Lazzaro Papi
Coetaneo di Carlo Botta è il toscano Lazzaro Papi (Pontito 1763-Lucca 1834) il cui itinerario di vita e storiografico può essere, per certi versi, affiancato a quello del piemontese. Entrambi medici, entrambi interessati ai mondi extraeuropei (uno all’America e l’altro all’India), entrambi vissuti negli anni delle rivoluzioni per farsene poi storici disincantati in età matura.
Di origini modeste, educato nel Seminario di Lucca, Papi ne fugge nel 1783 rifugiandosi a Napoli dove si arruola nell’esercito borbonico; lasciato presto l’esercito si offre come precettore prima di iscriversi alla facoltà di Medicina dell’Università di Pisa dove si abilita in chirurgia nel 1788. Sposatosi e rimasto vedovo, nel 1792 si imbarca come medico di bordo su una nave della flotta toscana diretta in India, dove si stabilisce per un decennio. Inizialmente prosegue la sua esperienza di medico a Calcutta, salvando dalla cancrena il raja di Travancore, che lo nomina medico di corte. Successivamente ottiene incarichi militari prima dal raja e poi dagli inglesi, che gli affidano il comando di una compagnia dei Lancieri del Bengala con i quali combatte contro Tippo Sahib. Per i suoi meriti militari, nel 1798, viene promosso colonnello dell’esercito britannico al comando di quattromila lancieri.
Deciso a ritornare in Italia, si sposta nel 1801 a Bombay dove diviene agente commerciale di una società britannica. Nel 1802 si imbarca per l’Europa, ma lungo il percorso si sofferma a visitare l’Arabia, l’Egitto e le isole greche. Ritornato a Lucca, compone le Lettere sulle Indie orientali, pubblicate anonime nel 1802 e ripubblicate nel 1829, nelle quali mette a frutto la sua esperienza indiana, testimoniando ai lettori italiani la realtà di un mondo sconosciuto e affascinante.
Durante la breve esperienza della Repubblica democratica lucchese, nel 1804 è nominato componente della Commissione di sanità. Caduta la Repubblica e instaurato il principato, sotto Elisa Bonaparte è nominato membro e poi segretario dell’Accademia lucchese. Nel 1807 è nominato bibliotecario ducale e tenente colonnello della milizia nazionale. Ormai ben inserito nel nuovo regime, ottiene anche la direzione della «Gazzetta di Lucca» e la nomina a socio di numerose accademie toscane. Nel 1811 pubblica la traduzione del Paradise lost di John Milton che lo renderà celebre negli ambienti letterari di tutt’Italia. Nominato nel 1813 direttore del Museo di Carrara, dopo la caduta di Napoleone è chiamato dal conte di Starhemberg a far parte del Consiglio del governo provvisorio, come membro della Deputazione di Giustizia e finanze. Nel 1814 è nominato censore del Collegio nazionale e docente di lingua inglese.
Privato di tutti gli incarichi nel 1815, si dedica esclusivamente alla letteratura. Sotto il nuovo governo di Maria Luigia di Borbone mantiene la carica di bibliotecario e nel 1819 inizia a stendere i Commentari della Rivoluzione francese dalla morte di Luigi XVI fino al ristabilimento de’ Borboni sul trono di Francia, pubblicati fra il 1830 e il 1831 (la prima parte esce postuma nel 1839) e premiati dall’Accademia della Crusca nel 1835. L’opera si propone come rigorosa e obiettiva, senza però riuscire a esserlo: la scelta della periodizzazione dalla morte del re – escludendo i primi quattro anni della rivoluzione, segnati dal progetto fallito di una monarchia costituzionale – è infatti già indicativa di un giudizio sostanzialmente negativo sulla Rivoluzione e sui suoi successivi sviluppi. Ricca di fatti e piuttosto ben documentata, l’opera di Papi descrive la Rivoluzione come opera di una minoranza faziosa, ma non manca di attribuire gravi colpe anche allo schieramento antirivoluzionario. Sostanzialmente l’autore mostra simpatia solo per i moderati di entrambi gli schieramenti, finendo per tessere l’elogio di Napoleone come restauratore dell’ordine. Diversamente da Botta, scarso valore viene dato da Papi alle Repubbliche italiane del triennio, ridotte a meri strumenti nelle mani dei francesi.