ladro, ladrone (latro)
La forma che continua il nominativo latino non si differenzia dall'altra in D.; ma alcuni commentatori pensano che ‛ ladrone ' valga " bandito ", " ladro da strada ", secondo un calco latineggiante comune nel Trecento, ma ancora discusso da un purista come il Segneri, nel Cristiano istruito nella sua legge (Firenze 1686, II I 10): " Che differenza v'è tra un ladro e un ladrone? V'è grandissima ... il ladro vien di nascosto... ma il ladrone si getta in campagna aperta, e palesemente e pugnacemente, e di mezzo giorno, ci spoglia ").
‛ Ladro ', nel comune significato di " persona che ruba con frode e di nascosto ", ricorre in Rime LXXXIII 53 come al furto il ladro, / così vanno a pigliar villan diletto, e nell'exemplum fictum di Cv IV XXVII 14 E che è questo altro a fare che levare lo drappo di su l'altare e coprire lo ladro la sua mensa ?... Non altrimenti si dee ridere... che del ladro che... la tovaglia furata di su l'altare... ponesse in su la mensa.
Maggiore intensità espressiva nei passi dell'Inferno, ove l'epiteto è sempre legato a Vanni Fucci " bastardo e reo " (Iacopo). Così in XXIV 138 io fui / ladro a la sagrestia d'i belli arredi, cinica e degradante confessione, dato che " latro, dum aliena et maxime quae Deo dicata sunt rapit, rationem perdidit et bestialitatem induit " (Guido da Pisa), e in XXV 1 il ladro / le mani alzò con ambedue le fiche, / gridando " Togli, Dio, ch'a te le squadro! ". In Pg XX 104 Noi repetiam Pigmalïon allotta, / cui traditore e ladro e paricida / fece la voglia sua de l'oro, l'epiteto è smorzato dal tono di esempio morale e dalla patina erudita (cfr. Giustino XVIII 4-6 e Virg. Aen. I 340 e IV 325 ss.).
Appare in accezione figurata in Rime CIII 58, dove la donna amata, con l'aspro lessico delle ‛ petrose ', è chiamata scherana micidiale e latra (si noti il latinismo), e dove più che a un tradizionale e lezioso " ladra del cuore di chi la ama " si può pensare a un audace " soverchiatrice ", ripresa semantica formale del classico latro per il quale domina l'idea di violenza sulla fraude. La possibilità di una simile sottile distinzione, caduta dal nostro linguaggio, ma viva per uno scrittore medievale, potrebbe esserci testimoniata indirettamente da Benvenuto, che a If XII 90 annota: " Latro... est qui violenter et patenter spoliat, fur vero fraudolenter ". Di contro a questo cultismo, comune perifrasi in Rime dubbie XVII 1, ove il sottil ladro che la donna ‛ porta ' ne gli occhi è Amore. Cfr. anche Fiore XXI 5, con senso di generico epiteto offensivo.
‛ Ladrone ' è presente in Cv I XII 10 li suoi nimici l'amano [la bontà], sì come sono ladroni e rubatori, e in If XII 90 non è ladron, né io anima fuia, nelle parole di Virgilio a Chirone che scagionano D. da ogni legame con esseri dannati (benissimo Benvenuto: " nec ipse est violentus, nec ego fraudolentus "). In entrambi i casi il discrimine con " bandito " è comunque impercettibile o dubbio. Stesso problema per Pg XX 90 veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele, / e tra vivi ladroni [il papa] esser anciso, in cui nondimeno, in un quadro di stravolta ‛ imitatio Christi ', la voce porta un ricordo dei " latrones " di Matteo (27, 38). Nel medesimo ambito restano le occorrenze di If XXVI 4 Tra li ladron trovai [o Firenze] cinque cotali / tuoi cittadini, e di Rime LXXVII 8 Questi [Forese] ch'ha la faccia fessa / è piuvico ladron negli atti sui, entrambi vicini a un generico " ladro " senza troppe precisazioni tecniche; fatto comprovabile, con buone probabilità, per la tenzone con Forese, ove l'offesa è più generica che non paia (" pubblico ladro " era ingiuria ‛ classica ' nel Medioevo; in un atto bolognese del 1284 leggiamo: " dicit eum latronem publicum et famosum ") e la forma ‛ ladro ' poteva esservi sostituita senza ledere il senso (ad es. Calandrino è chiamato dalla moglie " ladro piuvico ", in Dec. IX 5 53). Identica accezione in Cv IV XIII 12 e in Fiore XCIX 10, CIX 13 e CXXIII 2.
La bolgia dei ladri. - Il primo annuncio di siffatta categoria di dannati compare nell'enumerazione delle colpe che saranno punite come fraudolente (If XI 59), nella forma astratta di ladroneccio, che il Buti commentava: " Furto, ovvero ladroneccio, è uso e traffico delle cose altrui contra la volontà del proprio signore; sicché, quando usa l'uomo la cosa del suo prossimo contra la volontà sua, è furto, e similmente, ladroneccio ".
D., come vuole l'autorità del suo commentatore, caricherebbe la parola anche del valore più specifico di " furto ", cioè di sottrazione di cose altrui con inganno e di nascosto, e perciò, in quanto autori di due misfatti ben diversi, distingue i l. dagli altri attentatori della proprietà, quali i guastatori, i ‛ predoni ' (If XI 38) e i rubatori in genere che fecero a le strade tanta guerra (XII 138). Conseguentemente anche la denominazione di ‛ ladroni ' (XXVI 4) usata da D. nel momento in cui si congeda dalla settima bolgia, dovrebb'essere intesa non tanto nel significato di " rapinatori ", di latrones, quanto, ancora, in quello di coloro che rubano di nascosto e con inganno, quali appaiono essere i dannati dianzi rappresentati. Per cui quel ladron, che appartiene al momento immediatamente successivo l'ironica apostrofe rivolta a Firenze (Tra li ladron trovai cinque cotali / tuoi cittadini onde mi ven vergogna), potrebbe valere sia come accrescitivo di ‛ ladro ' e contenere forse il senso di grossolano, proprio del suffisso ‛ -one ' (v. in Appendice la trattazione sulle strutture grammaticali del volgare di D., nella parte riguardante la formazione delle parole), sia come sostantivo di medesima radice e di significato corrispondente a quello di ladroneccio precedentemente proposto. D., insomma, proprio perché ha ricordato cinque illustri cittadini fiorentini fra cotali dannati, userebbe, per ulteriore scherno, una parola che, al di là di un suo più concluso e autonomo significato, quello specifico di " ladrone ", si carica qui, nella sua amplificazione, di grossolanità. D'altronde D., nel tessuto dei canti dedicati alla settima bolgia (If XXIV e XXV) adopera la parola ‛ ladro ' una sola volta, allorché Vanni Fucci dichiara la sua natura di peccatore e la specifica colpa che lo ha travolto: io fui / ladro a la sagrestia d'i belli arredi (XXIV 137-138). Ladroneccio, ladro e ladron in tre diversi canti, dunque, a indicare coloro che violano con frode il principio e il diritto naturale di proprietà, distinti dai predoni e condannati in luogo e con pena più severi. C'è da aggiungere che D. mai designa i peccatori della settima zavorra (XXV 142) con i termini di ‛ furo ' e di ‛ furto ' pur presenti in altri luoghi della Commedia. Soltanto quando Virgilio spiega a D. chi sia il centauro carico la groppa di bisce e col draco sovra le spalle che, pien di rabbia, vorrebbe inseguire Vanni Fucci (XXV 17-24), la parola furto è adottata a indicare il peccato per cui il centauro Caco non è con i suoi fratelli a far da guardiano ai violenti del Flegetonte. Nel ladrocinio di Caco, per lo furto che frodolente fece (vv. 25-29), D. sembra ravvisare quel di più di fraudolenza e di astuzia che non è sempre di necessità nell'atto del ‛ ladro ' e piuttosto si annida nell'atto del ‛ furo '; né è forse inutile ricordare che proprio quel di più d'ingegno attribuito all'abigeato di Caco era valso a rendere famoso ed emblematico il mito del feroce mostro dell'Aventino (Aen. VIII 192 ss.).
Rimane il fatto che è difficile stabilire se D. intendesse dare valori diversi a ladro e furo e furto e ladroneccio nel particolare caso della settima bolgia. Ciò che rimane indiscutibile è che D., una volta affermata (If XI) la maggior gravità del furto rispetto alla rapina (con giudizio diverso dalla valutazione che dei due peccati aveva proposto s. Tommaso) e una volta, quindi, distribuiti i rapinatori nel primo girone del settimo e i l. nella settima bolgia dell'ottavo cerchio, non ha offerto ulteriori, chiare distinzioni all'interno del peccato di ladroneccio. La questione, per lo meno, non è affatto pacifica se, per tentare di risolverla, è stato necessario ricorrere al recupero d'ingenue notizie biografiche (quali ce le hanno potute consegnare l'Anonimo o Benvenuto) sui singoli dannati, al di fuori del testo della Commedia. Fu il Filomusi Guelfi nel 1911 a suggerire per primo l'ipotesi che dietro le diverse trasformazioni dei l. si dovesse scorgere la suddivisione tomistica delle varie specie di furto (Sum. theol. II II 66), che distingueva il furto semplice e tre specie di furto aggravato: il sacrilegio (" quod est furtum rei sacrae "), il peculato (" quod est furtum rei communis ") e il plagio (" quod est furtum hominis ").
D. dedica ai l. il canto XXIV dal v. 79 alla fine, il XXV e i primi 6 versi del canto XXVI. Quando, dopo aver risalito con difficoltà la ripa interna della sesta bolgia, D. e Virgilio giungono sulla sommità del ponte che varca la settima e discendono quindi sull'ottavo argine, scorgono sul fondo una terribile stipa / di serpenti quanta mai ne produssero nelle varie specie i deserti di Libia, di Etiopia e di Arabia. Fra questa cruda e tristissima copia corrono i dannati che con serpi le man dietro avean legate. Uno di questi, repentinamente trafitto alla gola da un serpente, si accende e arde e si riduce in cenere e quindi ritorna di butto quello di prima con la medesima rapidità con cui si scrivono una o o una i. È la prima trasformazione e il ladro che risorge, come la fenice, dalle proprie ceneri, è il pistoiese Vanni Fucci (v.), sul quale D. insiste a lungo sino a trasferire l'episodio nel c. XXV e a concluderlo con l'apparizione di Caco. Mentre Virgilio illustra a D. gli assassinii, le rapine e infine il furto del centauro (tre aspetti, cioè, di una violenza che termina e sembra trovare il suo momento più abietto nell'inganno ordito ai danni di Ercole), tre spiriti vengono sotto l'argine donde i due poeti guardano nella bolgia: sono Puccio Sciancato, Buoso Donati (come ormai sembra sempre più probabile invece di un Buoso degli Abati [v.]) e Agnel Brunelleschi (v.), tre Fiorentini che si stanno chiedendo dove sia rimasto Cianfa, che era con loro. Cianfa Donati (v.) era divenuto, per una delle infinite, incessanti trasformazioni, un serpente a sei piedi ed è lì e si avventa sul Brunelleschi e gli si avviticchia in un mostruoso amplesso che fonde insieme i due corpi e dal quale lentamente nasce una figura in cui ogne primaio aspetto... era casso: / due e nessun l'imagine perversa / parea (XXV 76-87). Che il serpente assalitore di Agnel Brunelleschi sia Cianfa - il quale non appare mai, diversamente dagli altri, in figura di uomo - è un dato che il lettore acquisisce soltanto nel c. XXVI, quando D. ci dà la somma (cinque) dei cittadini fiorentini incontrati nel canto precedente. Di uomo in serpente e di serpente in uomo si trasformano invece (una volta che si allontana a lento passo l'immagine perversa che racchiude Agnel e Cianfa) Francesco de' Cavalcanti (v.), cioè quel che tu, Gaville, piagni (v. 151) e Buoso Donati. Un serpentello acceso, / livido e nero come gran di pepe (v. 84), trafigge all'ombelico Buoso, ed entrambi rimangono come attoniti dopo il colpo (Elli 'l serpente, e quei lui riguardava), spiranti fumo l'uno dalla ferita l'altro dalle fauci.
Prima d'iniziare la minuta descrizione di come le due diverse nature si trasmutino vicendevolmente (vv. 103-141), D. si richiama alle prove di due antichi ‛ autori ', Lucano e Ovidio. Lucano narra (Phars. IX 761-805) di due soldati, Sabello e Nassidio, che, trafitti da un serpente, l'uno si ridusse in cenere, l'altro si dilatò sino a perdere umana sembianza e a scoppiare; Ovidio è da D. ricordato per le trasfigurazioni di Cadmo in serpente e di Aretusa in fonte (Met. IV 563-604 e V 572-678). Il vanto di D. di fronte a tanto alti esempi è che egli narra di una metamorfosi doppia, cioè del reciproco, contemporaneo scambio di due nature diverse e non del semplice passaggio da una in un'altra: il che non si determina e non si limita in una gara esclusivamente letteraria con Lucano e Ovidio, ma comporta il compiacimento di " esser saputo andar più in là di loro nella penetrazione poetica dei misteri della Provvidenza " per la persuasione " che quei poeti avevano già fissato, con una potenza ed una chiarezza non indegne del testo biblico, gli occulti modi con cui la volontà di Dio è testimoniata nelle umane vicende " (Paratore, p. 301).
Se si accetta questa tesi - che è bene integrare con le conclusioni di chi negli esempi e nelle testimonianze forniti dagli auctores scorge " una esigenza indispensabile per lo scrittore medievale a dimostrare l'assunto del proprio discorso " per cui gli " autori " antichi subivano " un processo di ‛ moralizzazione ', assumendo autorità esemplare per particolari zone del sapere intellettuale, per determinate esperienze del vivere umano " (Russo, pp. 142-143) - cade la vecchia lettura dei canti dei l. per la quale qui è da ammirare la strenua gara di abilità tecnica tra D. e i poeti antichi e per la quale " non regna qui il senso del misterioso e del prodigioso... l'interesse è trasportato dalla cosa, che per sé commuove poco l'anima del poeta, al modo di dirla... alla bravura con cui sono affrontate e vinte le difficoltà dell'assunto " (B. Croce, La poesia di D., Bari 1921, 97).
Piuttosto, è da considerare la ragione per cui ai l. sia riservata una tanto straordinaria e complessa pena e della quale il poeta medesimo, in due diversi passi (If XXV 46-48 e 142-144), vuole sottolineare l'aspetto orripilante: " con tutta certezza non si tratta di una ragione generica, sì di vera e propria dottrina, etica e politica, in cui è proposto il problema del valore della proprietà e del rapporto tra proprietà e persona.... Il ladrocinio... intacca la persona in un suo diritto e componente sociale, provocando profonde alterazioni, che possono arrivare sino alla distruzione (l'incenerimento di Vanni Fucci), nella condizione dell'umana persona " (Mattalia, pp. 39 e 41). L'uomo, cioè, che è stato fatto a immagine e simiglianza di Dio e che partecipa quindi della natura divina, con il furto infrangerebbe un diritto insito nel suo rapporto di similitudine con Dio (Russo, op. cit.) e insieme insidierebbe il diritto umano al possesso delle cose terrene (nella loro funzione di uso e di utilità) secondo quanto s. Tommaso discetta intorno al fondamento razionale e teologico della proprietà privata (Sum. theol. II II 66 1 2). " Fra tutti i frodolenti - insomma - i l. trascorrono col loro peccato a una violazione più radicale di ogni altra delle leggi dell'umana natura: perciò la loro pena rispecchia più da vicino, con uno sconcertante contrappasso, il carattere essenzialmente sovvertitore del loro peccato " (Paratore, p. 297) e per conseguenza anche il serpente (" serpens dictus est prudentissimus vel callidissimus, propter astutiam diaboli, qui in illo agebat dolum ", Agost. Gen. ad litt. 28 e 29) nel quale essi si trasmutano orribilmente, sta qui a simboleggiare la corrispondente volontà di sommuovere e stravolgere con violenza astuta le leggi che legano Dio all'uomo.
Perciò, assunta la suddivisione tomistica, coloro che si macchiarono di furto aggravato, più si confondono con il serpente; solo Puccio Sciancato, infatti, che secondo la ricerca del Filomusi Guelfi, raccolta da altri interpreti, dovrebbe rappresentare il furto semplice, non subisce mutazioni ma è punito con la pena comune di aver le mani legate dietro la schiena da serpenti che si annodano dinanzi. " Le metamorfosi sono un soprappiù, per i sacrileghi, per i peculatori e per i plagiarii... il peculato è furto della cosa comune: or che cosa di più meritato, per chi non rispettò la cosa comune, se non aver comune con altri quel che l'uomo ha di più proprio, la persona? Or questa appunto è la pena di Cianfa Donati e d'Agnello Brunelleschi, che nella metamorfosi diventano un mostro solo " (Filomusi Guelfi, p. 202); allo stesso modo, non avendo il plagiario rispettato quel che l'uomo ha di più proprio, la persona, nella trasmutazione egli vede essergli continuamente rapita, per una specie di contrapasso, appunto la persona propria, come accade a Buoso Donati e a Francesco de' Cavalcanti. Né è da tacere, come " immagine-base in cui si concentrano il significato sostanziale e tutta l'articolazione fantastica della creazione stessa ", l'idea, proposta dal Paratore (op. cit., pp. 307 ss.), dell'oscillazione sul numero e la qualità delle nature che si protrae, ossessiva, per tutto l'episodio componendo una serie continua di unità e di molteplicità, di uno che si fa due, di due che diventan uno, in un " perenne trasmutare di forme, di individualità, di numeri ed essenze ".
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