tracciò un quadro d'insieme e cercò di valutarne la durata media, egli affermò che "la successione di questa pestilenza durava nel paese ove s'apprendeva cinque mesi continovi [...>: e questo avemmo per isperienza certa di molti paesi" (50). La stima del cronista fiorentino risulta sostanzialmente confermata sia da quanto accadde a Venezia sia da quanto si verificò ad esempio ad Orvieto. In quest'ultima città la fase acuta della Peste Nera si protrasse almeno dai primi di maggio al settembre 1348, mentre nell'emporio lagunare occupò i mesi da marzo a giugno. I senatori infatti fecero vergare nei loro atti il 10 luglio 1348: "per misericordiam nostri altissimi Creatoris, satis nostra civitas ab ista pestilentia liberata videtur" (51).
L'accurato studio da essa effettuato ha condotto Elisabeth Carpentier alla conclusione che malgrado il terribile flagello il governo di Orvieto si sforzò di continuare ad assicurare alla città una vita normale. Non solo: per ben quattro mesi di moria non risultò dai registri pubblici che venissero presi provvedimenti di rilievo. Guardando poi retrospettivamente anche agli anni 1349 e 1350 l'autrice è stata indotta ad affermare che la peste non aveva modificato profondamente né la vita politica né quella amministrativa o finanziaria del centro umbro. Ma se apparentemente quella calamità ebbe ben poche conseguenze dirette e durevoli nella sfera del governo locale, netti furono il calo della moralità pubblica e privata, il degrado dei costumi e lo slittamento della mentalità. Se insomma le strutture socio-economiche e politiche nell'insieme resistettero, i comportamenti individuali subirono una svolta (52). Carpentier ha visto anzi un effetto della mortalità collettiva nel "désir avide de profiter des biens de ce monde, fût-ce aux dépens d'autrui et au prix de malhonnûtetés ou de crimes" (53).
Né le ricerche di Guido Ruggiero né quelle di Donald E. Queller od anche il più recente studio di Klaus Bergdolt (54) hanno recato elementi adeguati per giungere a una simile conclusione per il caso veneziano. Se comunque a Orvieto la resipiscenza organizzativa sembrò risvegliarsi solo verso la fine del quarto mese di fronte alla peste, si è già visto che a Venezia la reazione fu senz'altro più rapida essendosi manifestata almeno in capo a due mesi. Come si è implicitamente notato nondimeno, pure il governo lagunare giunse a prendere una serie di misure consistenti e concertate con uno scarto in tutto simile a quello che caratterizzò Orvieto. Non fu questo certo solo l'effetto dell'"incredibilis languor aut terror" che secondo Lorenzo de' Monaci "indifferenter omnes apprehenderat" (55), tanto più che nell'aprile e nel maggio del 1348 non sarebbe affatto difficile rinvenire decisioni di notevole rilievo (56). Ciò non toglie che un insieme di vere e proprie reazioni all'eccezionale pestilenza si ebbe soltanto all'indomani del suo acme e cioè dal mese di giugno in poi. Si dichiarò allora, come se lo si fosse assai meno scorto prima, che "pro reparatione status civitatis nostre [...> nobis [ai membri del maggior consiglio e quindi al patriziato> incumbat modum et viam exquirere per quam ipsa nostra civitas et per consequens Status noster valeat reformari et multe ac varie provisiones necessarie sint super pluribus factis ob casum mortalitatis" (57).
Da quel momento l'azione governativa si dispiegò in modo assai energico e pertinente, prendendo di mira cioè i fenomeni che maggiormente richiedevano interventi: la fuga dalla città, la disorganizzazione giuridico-patrimoniale ed i vuoti demografici. Il 10 giugno 1348 il maggior consiglio aveva decretato che da allora e sino alla fine del mese successivo ai pubblici ufficiali fosse vietato di lasciare Venezia, essendo consentito di partire solo a coloro che ne avessero fondati motivi. Quanto ai funzionari che si fossero già trovati fuori, essi dovevano rientrare entro pochi giorni sotto la pena per gli inadempienti della privazione dell'impiego e dei castighi che i capitolari dei singoli uffici prevedevano per l'abbandono del posto senza giusta causa. Questo ovviamente significava che la peste era stata ravvisata fino ad allora da tutti, esplicitamente o meno, come una valida ragione per fuggire. I vuoti creatisi nella macchina statale erano divenuti ormai insopportabili: nello stesso giorno si richiamavano infatti in città i notai e gli scrivani che ne fossero usciti da più di due mesi o lo avessero fatto senza permesso da allora in poi (58).
Per l'imperversare della morìa e la persistente paura simile decreto non ebbe né un effetto né un'applicazione immediati. Da un lato infatti si riscontrò assai di frequente in seguito la concessione di grazie per chi non vi aveva sufficientemente ottemperato, dall'altro il senato lo dovette sostanzialmente reiterare all'inizio del mese successivo (59). Particolarmente pregiudizievoli si erano rivelate la morte o la fuga dei notai, molto spesso preti o pievani; perciò il 5 luglio il senato decise di nominarne due nuovi per il miglior funzionamento degli uffici amministrativi e giudiziari. Essendone deceduti molti, lo stesso giorno i senatori disposero l'elezione di altri dodici notai per il disbrigo delle scritture della cancelleria inferiore, in particolare i testamenti. Ai notai subentrati sarebbe spettata la metà dei diritti che avrebbero dovuto esser versati agli scomparsi (60). Il 10 luglio si stabilì nella stessa sede che chi deteneva atti e carte attinenti a interessi rogati dai notai defunti li presentasse entro quindici giorni ai cancellieri pubblici: avrebbe ricevuto un premio chi avesse segnalato gli inadempienti, mentre questi ultimi si esponevano ad una cospicua multa; chi tratteneva presso di sé quei documenti infatti poteva danneggiare gravemente dei terzi (61). Ma anche lo Stato aveva le sue pretese da far valere, poiché era verosimile che molti beni di vittime della peste che non avessero fatto testamento e non avessero eredi "debeant applicari nostro Communi"; così, pure a quanti avessero segnalato simili situazioni andava un compenso (62).
Oltre agli interessi patrimoniali e fiscali da salvaguardare, occorreva provvedere a ripopolare Venezia che aveva ingente ed urgente bisogno di quasi ogni tipo di manodopera nonché di gente di mare. Fin dal 10 giugno, per soddisfare a simili esigenze, il maggior consiglio aveva graziato integralmente o in parte un certo numero di carcerati (63). Sulla sua scia il senato annullò il 18 luglio ogni pena corporale ed ogni multa ai carcerati per debiti, specialmente quelli contratti sulle galere come sulle navi armate o disarmate (64). Nell'estate del 1348 l'esigenza di rinsanguare i ranghi della popolazione s'impose con forza: così, dai detenuti, la pubblica clemenza si estese ai banditi. Fra questi ultimi, molto numerosi erano quelli che avevano subito una condanna dai cinque della pace: a partire dal 17 luglio e per sei mesi il senato concesse dunque a loro ed alle loro famiglie di tornare in città con le proprie masserizie (65).
Quanto agli artigiani ed ai garzoni forestieri di ambedue i sessi, sarebbero stati ammessi in qualsiasi Arte veneziana senza alcun versamento, per un periodo di due anni (66). Inoltre ogni forestiero residente a Venezia come qualsiasi altro navigante che fosse venuto ad installarvisi stabilmente con la famiglia avrebbe potuto negoziare per mare per la somma di 300 lire invece delle precedenti 50, previa presentazione ai provveditori di comun (67). Tutti i banditi che avessero accettato di tornare per almeno due anni avrebbero avuto il diritto d'imbarcarsi sulle galere armate dello Stato o di private persone (68). Qualsiasi debitore della camera dell'armamento, se fosse rientrato prima di sei mesi, solo o con la famiglia e le masserizie, purché s'impegnasse a restare almeno due anni avrebbe ottenuto il totale condono ed avrebbe potuto navigare liberamente su qualsiasi vascello (69). Infine, a condizione d'insediarvisi per almeno due anni continui, chiunque si fosse venuto a presentare ai provveditori di comun, anche con la famiglia, avrebbe acquisito i diritti di cittadino di Venezia de intus (70).
Probabilmente questi provvedimenti non ottennero tutti gli effetti attesi, tanto più che lo sgomento provocato dalla peste persistette e venne rinfocolato dal risorgere delle epidemie successive. Tuttavia essi vennero presi al momento opportuno, non essendo concepibile che vi si ricorresse prima che la spaventosa pestilenza avesse accennato a calare. D'altra parte certe altre misure dimostrarono ancor meglio il tenace proposito non solo di preservare e ricomporre le maglie essenziali del tessuto sociale ma anche di assicurare alla città un solido avvenire.
Se non v'è dubbio che le popolazioni europee non erano mai state - né lo furono più in seguito - sottoposte a "temporali calamità" così massicce e pressoché continue come nel corso del Trecento, è pure certo che esse vissero allora una serie di esperienze, innanzitutto psicologiche, inaudite. La qualifica stagionale di "autunno del Medioevo" per simile periodo appare senz'altro un'immagine inadeguata e soprattutto un tentativo di caratterizzazione non riuscito (né la nozione di declino risulterebbe sotto ogni riguardo più soddisfacente). Si sa nondimeno quanto nel campo della storia le immagini abbiano successo anche quando sono più o meno inconsistenti e si può dire che la periodizzazione ne è rimasta particolarmente inficiata. Il Trecento ed il Quattrocento continuano a rappresentare una fase particolarmente carente di definizioni e sarebbe arbitrario volerne rinvenire una dall'angolo visuale dei drammi demografici, e non solo demografici, che pur le diedero una così forte impronta.
D'altra parte, per poco fondato che possa essere il ricondurre al presente le maggiori vicissitudini anteriori, si tratta di un modo di ritmare le grandi scansioni storiche al quale praticamente non si sa sfuggire. È dunque singolare che, nelle recenti retrospettive concernenti gli sviluppi degli atteggiamenti collettivi di fronte alla mortalità, storici e sociologi abbiano agevolmente trovato etichette per definirli ma non abbiano scorto somiglianze fra la situazione degli uomini dell'Occidente di fronte alle pestilenze e quella dei nostri contemporanei nei riguardi della morte. In realtà, nella misura, certo del tutto parziale, in cui si può dire che le generazioni più recenti hanno esorcizzato il suo spettro, si deve ammettere che a loro modo quelle del secolo XIV fecero qualcosa di molto simile. Certo, non si è trattato proprio dei medesimi spettri, giacché nel Trecento la morte incombé fisicamente non meno che nelle altre sfere, mentre ora la sua presenza/assenza è divenuta prevalentemente psicologica (e come tale sarebbe relegata a un imbarazzato silenzio). Ma se almeno per ipotesi i nostri contemporanei hanno "rimosso" una precedente preoccupazione metafisica, quest'ultima non poté non incontrare una sorta di rifiuto o di embrionale rigetto da parte di tutti coloro che, messi di fronte alla mortalità tanto a lungo ed in maniera tanto vasta, cercarono di scrollarsela di dosso, di far prevalere bene o male il loro attaccamento alla terra ed ai valori più dichiaratamente terreni.
Non è magari il caso di richiamarsi ancora una volta a Matteo Villani ed al suoaperto biasimo per quanti - e furono la maggioranza, né solo di fronte alla Peste Nera - alla minaccia dell'epidemia risposero con la fuga. Tanto il cronista fiorentino quanto il de' Monaci misero intenzionalmente in evidenza il fatto che quella via di scampo poco o punto valse a proteggere i cittadini colti dal terrore di una morte pressoché imminente (71). Le testimonianze dei contemporanei in tal senso abbondano e fanno come da cornice alla superba invenzione del Decameron. Non solo si ammise la legittimità della fuga ma ad essa ricorsero, oltre ai pubblici ufficiali, gli ecclesiastici ed i medici in gran numero. È quasi superfluo sottolineare che quell'assai massiccio venir meno alle proprie funzioni - che del resto si rinnovò in parecchie occasioni lungo il secolo XIV - non solo era un sintomo di terrore individuale e collettivo ma una forma di smentita al modo tradizionale e soprattutto religioso d'inquadrare quelle "temporali calamità". Piuttosto invano nel monumentale affresco del Camposanto di Pisa alla Morte era attribuita la scelta di scagliarsi contro i gaudenti invece che sui miseri.
Se l'abbandono delle città e la ricerca di un accogliente rifugio per i gaudenti o i timorosi non apparissero un indizio abbastanza persuasivo di una sorta di "decostruzione" collettiva della morte, altri significativi aspetti possono venir messi in evidenza. Innanzitutto il tentativo già menzionato delle autorità veneziane di sbarrare quanto possibile gli accessi alla città dalla laguna e dal mare. In secondo luogo, e soprattutto, l'energica espulsione precoce degli appestati e la pressoché cinica risposta riservata alla minoranza di coloro che chiedevano per essi un po' più di misericordia: che andassero pure ad assisterli sul loro percorso verso la sepoltura (72). Non ci appare tuttavia meno probante l'atteggiamento assunto con rigore e con grande determinazione dal governo nei confronti delle pretese ecclesiastiche, avanzate in particolare dal vescovo di Castello Nicolò Morosini, riguardo alla massa dei beni che per la morìa avrebbe dovuto esser attribuita al patrimonio sacro o del clero.
L'8 luglio 1348 infatti il senato prese posizione in merito, denunciando in termini non equivoci il pericolo che stavano correndo le sostanze di moltissimi cittadini, accumulate grazie ad arditi investimenti, a tante fatiche ed a ogni sorta di rischi. Se non fosse intervenuto in quella congiuntura "infortunii mortalitatis ", una grandissima porzione di beni mobili sarebbe finita in mano della Chiesa: "quod iniustum et inconveniens reputatur" (73). Quindi si ordinava che venissero sospesi i pagamenti diretti delle decime e dei legati affini, che dovevano esser depositati nelle casse dei procuratori di San Marco (74). Non si trattò affatto di una difesa momentanea dei beni dei laici, ma della prima manifestazione di un deciso atteggiamento che implicò il governo in una pluridecennale contesa non solo con il vescovo ma con la Santa Sede. Il destino delle anime, si ritenne, non andava perseguito né incrementato a scapito dei patrimoni e soprattutto l'amministrazione dei sacramenti non doveva esser subordinata a lasciti pii. I senatori accusarono anzi apertamente il Morosini di aver agito a grande scapito della salute spirituale dei fedeli e di essere responsabile, con le consegne da lui date al clero, della morte di molti senza comunione ed estrema unzione; per di più il vescovo aveva richiesto oblazioni anche da parte degli eredi e degli esecutori testamentari degli scomparsi (75).
Il governo sostenne allora assai spregiudicatamente la tesi secondo la quale tutti i legati di decime erano nulli perché i testatori non avevano agito di loro spontanea volontà ma erano stati intimiditi dalle minacce: "coacti dimisserunt et non sponte" (76). Questo modo di procedere da parte degli ecclesiastici venne denunciato come "contra jus", anteponendo i senatori chiaramente i diritti terreni alle prospettive religiose, anche se queste ultime non venivano da loro messe in discussione (77). Ispirandosi ad un criterio prevalentemente quantitativo ed economico, il governo propose alla Chiesa il versamento annuo di un forfait desunto dalla media dei proventi da essa incassati grazie alle decime nel decennio 1338-1347. Si prescindeva cioè da ogni speculazione, resa possibile altrimenti dall'immane pestilenza, e si "decostruivano" i benefici che nel contesto dell'universale mortalità ne sarebbero derivati al clero: il profitto del macabro dramma veniva rifiutato e respinto in nome degli scopi terreni ai quali avevano teso le energie civili accumulatrici di ricchezza. Per comporre il conflitto le autorità giunsero a proporre in seguito a Nicolò Morosini il versamento di somme abbastanza cospicue: ma dinanzi al suo ostinato diniego quelle offerte vennero ritirate. Alla morte del prelato, nel 1367, la vertenza non era ancora risolta: né lo fu con il suo successore Paolo Foscari, che si illuse di poter accampare pretese ancora maggiori, senza dubbio grazie alle epidemie ulteriormente sopravvenute. Il senato nondimeno si dimostrò ancor più irremovibile, poiché proibì che qualsiasi decima in denaro o in effetti, anche se espressamente ordinata dal testatore, potesse venir pagata senza il pubblico consenso. Un accordo venne raggiunto soltanto con il vescovo successivo, Giovanni Piacentini, che nel 1376 si contentò della somma globale relativamente modesta di 5.500 ducati (78).
Un sondaggio abbastanza ampio attraverso i testamenti veneziani del secolo XIV - parecchi dei quali olografi ed in volgare - non permette di valutare abbastanza il sostegno effettivo di questa linea di condotta da parte dei cittadini, ma non è dubbio che essa interpretasse sentimenti molto diffusi. Infatti, per quanto la cosa possa apparire logica, la preoccupazione primaria espressa in queste ultime volontà era di metter ordine nella propria situazione patrimoniale e nei propri averi. Era comune intenzione di chi redigeva un testamento che esso venisse poi ripreso e steso in buona forma giuridica negli atti di un notaio. In quegli olografi si constata però assai di frequente che non si ha cura di premettere le formule d'ispirazione ecclesiastica sovente di rito sotto la penna della maggioranza dei membri del clero che allora esercitava la professione notarile a Venezia. Un esempio abbastanza tipico è il testamento di Maffeo Bondulmer fu Marco, personaggio di cospicua fortuna abitante nella contrada di San Moisè. Le sue quattro pagine in volgare iniziano infatti così: "imperçò che '1 è convegnevol cosa pensar che nui devemo morir [...> si devemo proveder in li nostri fati in tal mainera che li romagna ordenadi" (79). D'altronde i notai medesimi nei loro preamboli non ricorsero regolarmente alla menzione di Dio o della Vergine e magari di Cristo o di santi particolari (80).
Nell'insieme i testatori trecenteschi veneziani, oltre a ricordare preliminarmente l'esigenza di dettar le ultime volontà per disporre con chiarezza dei propri beni, si limitavano a prender atto dell'incertezza e sovente del sopravvenire subitaneo della fine della vita. A questo riguardo va sottolineato che l'espressione "iudicium mortis" ricorreva molto più spesso di quella del "giudizio di Dio" nelle stesure di tali testamenti. Vi colpisce peraltro la rarità estrema delle allusioni alla pestilenza, esplicitamente quasi mai nominata (81). Non è affatto escluso tuttavia che il suo dilagare ed il suo ripetersi abbiano rese molto più intense le preoccupazioni e l'ansia per la durata della vita dei membri della propria famiglia. Ad esempio nel protocollo pergamenaceo del notaio Odorico Brutto, che rogò già nella prima metà del secolo XIV, i testatori prospettano assai regolarmente il caso della morte dei congiunti o di altri eredi e danno disposizioni per l'eventualità che ciò accada (82). Il fenomeno si ripete nelle ultime volontà registrate dalla maggioranza dei notai, da Rafaino Caresini a Niccolò Bettino e Cristiano Comasini, da Pietro Cavazza ed Abramo da San Maurizio a Vitale Fuschi, Domenico Dedo, Nicolò Decani e così via, sia prima che durante o dopo la Peste Nera. Si tratta talora di previsioni di morte addirittura a catena, anche di "fantolini" e comunque soprattutto dei propri figli (83).
Che le orribili pestilenze abbiano contribuito a far apparire ancor più del solito la morte sempre in agguato non meraviglia: ma di esse, lo si è appena accennato, si preferisce tacere. Questo silenzio non può essere che in parte un'opera di consapevole o soprattutto inconsapevole "rimozione". Nel testamento comunque si guarda costantemente alla propria fine in funzione degli averi e degli eredi, in una indiscutibile prospettiva di continuità terrena. Se queste ed altre similari sono le testimonianze di natura più individuale di fronte alla morte come al flagello che colpisce la collettività, quest'ultima non si limitò ovviamente a rivendicare i diritti dei vivi contro la speculazione ecclesiastica sulla scomparsa delle vittime della morìa. Non si tratta ora di ritessere gli eventi del Trecento in chiave di volontà di affermazione contro l'epidemia devastatrice, contro l'incertezza che un destino incalzante sembrava far pesare infierendo su Venezia. Non sarà inopportuno nondimeno accennare ad alcune altre risposte che quest'ultima diede alle minacce che la Peste Nera in particolare agitò contro di essa, anche se non va appunto dimenticato che durante la temperie trecentesca imperversarono "temporali calamità" similari e che le si fronteggiò senza sosta con efficace ardimento. Tutta la costruzione statale e le stesse fortune economiche della città vennero messe in forse durante quella fase e proprio allora di fatto vennero poste le fondamenta della potenza quattrocentesca della Repubblica. Chi avrebbe davvero potuto prevederle con la Dalmazia perduta nel 1358, con le forze genovesi all'assedio di Chioggia più tardi e con le incessanti ondate di mortalità per tutto il secolo?
Non sembra dubbio che un indomito fascio di energie sostenne l'azione della compagine veneziana nelle incerte tenzoni contro le micidiali ed orribili pestilenze come contro gli altri maggiori suoi nemici. Tutto questo volume reca le valide testimonianze del concorso di organiche forze che consentirono a Venezia non di scansare ma di superare e finalmente rimuovere i tremendi ostacoli che proprio allora le si pararono dinanzi (84). Su una Penisola in cui quasi ogni Stato giocò allora e per lungo tempo le proprie sorti, questa congiuntura non risparmiò Venezia. Come i suoi dirigenti ben percepirono, proprio allora il suo destino si decise ancora sul mare e, malgrado le spaventose ferite inferte dalle ricorrenti pesti, al mare essi rivolsero le loro maggiori cure.
Come accadde a Pistoia ed in altri centri italiani, le autorità veneziane presero invero delle iniziative assai eloquenti anche in altri settori, apparentemente più marginali ma altamente significativi. Se infatti esse non fecero come i magistrati senesi che vollero indurre tutti i superstiti dai 28 ai 40 anni a sposarsi per riformare il dissestato tessuto demografico (85), intervennero decisamente sul costume di portare il lutto. Il 7 agosto 1348, a epidemia di peste ormai in declino, ma con masse di persone colpite dalla scomparsa dei loro familiari, i senatori insorsero contro lo spettacolo lugubre ed affliggente offerto appunto dai loro concittadini vestiti di nero, verde scuro o altro mesto e funereo panno. Essi non esitarono ancora una volta cioè ad entrare nella sfera degli atteggiamenti tradizionali di fronte alla morte, per rimuovere la sua presenza dalla vita quotidiana della comunità. Non era affatto vero, essi proclamarono, che l'usanza del lutto recasse sollievo alle anime dei defunti. Ispirandosi vigorosamente alla nozione di cosa era "utile" o meno anche in questa manifestazione dei propri sentimenti, essi giudicarono che era di gran lunga preferibile "removere talem merorem et suo loco inducere plenum gaudium atque festum" (86). Infliggendo una non indifferente pena pecuniaria agli inadempienti, i senatori proibirono dunque di portare qualsiasi abito o velo "corozoso", tranne che alle donne ultracinquantenni o così povere che non avessero avuto altro da indossare (87).
Su altri piani, sui quali si era terribilmente manifestato l'impatto della Peste Nera, le autorità giunsero a reagire con criteri concordanti e con non minore energia. Poiché la mortalità aveva diminuito vari introiti ed in taluni casi provocato un sensibile aumento di spese, esse non esitarono ad instaurare un severo regime di austerità finanziaria che protrassero poi per diversi decenni. Fin dall'aprile del 1348 una commissione venne incaricata di esaminare le entrate e le uscite del comune nonché di reperire nuovi cespiti. Nel luglio dello stesso anno poi, da un lato, vennero ridotti gli stipendi di alti funzionari od ufficiali, dall'altro, fu diminuito il numero dei notai mentre venivano decretate varie altre misure di economia (88). L'unione antiturca del 1347, in particolare, e l'assolvimento dei compiti che ne derivarono per i Veneziani, gravavano sul bilancio con somme ingenti (89).
Nondimeno fu senz'altro sul piano marittimo, anteposto dalla città a tutti gli altri, che si tenne a reagire contro le "temporali calamità" per assicurare interventi navali e commerciali senza rotture. Lo spettacolo di questa continuità, arduamente promossa e realizzata, venne offerto in particolare dai riusciti sforzi per mantenere i preziosi collegamenti affidati alle galere da mercato. In particolare la partenza delle mude in direzione degli essenziali scali del Levante non venne pressoché mai interrotta dalle epidemie durante tutto il Trecento (90). Al momento della Peste Nera uno di questi convogli era già stato fatto partire nei primi mesi del 1348, ma occorreva allestirne un secondo "pro honore terre" o "cum honore Dominationis", come si scrisse. Così il 21 luglio venne accolta la proposta di Nicolò Volpe, Giovanni Loredan, Pietro Trevisan e Giovanni Querini di far partire per Cipro altre quattro galere, che avrebbero dovuto prendere il mare entro la fine di settembre (91). Lo stesso giorno si divisava di spedire anche tre galee al viaggio di Alessandria e tre per la "Romània" proprio mentre si doveva far fronte alla rivolta della vicina Capodistria, domata appunto nel settembre del 1348 (92).
Non si potrà certo sostenere che le varie ondate di peste non intralciassero fortemente la vita e le attività veneziane nel corso di tutto il Trecento. Si è anzi visto che la loro tremenda incidenza investì la compagine della città ben al di là delle carenze riscontrate nel corpo dei medici, della interruzione dei lavori per la sala del maggior consiglio o di altre simili quistioni tutto sommato minori. Si è peraltro inteso mettere soprattutto in rilievo il sempre rinnovato impegno con il quale la comunità fece loro fronte e, in determinati casi rivelatori, si adoperò per ribaltare le loro imperversanti conseguenze in nome dei propri valori terreni. Oltre alle implicazioni sul piano mentale e religioso di questa capacità di reagire vi furono ovviamente quelle sociali ed economiche (93). Si potrebbe quindi sottoscrivere il giudizio che ne ha dato in merito R.C. Mueller: "Appena passa la stagione pestifera e i morti sono seppelliti, i nobili e i ricchi cittadini tornano a Venezia, il mercato dei cambi riprende quota, i prezzi delle merci tornano ai livelli normali, le navi partono, i vuoti creati negli organi governativi vengono riempiti" (94). Erano quelli i comportamenti che malgrado le "temporali calamità" assicuravano il prevalere degli orizzonti terreni non solo nella sfera materiale ma in sostanza anche in quella spirituale.
1. Cf. Giovanni Villani, Cronica con le continuazioni di Matteo e Filippo, a cura di Giovanni Aquilecchia, Torino 1979, p. 291.
2. Ibid.
3. Un buon esempio dei limiti imposti dalla documentazione agli studiosi lo si trova nell'opera di Jean-Noël Biraben, Les hommes devant la peste en France et dans les pays européens et méditerranéens, Paris-La Haye 1975-1976, il cui primo robusto volume è dedicato a La peste dans l'histoire.
4. Cf. Reinhold C. Mueller, Aspetti sociali ed economici della peste a Venezia nel Medioevo, in AA.VV., Venezia e la peste 1348/1797, Venezia 1979, p. 71 (pp. 71-76). A proposito delle realtà demografiche ci sia consentito di rinviare alla trattazione che di esse è tuttora prevista ed allo stato di progetto nella serie tematica di questa Storia di Venezia.
5. Cf. Bartolomeo Cecchetti, La medicina in Venezia nel 1300, "Archivio Veneto", 25, 1883, p. 376 (pp. 361-381).
6. Cf. Lorenzo de' Monaci, Chronicon de rebus venetis, Venezia 1758, l. XVI, p. 315. Sulla peste del 1397 a Venezia, ad esempio, cf. Giorgio Cracco, Faire croire, Rome 1981 (Collection de l'École Française de Rome, 51), pp. 279-297.
7. Cf. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), cc. 151 e 161v.
8. Cf. Duca di Candia. Quaternus consiliorum (1340-1350), a cura di Paola Ratti Vidulich, Venezia 1976, p. 104.
9. Cf. B. Cecchetti, La medicina in Venezia, p. 379; il documento è nel reg. XII, c. 33v, alla data dell'8 gennaio 1349.
10. Cf. ad esempio l'atto già citato del Senato, Misti, reg. 24, C. 151 e Mario Brunetti, Venezia durante la peste del 1348, "Ateneo Veneto", 32, 1909, nr. I, pp. 289-311; nr. 2, pp. 5-42: nr. 1, p. 291.
11. Citiamo ad esempio la soppressione decisa ad Orvieto della festa maggiore della città, quella dell'Assunzione della Vergine: cf. Elisabeth Carpentier, Une ville devant la peste. Orvieto et la Peste Noire de 1348, Paris 1962, p. 126. Come in casi simili l'atteggiamento delle autorità orvietane fu meno radicale, così altrove i punti di vista e le conseguenti pressioni dei magistrati laici o delle istanze ecclesiastiche facevano apparire dei contrasti. In occasione della grave epidemia del 1340, a Firenze, mentre le autorità cittadine facevano di tutto per evitare gli assembramenti persino al momento delle esequie, il vescovo s'intromise per ottenere che si facesse una "grande processione, ove furono quasi tutti i cittadini maschi e femmine colla reliquia del corpo di Cristo [...> e andossi per esso per tutta la terra infino a ora di nona"; cf. Giovanni Villani, Cronica, III, Firenze 1845, l. XI, cap. CXIV, pp. 342-343.
12. "Anno di pianto per noi fu il 1348 ed ora conosciamo che al nostro pianto fu quello il principio né mai d'allora in poi esser cessata questa straordinaria e, da che mondo è mondo, inaudita violenza di morbo"; cf. Francesco Petrarca, Lettere senili, I, a cura di Giuseppe Fracassetti, Firenze 1869, 1. III, p. 140.
13. Cf. Francesco Petrarca, Trionfi, a cura di Mario Martelli, Firenze 1975: Triumphus Mortis, I, p. 213.
14. Ibid.
15. Cf. Id., Lettere senili, I, 1. III, p. 140: "a modo di ferocissimo battagliere, a dritta e a manca senza intermissione colpisce ed uccide".
16. L. de' Monaci, Chronicon, 1. XVI, p. 314.
17. Ibid., p. 313.
18. Ibid., p. 311: "Dicto motui terrae successit tanta et tam generalis mortalitas per universum mundum quanta nunquam audita fuit".
19. Cf. G. Villani, Cronica con le continuazioni, 1. XII, cap. 123, pp. 284-285. Il cronista fiorentino evoca in modo assai dettagliato il terremoto a Sacile, Udine, San Daniele, Gemona, Venzone, Tolmezzo, oltre a varie altre località, probabilmente sulla base di lettere di mercanti pervenutegli da quella zona e soprattutto da Venezia.
20. F. Petrarca, Lettere senili, I, 1. III, p. 150.
21. Ibid., pp. 150-151.
22. L. de' Monaci, Chronicon, l. XVI, p. 313.
23. Cf. G. Villani, Cronica con le continuazioni, 1. XII, cap. 124, p. 288.
24. Interessanti su questo piano sono due puntuali notazioni dei fiorentini Villani. Giovanni, riferendo del terremoto dell'inizio del 1348 in Carnia, scrive: "quasi tutti morirono e i rimanenti tutti sbigottiti e quasi fuori di loro senno"; mentre Matteo, nel prologo alla continuazione dell'opera del fratello, afferma più in generale a proposito delle grandi calamità: "delle quali gli uomini ne' cui tempi avvengono quasi da ignoranza soppressi, più forte si maravigliano e meno comprendono il divino giudicio e poco conoscono il consiglio e '1 rimedio dell'avversità"; cf. ibid., 1. XII, cap. 124, pp. 287 e 291.
25. Cf. Duca di Candia, pp. 97-98, 100, 102.
26. Citiamo almeno quelle riguardanti i medici, del 26 febbraio e 22 aprile 1348, e quelle concernenti le sepolture; cf. ibid., nrr. 187 e 191, pp. 98 e 100 e nr. 189, p. 100.
27. Cf. E. Carpentier, Une ville devant la peste, p. 100: "Le cas d'Orvieto n'est pas isolé, c'est au contraire le cas général. Même dans les villes qui prendront les mesures les plus draconiennes à l'apparition de la peste dans leur enceinte [...> aucune mesure préventive ne fut jamais adoptée".
28. "Per quello che trovar si possa per le scritture, dal generale diluvio in qua non fu universale giudicio di mortalità che tanto comprendesse l'universo, come quella che ne' nostri dì avvenne"; cf. G. Villani, Cronica con le continuazioni, 1. I, cap.1, p. 293.
29. "Nella quale mortalità, considerando la moltitudine che allora vivea, in comparazione di coloro che erano in vita al tempo del generale diluvio, assai più ne morirono in questa che in quello, secondo la estimazione di molti discreti", cf. ibid., pp. 293-294.
30. Cf. Reinhold C. Mueller, Peste e demografia. Medioevo e Rinascimento, in AA.VV., Venezia e la peste
1348/1797, Venezia 1979, p. 93 (pp. 93-96).
31. Ibid., p. 94.
32. Cf. Giovambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, II, Venezia 1795, pp. 206-207, e Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, III, Venezia 1855, pp. 155-156.
33. Cf. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24, C. 91v, 11 agosto 1348 e Senato, Secreta, reg. B (II), c. 61, 12 settembre 1350.
34. Cf. ivi, Maggior Consiglio, Spiritus, c. 156.
35. Ibid.
36. L. de' Monaci, Chronicon, 1. XVI, p. 314.
37. Ibid.
38. "Patres, filii, fratres, propinqui et amici se invicem deserebant"; ibid. Ci sembra necessario citare a questo riguardo le pagine che Leon Battista Alberti dedica alla quistione nei suoi Libri della famiglia: "Se vogliamo la nostra prudenza e pietà essere lodata, daremo opera ch'allo 'nfermo sanza pericolo della vita nostra ogni cosa a lui utile e necessaria abondi. Aremovi medici, chiameremo speziali, non mancheranno gli astanti; ma noi provederemo alla sanità nostra, colla quale all'infermo e alla famiglia nostra saremo più che col pericolo acomodatissimi, dove perseverando in tanto pericolo sarebbe a chi giace poco utile e alla famiglia dannoso, imperoché colui così infetto può facilmente amorbare costui, e costui quell'altro [...>. Non so io se qui merito essere in queste parole duro e impio riputato, ma poiché di questo trattiamo, siaci lecito non tacere l'utile della famiglia. Dirò quello comandano i dotti fisici, quale confermano il giudicio di ciascun prudente, quale anche ogni uomo non in tutto pazzo può per esperienza così el vero conoscere. Fugga el padre, fugga el figliuolo, fugga il fratello, fuggano tutti, poiché a tanta forza di veneno, a tanta bestemmia, nulla si truova che giovi se non fuggirla. Fuggansi, poiché altre arme o arte controli niuna ci vale. Non si può non propulsare, non difendere quella rabbia mortifera ed essecrabile [della peste>. Adunque vorranno i savi prima salvare sé fuggendo, che rimanendo non giovare ad altri e nuocere a sé. Piaccia a' pietosi non meno la salute sua che una vana opinione di grazia. All'uomo per salvare sé, chi nega non essere licito e concesso dalle leggi uccidere chi con inimico animo l'assaliva? Se così lice, quale pertinace mi negherà non molto più meritare perdono chi abandonerà quell'uomo, el quale al continuo gli porga pericolo di morte?"; cf. ibid., 1. II della nuova edizione a cura di Francesco Furlan, Torino 1994, pp. 149-151, righe 1422-1431 e 1446-1464.
39. Cf. M. Brunetti, Venezia durante la peste, nr. 1, p. 292.
40. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), c. 144v.
41. Ibid., c. 145v; il senato ordinò allora che si procedesse a delle perquisizioni per espellere entro cinque giorni dalla città le carni marcite: quelle ritrovate più tardi avrebbero dovuto esser buttate in acqua o poste in un luogo "in quo fectorem reddere minime possint".
42. Cf. M. Brunetti, Venezia durante la peste, nr. 1, pp. 295 e 297, e A.S.V., Senato, Misti, reg. 24, C. 81v.
43. Cf. Elisabeth Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Âge, I-II, Roma 1992: II, pp. 870-871.
44. Ibid., p. 864.
45. Ibid., I, pp. 119 e 248. Per quanto molto parzialmente probanti in materia, citiamo anche le osservazioni di R.C. Mueller, dal saggio su Peste e demografia, p. 93: "Uno sguardo alle votazioni in seno al Maggior Consiglio rivela [che furono> presenti alle sedute dai 460 ai 630 nobili nel 1343-1347 mentre nell'aprile del 1350 troviamo sedute normali con 570 nobili presenti ed elezioni a Procuratore di San Marco con 670 [...>. Troviamo invece un declino [all'elezione dei Procuratori di San Marco> dagli anni 1360 fino al 1404".
46. E. Crouzet-Pavan, "Sopra l e acque salse", I, p.119.
47. Cf. G. Villani, Cronica con le continuazioni, 1. I, cap. i, p. 294.
48. A proposito della Peste Nera, Matteo Villani non esita a riconoscere che i pochi savi si erano appunto ingannati in merito: "Stimossi per quelli pochi discreti che rimasono in vita molte cose, che per la corruzione del peccato tutte fallirono agli avvisi degli uomini, seguendo nel contradio maravigliosamente. Credettesi che gli uomini, i quali Iddio per grazia avea riserbati in vita, avendo veduto lo sterminio dei loro prossimi e di tutte le nazioni del mondo, udito il simigliante, che divenissono di migliore condizione, umili, virtudiosi e cattolici, guardassonsi dall'iniquità e dai peccati e fossono pieni d'amore e di carità l'uno contra l'altro. Ma di presente restata la mortalità, apparve il contrario: che gli uomini trovandosi pochi e abbondanti per l'eredità e successioni dei beni terrestri, dimenticando le cose passate come state non fossono, si diedero alla più sconcia e disonesta vita che prima non aveano usata [...>"; cf. ibid., cap. 4, pp. 300-301.
49. "Secondo le novelle che sentire potemmo, niuna parte fu in cui vivente in continenza si riserbasse, campati dal divino furore, stimando la mano di Dio essere stanca"; cf. ibid., pp. 301-302.
50. Cf. G. Villani, Cronica con le continuazioni, 1. I, cap. 2, p. 297.
51. Cf. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), c. 144v.
52. Cf. E. Carpentier, Une ville devant la peste, pp. 122, 130, 187 e 195.
53. Ibid., p. 197.
54. Cf. Guido Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982, e Donald E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987. Alquanto più esplicito Klaus Bergdolt, Der schwarze Tod in Europa. Die grosse Pest am Ende des Mittelalters, München 1994, alle pp. 54-56 del paragrafo dedicato a Venezia.
55. L. de' Monaci, Chronicon, l. XVI, p. 314.
56. Sul piano della politica navale ad esempio cf. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), cc. 122v-123, 26 marzo 1348.
57. Cf. ivi, Maggior Consiglio, Spiritus, c. 156.
58. Cf. M. Brunetti, Venezia durante la peste, nr. 2, p. 18.
59. Ibid.
60. Cf. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), cc. 141v-142.
61 . Ibid., cc. 147-148.
62. Ibid., c. 83, 10 luglio 1348.
63. Cf. ivi, Maggior Consiglio, Spiritus, c. 155v.
64. "Remanente capitale in suo statu, quod solvere teneantur"; cf. ivi, Senato, Misti, reg. 24 (copia), c. 85.
65. Ibid., c. 149.
66. Ibid., c. 150v.
67. Ibid., c. 165v, 18 agosto 1348.
68. Ibid., c. 84v, 17 luglio 1348. La parte conteneva disposizioni favorevoli per qualsiasi bandito, anche se condannato alla pena capitale.
69. Ibid., c. 149v, stessa data.
70. Ibid., c. 161, II agosto 1348. Non venne approvata la proposta di estendere quel privilegio a chi avesse voluto venire per un anno solo e venne rifiutata anche quella di accordare la cittadinanza de extra.
71. "Fu biasimata da' discreti la sperienza veduta di molti, i quali si provvidono e rinchiusono in luoghi solitari e di sana aria, forniti d'ogni buona cosa da vivere, ove non era sospetto di gente infetta; in diverse contrade il divino giudicio (a cui non si può serrare le porti) gli abbatté come gli altri che non s'erano provveduti"; cf. G. Villani, Cronica con le continuazioni, 1. I, cap. 2, p. 298. Per il de' Monaci, v. il Chronicon, 1. XVI, p. 314.
72. Cf. K. Bergdolt, Der schwarze Tod in Europa, p. 53.
73. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), c. 142v.
74. Cf. R.C. Mueller, Aspetti sociali ed economici, p. 75.
75. Cf. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), c. 87v, 24 luglio 1348 (e M. Brunetti, Venezia durante la peste, nr. 2, p. 35).
76. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), c. 87v.
77. Si affermava anzi che "omnes nostri cives sunt plurimum et merito conturbati, considerantes presentis mortis casum terribilem et amarum" : ibid.
78. Cf. M. Brunetti, Venezia durante la peste, nr. 2, pp. 37 e 41.
79. A.S.V., Notarile, Testamenti, notaio Odorico Brutto, b. 1154, 27 marzo 1348.
80. Ecco infatti una formula del notaio Bartolomeo da Porto: "Cum vite sue terminum quisquis prorsus ignoret et nil certius habeamus quam quod mortis non possumus evitare discrimen, recte unicuique yminet precavendum ne incautus occumbat et sic sua bona indisposita et inordinata relinquat". La si rinviene ibid., nei testamenti di Rafaino Caresini, di cui il da Porto fu probabile collaboratore, b. 483. Si potrebbero citare parecchi altri esempi analoghi.
81. Su oltre duecento testamenti, ne abbiamo incontrato uno solo in cui si ricorda che, per quanto occorra esser sempre vigilanti, bisogna farlo "potissime tamen nunc propter repentinos casus in quibus tot animas Domini voluntas de suis corporibus evocavit"; cf. ibid., notaio Rafaino Caresini, b. 483, 19 luglio 1348: si tratta del testamento di Marco Moro di Marino, dimorante a San Canciano.
82. Cf ibid., b. 1154.
83. Citiamo in proposito il testamento della moglie di Donato Dolfin, Santuzza, dimorante a San Pantalon: "[...> e se mia mare non fosse a quel tempo, vegna a mio fiio [...> e se l'una morisse vegna a l'altra, e se entrambe morisse vegna a mia mare e se mia mare non fosse a quel tempo vegna a mio fio e se altro fosse de mio fio vegna a mio frar [...i". Cf. ibid., notaio Odorico Brutto, b. 1154, 6 giugno 1348.
84. In questo paragrafo abbiamo fatto ricorso a prospettive d'interpretazione che appaiono tutt'altro che indiscutibili, benché abbiano suscitato vasta eco e raccolto almeno provvisoria adesione. Ci riferiamo ai lavori di Philippe Ariès, Michel Vovelle, Norbert Elias ed anche Zygmunt Bauman, che hanno largamente adoperato (sul piano degli sviluppi della sensibilità collettiva di fronte alla morte) molte categorie ampiamente contestabili e messo in circolazione prospettive ispirate ad una nozione del tutto controversa della modernità. Per quanto nondimeno vi può essere di parzialmente fruibile in tali lavori storico-sociologici, si è cercato di utilizzare i concetti di "rimozione" e di "decostruzione" della morte, per approfondire ed estendere la comprensione di problemi suscitati in particolare dalla presenza delle quasi ininterrotte ondate di pestilenza contro le quali Venezia - anche se non essa soltanto - ebbe a dibattersi nel secolo XIV.
85. Cf. Guido Mengozzi, Nozze obbligatorie, ordinate in Siena per tutti coloro che si trovano fra i 28 e i 40 anni, allo scopo di ripopolare la città e il territorio senese dopo le pestilenze del 1348 e del 1373, Siena 1906.
86. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), c. 91.
87. Ibid.: "ille que manifeste viderentur quod per paupertatem pannos alios non haberent".
88. Cf. M. Brunetti, Venezia durante la peste, nr. 1, p. 299.
89. Cf. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), cc. 84v, 15 novembre 1347 e 141, 5 luglio 1348.
90. Cf. la carta annessa alle pagine di Alberto Tenenti - Corrado Vivanti intitolate Le film d'un grand système de navigation: les galères marchandes vénitiennes, XIVe-XVIe siècles, "Annales E.S.C. ", 16, 1961, pp. 83-86.
91. Cf. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24 (copia), c. 85v.
92. Cf. M. Brunetti, Venezia durante la peste, nr. 2, pp. 13e41.
93. "È difficile intravvedere nello specifico gli effetti economici immediati [delle pestilenze> sul mercato veneziano", ha scritto R.C. Mueller, ma "ciò che colpisce è la capacità degli operatori economici e della classe nobiliare di reagire e di superare lo sconvolgimento"; cf. Id., Aspetti sociali ed economici, p. 75.
94. Ibid.