LAMENTAZIONI
Libro della Bibbia, che contiene carmi elegiaci sulla distruzione di Gerusalemme fatta da Nabucodonosor.
Nome e posizione nel Canone. - Nei manoscritti e nelle edizioni del testo ebraico questo libro ha per titolo la parola con cui esso comincia, cioè 'Ēkhāh "come?", secondo l'uso rabbinico invalso per dare un titolo anche ai libri del Pentateuco. Tuttavia questa designazione deve essere tardiva; le varie versioni antiche appongono titoli che si riferiscono al contenuto del libro stesso: i Settanta ϑρῆνοι, la Vulgata Threni id est Lamentationes, così a un dipresso le altre. Oggi il titolo sotto cui il libro per lo più viene citato, è Lamentazioni o Treni: è anche probabile che questo in ebraico, Qīnüth, fosse il titolo primitivo, giacché così chiamano il libro il Talmūd (Babā Bathrā, 15 a) e S. Girolamo (Prolog. galeat.).
Anche la sua posizione nel Canone è oscillante. Nella Bibbia ebraica viene posto fra i Kethūbhīm o Agiografi, nel gruppo dei cinque più piccoli libri di tutta la Bibbia chiamati i "Cinque rotoli" o volumi. Ma pure questa assegnazione dev'essere tardiva; infatti i Settanta, la Pescitta e la Vulgata pongono il libro non fra gli Agiografi, ma fra i Profeti, e di solito subito appresso a Geremia considerandolo quasi come una sua appendice. L'assegnazione fra gli Agiografi dev'essere stata cagionata dal culto delle sinagoghe: come infatti si usa leggere in esse le Lamentazioni ai 9 del mese di Ab, che è la terza solennità ebraica annuale, così nel gruppo dei "Cinque rotoli" esse occupano il terzo posto.
Contenuto. - Il libro consta di soli cinque carmi, che corrispondono all'odierna divisione in capitoli; ma ognuno di essi sta a sé, indipendentemente dagli altri. I primi quattro sono carmi acrostici, poiché i singoli gruppetti di versi cominciano con parole le cui prime lettere riproducono l'intera serie dell'alfabeto ebraico; anzi nel terzo carme l'acrosticismo si estende a ciascun verso dei singoli gruppetti. Il quinto carme non è acrostico, ma consta di 22 versi quante sono cioè le lettere dell'alfabeto.
L'acrosticismo alfabetico non è particolare alle Lamentazioni; si ritrova nella Bibbia in qualche salmo e in altri carmi (Proverbi, XXXI), ed è molto adoperato nella letteratura siriaca. Aveva per scopo piincipale d'offrire un mezzo facile per riscontrare se il testo si fosse conservato bene nella trasmissione orale e manoscritta.
I cinque carmi sono del genere elegiaco (ϑρῆνος), usato nelle antiche letterature, anche semitiche, in occasione di funerali: essi tuttavia sono di un tipo particolare, trattando non della morte di una persona, ma dell'annientamento della nazione ebraica e della sua capitale avvenuto nel 586 a. C.
I Lament. - Descrive la desolazione in cui si trova Gerusalemme. La città, simboleggiata in una donna, è nello stesso tempo abbandonata dai suoi amici e vessata dai nemici; l'antica sua magnificenza è scomparsa, ed ella è caduta nella miseria e nell'obbrobrio (Lam., I, 1-11). Nella seconda parte parla la donna stessa descrivendo il suo stato d'umiliazione, e implorando dagli uomini e da Dio pietà e giustizia (I, 12-22).
II Lament. - Vi è descritto Jahvè, Dio della nazione, che per punirla della sua malvagità la distrugge senza pietà: egli stesso abbatte baluardi e muri della città; il popolo ne resta allibito (II, 1-10). Davanti a tale spettacolo è sgomento anche il poeta, che tuttavia riconosce la giustizia della punizione di Dio e rivolge un appello alla sua clemenza (II, 11-22).
III Lament. - Il poeta vi parla in prima persona, ponendosi quasi a rappresentante del popolo, e descrive il cumulo di miserie e dolori che si è rovesciato su esso tanto da spingerlo quasi alla disperazione (III, 1-18). Ma, appena pronunciato il nome di Jahvè, ne prende argomento di fiducia e speranza in lui; Dio è terribilmente giusto e sta applicando la sua giustizia, ma è anche misericordioso verso il suo popolo, e farà a sua volta giustizia di chi sta opprimendo Israele (III, 19-66).
IV Lament. - Nuova descrizione della città devastata e degli orrori che subisce il popolo. Motivo della sventura furono i peccati della nazione e particolarmente dei profeti e sacerdoti (IV, 1-16). L'aiuto sperato dall'Egitto fu vano (vers. 17); il re stesso è caduto in mano dei nemici (vers. 20), gli Edomiti, che prestarono man forte ai distruttori, meritano quanto è accaduto alla nazione (21-22).
V Lament. - Parla tutto il popolo volgendosi a Jahvè in tono di preghiera; enumera i mali passati e presenti, e termina invocando la misericordia divina.
Autore. - L'antica tradizione sia giudaica sia cristiana attribuì le Lamentazioni a Geremia, cioè a colui che fu, non solo autore degli scritti raccolti nel libro intitolato da lui, ma anche la figura centrale dell'epoca in cui avvenne la distruzione di Gerusalemme e la dispersione della nazione (v. geremia). Della tradizione giudaica sono testimoni il Talmūd (v. sopra), il Targūm (nel titolo) e i varî commenti rabbinici posteriori: ma, anche prima di questi, la versione dei Settanta (nel titolo). La tradizione cristiana è mostrata, oltreché da moltissime testimonianze esplicite, fra cui basti qui ricordare Origene (Patrol. Graec., XII, 1084) e Girolamo (Prol. gal.), anche dal fatto caratteristico che molti Padri, nel dare l'elenco dei libri del Canone, omettono le Lamentazioni, senza dubbio perché le considerano tutt'uno con Geremia.
Il passo di II Cronache, XXXV, 25, è assai discusso. Dopo che è stata narrata la morte del re Giosia alla battaglia di Megiddo, esso dice: "E Geremia compose canto funebre [dalla rad. qyn, donde Qīnüth] su Giosia, e tutti i cantori e le cantatrici nei loro canti funebri parlarono di Giosia fino a oggi e li posero qual norma in Israele: ed ecco, stanno scritti fra le Qīnüth". Questa raccolta dal titolo Qīnüth, che probabilmente - come si è visto sopra - era anche l'antico titolo delle Lamentazioni, si riferisce forse a questo libro? Così in realtà hanno ritenuto antichi interpreti giudei e cristiani; ma che il Cronista alluda a una raccolta omonima ma ben diversa dalle Lamentazioni, è dimostrato dal contenuto di queste. Non solo i carmi non hanno nulla del carme funebre vero e proprio, cantato cioè davanti a un cadavere: non solo l'innominato re di Lamentazioni (II, 9) è ancora vivo e prigioniero; ma soprattutto lo stato di spaventosa devastazione in cui è descritta la città e la nazione non corrisponde punto alle circostanze della morte di Giosia. Né, poi, il Cronista, che si mostra espertissimo in tutto ciò che riguarda il servizio liturgico del Tempio (v. cronache), poteva confondere le Lamentazioni, forse già entrate ai suoi tempi nella liturgia, con l'altra raccolta Qīnüth, che conteneva l'elegia su Giosia.
La tradizione in favore della paternità geremiana dominò incontrastata fino al sec. XVIII. Nel 1712 il von der Hardt la negò, ma con ragioni più fantastiche che scientifiche: attribuì infatti i cinque carmi rispettivamente a Daniele, ai suoi tre compagni, Sidrach, Misach e Abdenago, e al prigioniero re Joachin. Col seeolo XIX si cominciò a esaminare scientificamente la tradizione alla luce della critica interna, confrontando filologicamente e concettualmente le Lamentazioni con le parti indubbiamente autentiche di Geremia. In conseguenza di questo esame alcuni attribuirono le Lamentazioni a qualche fido discepolo di Geremia - l'Ewald, ad es., a Baruc (v.) - o ad altro testimonio dei fatti descritti; altri, negando l'unità d'autore, atiribuirono i varî carmi a epoche e poeti diversi: fra questi il Thenius conservò a Geremia Lament. II e IV. Così Nägelsbach, Bunsen, Nöldeke, Vatke, Reuss, Wellhausen, Budde, Lohr, ecc. Altri, quali Keil, Haevernick, De Vette, Payne Smith, e in genere gli esegeti cattolici rimasero fedeli alla tradizione.
Le ragioni apportate pro e contro sono discutibili. I favorevoli alla paternità geremiana fanno notare che, se astrattamente è verosimile che Geremia abbia scritto qualche carme anche su questo capitale avvenimento della caduta di Gerusalemme - come ne scrisse in realtà su fatti molto meno importanti -, tale presunzione astratta è resa più probabile dal fatto, universalmente riconosciuto, che le Lamentazioni sono il libro biblico che più rassomiglia letterariamente a quello di Geremia. A ciò si è obiettato che la forma acrostica, in esse impiegata, è troppo artificiosa e impacciante per un poeta della forza di Geremia; ma si è risposto osservando che tale forma era presso i Semiti una prova di abilità, che nello stesso tempo aveva il risultato pratico rilevato sopra. Si è anche obiettato che Geremia non fu un testimonio dell'assedio e caduta di Gerusalemme, giacché secondo Ger., XXXVIII, 28; XXXIX, 14, egli nel frattempo era in prigione. Ma in contrario si è rilevato che Geremia fu imprigionato a metà circa dell'assedio (cfr. Geremia, XXXVII, 4-5, 21), che fu liberato dai Babilonesi appena presa la città, e infine che la sua prigionia non era di segregazione ma soltanto di detenzione (cfr. Ger., XXXII, 6 segg.; XXXVII, 21; XXXVIII, 1-3): cosicche egli poté seguire ora per ora tutti gli avvenimenti.
Più decisive sarebbero le difficoltà concettuali. Si è fatto rilevare che Geremia non avrebbe potuto scrivere Lament., II, 9 ove si dice che i profeti "non trovarono visione da parte di Jahvè", essendo egli stesso profeta autentico; ma da altri si è interpretato quel passo o come riferito ai falsi profeti, o almeno alla passata numerosità dei profeti autentici che ai tempi di Geremia erano invece scarsissimi. Si è anche notato che il principio della responsabilità personale è uno dei capisaldi di Geremia, mentre in Lament., V, 7, le sventure presenti sono presentate come castigo dei misfatti dei padri già morti, ma in risposta si sono addotti i passi di Ger., XVI, 11-12, ove il castigo appare come punizione dei trascorsi antichi, e per contrario Lament., V, 16, ove esso appare come punizione anche delle colpe contemporanee. Così pure i Babilonesi, che in Geremia sono costantemente presenti come strumento di giustizia da parte di Jahvè, potevano essere l'oggetto delle imprecazioni di Lament., I, 21-22; III, 64-66, giacché anche in Ger., L, 23; LI, 20, 24 ricevono le stesse imprecazioni. Se infine in Lament., IV, 17, 20 sono espressi in prima persona plurale sentimenti che Geremia personalmente non condivise mai, ciò è spiegato da altri, non con la diversità d'autore, ma con quel sentimento pietoso diffuso in tutti i carmi che porta il loro autore ad accomunarsi con lo stato miserando del popolo (cfr. I, 5, 8, 14; III, 40, 42; V, 16).
Ritmo. - Le Lamentazioni sono composte in un ritmo poetico di tipo particolare, che offre dati sufficientemente sicuri, in mezzo a tanta incertezza circa la metrica ebraica. Fu merito di K. Budde aver messo in rilievo questi dati (cfr. i suoi varî articoli nella Zeitschrift für die alttestam. Wissenschaft, 1882-83, 1891-92). I primi quattro carmi hanno il ritmo delle popolari qīnüth, le elegie cantate realmente davanti a un cadavere nelle cerimonie funebri. Sono costituiti da stichi divisi generalmente in due parti da una cesura di pensiero; quanto ad ampiezza le due parti stanno in proporzioni di 3 a 2, o di 4 a 5 (raramente di 4 a 2); il primo emistichio ha circa la lunghezza del verso ebraico ordinario, mentre il secondo non di rado è ridotto a due o tre parole. Fra i due emistichi non appare d'ordinario quel parallelismo di pensiero (sinonimico o antitetico), che è altrove la base della poesia ebraica: le due parti formano invece un solo enunciato concettuale, e tutt'al più la seconda parte fa talvolta l'impressione di una lamentevole eco della prima.
Uso liturgico. - A somiglianza del suddetto uso sinagogale, le Lamentazioni sono entrate anche nella liturgia della Chiesa latina che le legge negli ultimi tre giorni della settimana santa. I primi documenti di tale uso sono del sec. VIII, ma sembra che fosse molto più antico. Intonazione musicale le Lamentazioni ricevettero dopo il periodo gregoriano (v. la speciale formula nell'ed. di Solesmes) da molti compositori; tra i quali Arcadelt, De la Rue, Sermisy, Carpentras, Palestrina, Vittoria, Ingegneri, Allegri, ecc.
Bibl.: Ai commenti citati alla voce geremia, sono da aggiungersi: E. Gerlach, Die Klagelieder Jerem., Berlino 1868; Greenup, A short Commentary on the book of Lamentations, Hertford 1893; S. Minocchi, Le Lamentazioni di Ger., Roma 1897; K. Budde, Die Klagelieder erklärt, nel Kurzer Hand-Comm. zum A. T. del Marti, Tubinga 1897; Löhr, Die Klagelieder des Jer. übersetzt und erklärt, nel Handkomm. zum A. T. del Nowack, 2ª ed., Gottinga 1906; G. Ricciotti, Le lamentazioni di Ger. Versione critica dal testo ebraico con Introd. e Commento, Torino-Roma 1924.