MOCENIGO, Lazzaro
– Nacque a Venezia il 9 luglio 1624, a San Stae, da Giovanni di Antonio, del ramo della Carità (1587-1633; camerlengo, governatore di galea nel 1617, senatore nel 1631) e da Elena di Antonmaria Bernardo, già vedova di Giorgio Contarini.
Secondogenito di 4 figli maschi – preceduto da Antonio (1621-61; savio agli Ordini, del Consiglio dei dieci, savio di Terraferma, cavaliere di S. Marco, morì a Corfù dove s’era portato per assumere il Provveditorato generale delle tre isole) e seguito da Michele (1625-91) e Francesco (1631-96; provveditore alle tre isole e capitano a Brescia, sposatosi nel 1679 con la due volte vedova Eleonora di Carlo Antonio Gambara) –, ebbe almeno quattro sorelle (Bianca, Daria, Marina, Cecilia, tutte nobilmente accasate).
Il M., che non si sposò, né risulta esser stato trattenuto da affetti e da interessi di studio, optò, con una dedizione esclusiva e sin ascetica, per un’esistenza tutta risolta in un’assidua e continuata militanza marittima pugnacemente antiturca, da subito contrassegnata da tratti di strenuo eroismo.
Volontario in armata nel 1646, fu vicegovernatore di galeazza quando, a fine novembre del 1649, prese il largo dal Lido. Governatore di galeazza il 12 dic. 1650, il 10 luglio dell’anno seguente si distinse nello scontro di Nixia sopra Paros, battendosi animoso ancorché colpito da una freccia nel braccio sinistro e mutilato d’un dito da una moschettata. Per breve tempo a Venezia, al magistrato al Sale, presto s’imbarcò nuovamente. Designato capitano delle navi il 16 apr. 1654, salpò all’inizio d’ottobre da Malamocco, portandosi a fine mese a Zante, donde, il 5 novembre, proseguì sino alla «Standia». All’Argentiera nel genn. 1655, qui, in febbraio, alle 13 navi sotto il suo comando s’aggiunsero le cinque della squadra dell’«armirante» Antonio Zen e tutte assieme si spostano a Idra, nel canale di Nauplia. Riguadagnata il 31 marzo l’Argentiera, toccate il 13 aprile Sciro e il 1° maggio Imbo, il M., dal 25 è di fronte ai Dardanelli unito alla flotta agli ordini del provveditor d’Armata Francesco Morosini. Nella spasmodica attesa dello scontro, i rapporti del M. con il superiore di grado si fecero tesi. Il 21 giugno si ebbe la battaglia navale, protratta per 17 ore.
Il M., disposte le navi nella prima insenatura dell’Ellesponto, investì le unità turche allorché uscirono dallo stretto scompaginandone l’ordine e costringendo alla fuga lo stesso ammiraglio Mustafà: 3000 furono i nemici caduti, presi molti cannoni, parecchie le navi del Turco date alle fiamme e 3 catturate. Nella consulta del 27, il M., che perorava un ulteriore più duro scontro a battere vieppiù l’armata nemica malandata per la batosta ricevuta e psicologicamente avvilita, fu inascoltato. Prevalse invece il parere di Morosini di procedere subito all’assedio di Malvasia.
Impegnato sino a settembre nel presidio di Tine, in ottobre il M. era a Zia – e intanto, il 19 dic. 1655, eletto consigliere di Cannaregio –, nel gennaio 1656 all’Argentiera e all’inizio di maggio ad Andro dove, subentratogli nella carica Marco Bembo, continuò a militare quale «venturiere» nella sultana – ossia un vascello di grandi dimensioni – S. Marco. Questa era tra le 66 unità schierate il 24 gennaio dal capitano generale da Mar Lorenzo Marcello a bloccare l’uscita dai Dardanelli. Il 23 giugno la flotta turca, forte di 94 unità, tentò, col favor del vento, di sfondare il blocco. La battaglia infuriò per 14 ore.
Stando a una relazione non ufficiale la squadra di Bembo inoltratasi «sopravento» intercettò la rotta al Turco gettando lo scompiglio tra le galere e i vascelli. La S. Marco con il M. a bordo, chiudeva «il passo» alle galee sottili nemiche e, nel procedere a chiuderlo pure alle galee in fuga, si ritrovò in mezzo a queste ultime e costretta, per non soccombere, a toccar terra. Qui cannoneggiata, non poté riguadagnare il mare; e il suo capitano Giovanni Gottardo, prima che il nemico se ne impadronisse la fece bruciare. Ciò, precisano vari ragguagli, senza il consenso del M., il quale, pur ferito da un colpo di moschetto a un occhio, non desistette dal combattere. A suo avviso, per quanto malandata, la nave era ricollocabile in mare; e, in effetti, Gottardo, per la sua discutibile decisione, fu sottoposto a processo. Trionfale, a ogni modo, la vittoria veneta: 10.000 turchi caduti e 5000 fatti prigionieri; 84 unità perse, alcune catturate, altre arse, altre affondate. Appena 3, di contro le navi perse da Venezia, e tra questa la S. Marco; e appena 300 i caduti. Ma funestata l’esultanza per tanta vittoria dalla morte – tenuta nascosta sinché la lotta era in corso per non fiaccare la lena dei combattenti – di Marcello. Il M. fu il nunzio della impresa del «disfacimento dell’armata turchesca» nonché il latore delle spoglie di Marcello. Imbarcato sulla capitana turca catturata, stracarica di trofei e di schiavi liberati, giunse, il 1° agosto, a Venezia accolto dal festoso saluto di replicate cannonate a salve. Qui – dove per tre giorni si cantò il Te Deum e per tre notti vi fu l’illuminazione a giorno – il Senato che, il 13 luglio, l’aveva nominato capitano straordinario delle galee grosse, gli conferì, sempre il 1° agosto, il cavalierato di S. Marco e un collare del valore di 2000 ducati. E l’indomani il Maggior Consiglio - bocciando Antonio Bernardo, indicato dal Senato per la carica; e in ciò un segno di sminuita autorità dell’organo - lo promosse capitano generale da Mar.
Ripartito in novembre, il 20 dicembre giunse ad Argostoli, quindi – toccando Cefalonia, Zante e Milo – il 26 febbr. 1657, raggiunse l’armata assumendone il comando. In marzo, con 12 galee si portò a Candia a incontrarvi Francesco Morosini, per poi riunirsi alla flotta e guidarla, all’inizio di maggio, a Scio, base per le operazioni della caccia alle imbarcazioni turche. Il 3 maggio ottenne nel canale di Scio una prima vittoria.
Soprannominato dal nemico Kor Kaptan (ossia «capitano orbo»), in un rapporto del 19 maggio il M. esibì la cattura di 44 legni nemici mentre il 18 era avvenuta, quasi senza spargimento di sangue, la presa della piazza di «Suazich» o «Soazich», «alle porte di Nattolio», con un considerevole bottino di polveri, munizioni e cannoni. Era il momento - sostenne il M. che, intanto, a Venezia, il 1° giugno era stato eletto procuratore di S. Marco de ultra al posto di Giovanni Barbarigo - per puntare con una grande offensiva mentre il Turco era in difficoltà, quasi allo sbando, con la flotta parte inattiva a Rodi, parte vagante senza una strategia, parte tremebonda «dentro de’ Castelli». Smanioso di un confronto definitivo il M. insistette sull’opportunità d’accelerare i tempi, sorvolando sul fatto che l’ammiraglio ottomano, l’albanese Mehmed Köprülü, stesse allestendo una possente flotta adeguata a fronteggiare l’armata da lui capitanata. Se, da un lato, esprimeva il desiderio del congedo, anche in ragione delle conseguenze della perdita dell’occhio, dall’altro lato voleva chiudere in bellezza, con un memorabile trionfo.
Intanto la flotta si spostò di fronte ai Dardanelli: contava, annoverando le maltesi e le pontificie, 68 unità, di contro alle 53 unità della flotta ottomana con circa 150 imbarcazioni minori. Questa, attestatasi il 3 luglio ai Castelli, azzardò, il 17, l’uscita dai Dardanelli, perdendo, nell’accanita battaglia, 5 navi e 5 maone. Nel contempo, i venti compromisero la disposizione a semicerchio voluta dal M. (la cui direzione fu giudicata dal comandante pontificio Giovanni Bichi troppo audace) a sbarramento del canale. Un blocco che la furia dei venti contrari e il mare agitato resero, il 18 e il 19, insostenibile. Il 19 la generalizia del M. fu centrata proprio nel deposito delle polveri e saltò in aria. Dei 700 uomini a bordo, non più di 300 si salvarono; e tra questi il fratello del M., il luogotenente Francesco Mocenigo.
Il M., invece, morì colpito al capo dall’antenna che, spezzatasi, precipitò su di lui.
Valutando le perdite inflitte al Turco, questo fu sconfitto. Vittoria veneta, dunque; una «vittoria grandissima», insistono i rapporti veneti, «in faccia» al cuore dell’Impero nemico, il pieno tripudio per la quale è trattenuto dal cordoglio per la morte del Mocenigo. Ma sino a un certo punto se si considera che il blocco messo in atto dal M. - cui Bichi addebitò «soverchia baldanza», dalla quale sospinto avrebbe osato sin di passare dal blocco alla penetrazione della flotta nemica mirando ad atterrire, colla comparsa dell’armata navale veneta, persino Costantinopoli, in una concezione aggressiva del conflitto - s’è smagliato; per tal verso è stato un tentativo sin non riuscito; ed è pure l’ultimo. Sicché prosegue l’afflusso di mezzi e uomini per l’assedio di Creta. A Venezia è elaborato il lutto per la morte del Mocenigo. Meritevole, di per sé, d’un fastoso monumento funebre, è invece evidenziato, a palazzo ducale, nella riconoscibilità del suo sembiante nel groviglio della battaglia del 23 giugno 1656 rappresentato da una gran tela di Pietro Liberi ma non direttamente onorato col marmo d’un sepolcro sovrastato dalla sua statua. Lo celebra invece La canzone dei Dardanelli di G. D’Annunzio che ravvisa in Umberto Cagni colui che al M. assomiglia.
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