SOLERA MANTEGAZZA, Laura
– Nacque a Milano il 15 gennaio 1813, unica figlia di Giuseppina Landriani e di Cristoforo Solera, appartenenti alla medio-alta borghesia lombarda.
Il ramo paterno della famiglia si segnalò per la marcata attività patriottica: fra gli zii e i cugini vi erano infatti il generale Francesco Solera, ministro del Governo provvisorio di Venezia nel 1848; Temistocle Solera, librettista d’opera e collaboratore di Giuseppe Verdi; Antonio Solera che, condannato nel 1821, fu imprigionato allo Spielberg e per il suo contegno dignitoso fu elogiato da Silvio Pellico in Le mie prigioni (Firenze 1847, pp. 265-267) e annoverato da Atto Vannucci fra I martiri della libertà italiana (Milano 1872, pp. 184-187).
A dispetto dell’ambiente familiare, l’infanzia e l’adolescenza non furono toccate dai mutamenti innescati dal dibattito politico e culturale sui costumi degli italiani. Così, mentre le élites liberali della borghesia lombarda – influenzate dalle polemiche illuministe sull’ignoranza delle italiane – iniziavano a estendere alle ragazze il privilegio di un’istruzione raffinata, Laura fu educata in casa dalla madre. Altrettanto si può dire per il matrimonio che non fu di reciproca scelta, come avveniva per un numero crescente di patrioti e patriote, ma fu deciso e combinato dal tutore cui Laura – rimasta precocemente orfana di madre – era stata affidata dal padre, costretto a rifugiarsi in Svizzera per ragioni non chiare. A sedici anni sposò Giovan Battista Mantegazza – nobile monzese, di circa venti anni più anziano di lei – con il quale fra il 1831 e il 1837 ebbe tre figli: Paolo, Costanza ed Emilio. La loro unione non dovette essere felice o almeno così sostenne il figlio Paolo, che nel suo diario definì Giovan Battista come un «uomo [...] di sentimenti triviali, d’ingegno volgare e spiantato» e lo indicò come unico responsabile del disaccordo fra i genitori (Biblioteca civica di Monza, Giornale della mia vita, 22 settembre 1848).
Nel 1837 Laura si trasferì da Monza a Milano, spinta dalla volontà di trovare buone scuole per i figli, ma anche dalle crescenti tensioni coniugali. Negli anni successivi e fino al 1848, si occupò personalmente dell’educazione dei bambini, aderendo consapevolmente al modello di ‘madre educatrice di buoni cittadini’ che, sotto l’influenza di Jean-Jacques Rousseau, si era sviluppato nell’alveo concettuale del movimento nazionale ed era stato adottato da molte patriote. A imprimere una svolta alle sue vicende fu la rivoluzione europea, che costituì per lei una sorta di ‘battesimo patriottico’. Su posizioni di acceso repubblicanesimo e sempre più vicina a Giuseppe Mazzini, collaborò con gli insorti delle barricate – ai quali fornì fondi e munizioni – e coordinò le cure per i feriti. In quegli stessi giorni, scrisse un’ode che vendette porta a porta a beneficio dei feriti delle Cinque giornate.
La madre lombarda nel 23 marzo 1848 (Milano 1848) era senz’altro una prova letteraria poco riuscita, ma fruibile da un vasto pubblico. Al centro dell’affresco, in cui i connazionali erano «fratelli» e i caduti in battaglia «martiri», vi era la «madre lombarda» alla quale si attribuiva il compito fondamentale di formare «quel cor, quell’ingegno / [...] Che alla gloria, d’Italia al sostegno, / Alto, forte, italian sorgerà». La protagonista dell’ode incarnava insomma il modello di madre educatrice e patriota che il movimento nazionale propose alle italiane come unica modalità di partecipazione al processo di costruzione della nazione.
Infine, nell’estate, incoraggiò Paolo e Giovan Battista ad arruolarsi come volontari, convinta che dovesse partire «ognuno che sa tenere il fucile» (Biblioteca nazionale centrale di Firenze, Carteggi vari, c. 78, f. 105, lettera a P. Cironi, 29 luglio 1848).
Costretta a lasciare Milano al rientro degli austriaci in città, si rifugiò con Emilio e Costanza a Cannero Riviera, in territorio piemontese e vicino al confine svizzero, da dove organizzò le cure e il soccorso per i volontari feriti durante la battaglia di Luino. Non si trattò di un mero atto caritativo, ma di un’iniziativa politica volta a continuare la lotta per l’unificazione tramite il sostegno a Venezia, con una raccolta fondi per l’acquisto di armi, e la cura dei garibaldini che intendeva riarmare e condurre personalmente a Locarno dal loro generale.
Il ritorno a Milano dopo la sconfitta della rivoluzione fu particolarmente duro. Il rapporto con il marito sembrò incrinarsi definitivamente, forse a causa del fatto che, interrogato dalle autorità austriache, questi le aveva addossato ogni responsabilità del suo arruolamento nelle fila garibaldine. Con tutta probabilità, alla crisi fu legato anche l’approfondirsi del legame con il mazziniano Piero Cironi, divenuto in breve tempo il suo sodale e amico più caro. Tuttavia, la principale amarezza scaturì dalla lucida riflessione sulla propria militanza: il modello della madre cittadina e attività ‘classiche’, come il sostegno ai congiunti al fronte e la cura dei feriti, le apparvero come forme di patriottismo insufficienti ai bisogni della nazione e intralciate dall’identità di genere. Della sua profonda insoddisfazione scrisse chiaramente a Cironi: «Nell’amore per il mio paese credo di non essere seconda, non solo a nessuna donna, ma oso dire a nessun uomo; [...] l’amore della nostra infelicissima Italia, supera in me ogni affetto e [sento] ancora più del solito il dolore d’essere donna e quindi sempre impotente a giovare una causa per la quale darei [...] la mia vita» (ibid., c. 78, f. 107, 5 settembre 1848).
La riflessione personale e il momento politicamente difficile la spinsero a cercare una nuova forma d’impegno, che le parve di trovare nella filantropia – fin dagli anni Trenta al centro di una progressiva risignificazione.
Infatti, sotto l’impulso degli scritti di Raffaello Lambruschini, l’impegno delle italiane presso le classi subalterne aveva assunto dapprima un’accezione civile e, dal 1848 in poi, una caratterizzazione patriottica a opera di Caterina Franceschi Ferrucci. In questa ‘nuova’ filantropia Solera dovette intravedere un campo d’azione più vasto rispetto a quello delineato dal modello materno, che le avrebbe permesso di spendersi in modo meno subalterno per la causa nazionale.
Su questa scorta, avviò una stretta collaborazione con il pedagogista e filantropo Giuseppe Sacchi, impiegando i fondi mai utilizzati per la resistenza di Venezia per l’organizzazione del Pio Istituto di maternità per i bambini lattanti e slattati di Milano. Il progetto di Sacchi, ispirato dall’esperienza delle crèches parigine, mirava ad accogliere i figli delle salariate durante il loro orario di lavoro; ma Solera gli impresse un significativo riorientamento e contattò Lambruschini per chiedergli consigli sull’organizzazione non di un semplice nido, ma di un’istituzione rivolta alle lavoratrici, che desse «all’Italia il beneficio di avere madri le madri» (ibid., Carteggio Lambruschini, c. 16, f. 96, 20 febbraio 1850). Il Pio Istituto aprì i battenti nel maggio del 1850 e, sotto la sua direzione, divenne uno strumento di nazionalizzazione delle donne delle classi popolari, che tentò di includere nel novero delle italiane seguendo una precisa strategia: trasformarle in ‘buone’ madri di ‘buoni’ popolani tramite l’imposizione di norme di cura e di comportamento quali l’allattamento al seno, il rifiuto del baliatico e dell’esposizione dei legittimi.
Al tempo stesso, Solera fece dell’Istituto uno spazio di azione politica autorevole e autonoma per sé e per altre militanti del movimento nazionale. In virtù della sua natura privata, l’istituzione poté essere guidata contemporaneamente da un uomo e una donna; ciò le permise di presiederla fino alla morte, riunendo intorno a sé un piccolo drappello di patriote radicali – fra le quali la mazziniana Ismenia Sormani e la democratica Nerina Noè – che investì dei compiti di ispettrici: ossia, reperire fondi e «istruire le madri» (Roma, Museo centrale del Risorgimento, Fondo Bruzzesi, b. 99, f. 61, lettera a Nerina Noè, 6 dicembre 1861). Nel tentativo di allargare il sostegno all’Istituto, Solera si rivolse ogni anno alle «pietose e patriottiche milanesi» (P. Mantegazza, La mia mamma. Laura Solera Mantegazza, 1876, p. 140), incitandole anche in fasi cruciali del Risorgimento a impegnarsi in una duplice azione in favore della nazione e presentando l’educazione delle lavoratrici come un atto diverso dal sostegno alle imprese militari, ma non meno importante per l’unificazione: «Dovremmo noi perché possiamo e dobbiamo prestar opera più immediata all’onore e alla salvezza del nostro Paese, tralasciare di porgergli anche quella più lenta ma non meno salutare della educazione di tante povere madri?» (p. 138).
All’inizio degli anni Sessanta, e in coincidenza con la spedizione dei Mille, senza abbandonare il Pio Istituto, Solera si gettò in un’incessante attività di raccolta fondi in varie forme, dalle sottoscrizioni in favore del fondo per il milione di fucili alla vendita di coccarde tricolori a beneficio dei volontari in Sicilia. Dopo il 1861, la delusione per la mancata conquista di Roma e Venezia si tradusse in una serie di petizioni per la loro liberazione e in un Indirizzo delle donne italiane al Parlamento che reclamava una pensione per i garibaldini (Pavia, Biblioteca civica Carlo Bonetta - Archivio storico civico, Archivio Cairoli, cart. XXI-1293, lettera ad Adelaide Bono, 21 aprile 1861).
Il suo fervore le consentì di avvicinarsi a Garibaldi, con il quale intrattenne un rapporto ambiguo e mutevole. Il generale apprezzò in lei le capacità di azione e organizzazione; al tempo stesso, diffidò del suo carattere volitivo e delle sue opinioni radicali, preferendole in alcuni frangenti figure più moderate e concilianti come Anna Koppman, cui nel 1861 affidò la presidenza dell’Associazione nazionale filantropica delle italiane alla quale Solera aveva lavorato a lungo. Quest’atteggiamento e la mancata iniziativa militare la spinsero a sviluppare un’opinione piuttosto critica sul condottiero, che sintetizzò efficacemente scrivendo a Cironi di non aver «mai creduto ch’egli sia un gran politico. Il suo nome serve spesso di bandiera e può giovare per l’entusiasmo che eccita degnamente nell’anima poetica degli italiani, ecco tutto» (Biblioteca nazionale centrale di Firenze, Carteggi vari, c. 78, f. 118, 11 gennaio 1862).
I fatti d’Aspromonte la riconciliarono con il generale, che assisté durante la prigionia al Varignano, cooperando alla creazione di una fitta rete di sostegno medico, economico e politico intorno a lui e ai volontari. Ella profittò della rinnovata sintonia per indurlo ad accettare la presidenza della neonata Associazione di mutuo soccorso fra le operaje di Milano, fondata nell’aprile del 1862 con le stesse compagne del Pio Istituto. L’Associazione, rivolta a tutte «le cittadine che si procurano la sussistenza col proprio lavoro» (Regolamento della divisione femminile della Associazione Generale di Mutuo Soccorso degli operaj di Milano, Milano 1862, p. 4), si pose in continuità con il Pio Istituto, perseguendo il medesimo obiettivo di nazionalizzazione delle popolane milanesi.
Lo statuto, redatto da Solera con la collaborazione di Enrico Fano e Luigi Luzzatti, chiedeva alle lavoratrici di essere «buone madri [...] attive ed oneste cittadine» (p. 6). Un ordine non casuale, che esprimeva la sua antica convinzione secondo cui l’appartenenza delle donne delle classi popolari alla nazione passava ineludibilmente per l’esercizio di una maternità virtuosa e, allo stesso tempo, per l’attivismo sulla scena pubblica.
E che di azione politica, e patriottica, si trattasse lo si vide chiaramente nel 1866, quando Solera mobilitò le iscritte dell’Associazione a sostegno del volontariato garibaldino. Le associate, infatti, parteciparono compatte all’Offerta per la camicia rossa che, promossa in giugno, rifornì i garibaldini di camicie, divise, denaro e altri beni sino alla fine della guerra. In luglio, poco prima della sconfitta di Lissa, promosse la Protesta delle madri italiane: una petizione contro ogni ipotesi di pace che prevedesse l’annessione di Venezia tramite Napoleone III e non per mezzo della sua conquista militare. Preferendo ritardare il rientro dei figli dal fronte piuttosto che accettare una simile evenienza, le firmatarie dichiaravano di voler salvaguardare «la dignità dell’intera nazione» (Il Sole, 13 luglio 1866), messa in pericolo dall’eventuale armistizio. Nel testo, Solera aggirava la minoritas giuridica cui il codice Pisanelli aveva condannato le italiane e arrogava alle ‘madri di combattenti’ il diritto di contestare le decisioni di politica estera di uno Stato che non le riconosceva come cittadine. Scrivendone a Noè, fu lei stessa ad ammettere che si trattava di un’audace forzatura, capace di attenuare, ma non di mutare l’impossibilità di combattere o prendere la parola in Parlamento: un gesto che si limitava a lenire «il rimorso di non poter e sapere fare nulla affatto» (Roma, Museo centrale del Risorgimento, Fondo Bruzzesi, b. 99, f. 82, 9 luglio 1866).
Gli ultimi anni furono segnati dall’aggravarsi delle condizioni di salute e da un crescente disimpegno nelle due istituzioni. L’ultima impresa fu la Scuola professionale femminile, fondata a Milano nel 1871 con le antiche compagne del Pio Istituto e qualche nuova amica, fra cui l’amatissima Alessandrina Ravizza – assurta in breve al rango di sua unica erede politica e spirituale. La Scuola, che rivendicava un forte legame con le due precedenti istituzioni, si proponeva di insegnare una serie di competenze artigianali (come il cucito e la realizzazione di decorazioni in vari materiali) che dessero modo alle allieve di lavorare a casa e adempiere così ai compiti materni.
Nonostante l’impegno di personaggi come Sacchi o Francesco Dall’Ongaro, l’istituzione ebbe scarsa fortuna anche a causa dell’impostazione datata e della progressiva assenza della fondatrice, che si spense a Cannero il 15 settembre 1873.
Nel 1906, l’Associazione generale di mutuo soccorso delle operaje di Milano ottenne che le sue ceneri fossero traslate al famedio cittadino e pubblicò una sentita commemorazione che la definì «patriotta e filantropa» (Onoranze a L. S.M., Milano 1906, p. 1) e presentò le due attività strettamente connesse l’una all’altra.
Opere. Oltre a quelli già citati, alcuni degli scritti più rilevanti di Solera, oggi di difficile reperibilità, sono pubblicati nella biografia redatta dal figlio Paolo Mantegazza, La mia mamma. L. S.M., Milano 1876.
Fonti e Bibl.: L’epistolario di Solera è sparso e frammentario; oltre ai fondi già indicati, risulta di particolare interesse la raccolta di lettere e documenti custodita presso il Museo nazionale antropologico di Firenze, Fondo Mantegazza. Tra le pubblicazioni sulla partecipazione delle italiane al Risorgimento si soffermano più ampiamente su di lei: G. Cavallari Cantalamessa, La donna nel Risorgimento nazionale, Bologna 1892, ad ind.; G.E. Curatulo, Garibaldi e le donne, Roma 1913, ad indicem. Per un profilo più recente: Dizionario biografico delle donne lombarde 568-1968, a cura di R. Farina, Milano 1995, s.v. Per l’influenza sul primo emancipazionismo italiano e per la sua rete di relazioni: F. Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia, Torino 1963 (che a p. 21 riporta la delazione di Giovan Battista agli austriaci); E. Scaramuzza, Pratiche di cittadinanza femminile fra Ottocento e Novecento, in Giornale di storia contemporanea, IV (2001), 2, pp. 50-78; A. Tafuro, Madre e patriota. Adelaide Bono Cairoli, Firenze 2011, ad indicem. Per un’interpretazione più recente di Solera e della sua attività patriottico-filantropica:. A. Tafuro, «Operaie della camicia rossa», in Memoria e ricerca, XXIV (2016), 1, pp. 127-145; Ead., Una filantropia patriottica?, in Studi storici, LIX (2018), 1, pp. 217-244.