Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’idea che l’Europa costituisca un insieme di popoli che si riconoscono in un’unica civiltà si afferma a partire dalla fine del XV secolo. I confini del continente sono però ancora mobili e incerti. Le rappresentazioni di Turchi, Cinesi e soprattutto delle popolazioni del Nuovo Mondo contribuiscono alla definizione dell’autocoscienza degli Europei, che si va formando come effetto di un insieme di trasformazioni culturali, tecniche, economiche e politiche.
Già in epoca greca l’Europa, rappresentante la civiltà, viene contrapposta all’Asia, rappresentante la barbarie. All’epoca l’Europa corrisponde a un ambito geografico incerto: è costituita dalla sola Grecia, oppure dai popoli che hanno rapporti costanti con essa, quindi soprattutto dalle genti del Mediterraneo; oppure, ad esempio per Aristotele, dalla Scizia – l’area a nord del Mar Nero – distinta dalla Grecia come dall’Asia e abitata da genti coraggiose ma poco industriose, che si distinguono dagli orientali, intelligenti ma non sufficientemente animosi. Le conquiste di Alessandro Magno e l’Impero romano cancellano queste contrapposizioni e delineano invece la divisione tra Romani e barbari, che nell’epoca medievale sarà ricompresa nella grande cesura fra cristiani e pagani. Infatti, nel Medioevo il termine “Europa” è sostituito con “Christiana communitas”, “Christiana societas”, “Christiana respublica”, “Christianitas”, per riapparire solo alla fine del periodo e indicare ormai un’area in cui sono entrate a fare parte le regioni centro-settentrionali del continente in virtù della fede cristiana recentemente acquisita, e da cui escono invece alcune zone orientali, soprattutto la vecchia culla della civiltà, la Grecia, accusata di orientamenti ereticali e i cui popoli diventano esempi delle qualità negative attribuite agli asiatici – perfidia, vigliaccheria, inaffidabilità – contrapposte alla lealtà, al coraggio, all’onestà degli Europei. La caduta dell’Impero d’Oriente e la conquista turca, sebbene provochino un temporaneo sentimento di solidarietà in Europa, finiscono con il sancire l’allontanamento delle regioni sud-orientali del continente e il loro ingresso nella sfera asiatica.
Le frontiere europee appaiono caratterizzate non da barriere geografiche, piuttosto dagli spostamenti delle popolazioni, dalle loro tradizioni e istituzioni, dalle relazioni commerciali e politiche: sono frontiere che variano nel tempo e costituiscono vaste aree di confine più che linee nette. Persino i mari, che circondano il continente da tre lati, rappresentano vie di comunicazione piuttosto che elementi di separazione: basti pensare al Mediterraneo, percorso da pirati, pellegrini, commercianti, conquistatori e centro di un intreccio di civiltà. D’altra parte, regioni periferiche come la Scozia, o quelle poste all’estremo nord del continente, sono molto poco conosciute. Ancora meno definita è la frontiera orientale dal Mar Bianco al Mar Nero che può essere individuata attorno al corso del Don e del Volga (e non agli Urali), dove interi Paesi assumono una collocazione incerta rispetto al cuore dell’Europa.
Ancora in un’edizione della Geografia di Tolomeo, pubblicata a Venezia nel 1548, la Sarmazia, il territorio a est della Vistola, nell’attuale Polonia, viene raffigurato da un animale selvatico. E solo nella seconda metà del XVI secolo Polonia, Ungheria e Transilvania entrano a fare chiaramente parte del continente europeo, come baluardi della cristianità nei confronti dei popoli pagani, Tartari e Turchi, mentre le popolazioni artiche dell’est, i Samoiedi, continuano a essere considerate idolatre e selvagge, e la Moscovia è solo a stento collocata all’estrema periferia dell’Europa. Del resto non è che nella prima metà dell’Ottocento, dopo un lungo periodo di trasformazioni –di cui sono tappe fondamentali le riforme settecentesche in Russia e l’occidentalizzazione della letteratura slava – che si concluderà lo spostamento dei confini europei agli Urali. Già nel Cinquecento si intensificano i viaggi e le relazioni di diplomatici, mercanti e semplici viaggiatori che si interrogano sui confini dell’Europa, segno di un nuova coscienza dei popoli del continente di appartenere a una sola civiltà e a un sistema politico unitario, mentre il termine “europeo” fa per la prima volta la sua comparsa nelle lingue volgari, prima fra tutte il francese, in cui l’uso di questa parola si diffonde nella seconda metà del secolo.
Se la penisola balcanica conquistata dai Turchi appare un luogo di barbarie, al termine del suo attraversamento i viaggiatori scoprono Costantinopoli, centro di un impero ricco e potente. La rappresentazione dei Turchi ha quindi caratteri ambivalenti: da un lato essi riuniscono le peggiori qualità già attribuite agli orientali, dall’altro non è possibile disconoscere che la concentrazione di un potere dispotico nelle mani del sultano, la crudeltà delle pene, la ferocia e il lusso smodato, la barbarie insomma, abbiano come contraltare la forza militare, la disciplina sociale, l’equità nell’impartire la giustizia e l’efficienza amministrativa. Quello che caratterizza l’immagine dell’Impero ottomano è comunque l’eccesso, sia nel disprezzo sia nell’ammirazione, eccesso che segna il superamento di una soglia oltre la quale inizia un mondo diverso e nemico. E se l’immagine negativa del Turco evidenzia per contrasto le qualità degli Europei, quella positiva finisce per ottenere lo stesso scopo confrontando questi ultimi con un avversario forte e temibile.
Anche la descrizione usuale di Costantinopoli “collocata in uno dei più belli e comodi siti che la natura formasse mai”, favorita da “una quasi continua primavera”, ornata dalla più grande “varietà de’ fiori” – come scrive l’ambasciatore veneto Giovanni Moro al Senato nel 1590 – disegna una sorta di paradiso terrestre dal significato ambiguo, in quanto gli abitanti non si dimostrano degni di tanta perfezione e non raggiungono in ogni caso l’eccellenza che questa dovizia di mezzi permetterebbe loro, restando così al di sotto delle capacità dimostrate dagli Europei.
Ma è soprattutto con la scoperta del Nuovo Mondo che l’Europa prende coscienza della propria identità. In verità, in un primo momento, le pubblicazioni dedicate al continente americano sono nettamente minoritarie rispetto a quelle che si occupano di altre zone lontane ma già note, come la Turchia o la Cina, e molti testi di argomento geografico trascurano la nuova zona. Inoltre la novità delle terre recentemente scoperte è sistematicamente ridotta dallo sforzo di inscriverle in categorie note. Così Colombo ritiene di proseguire la lotta agli infedeli, che nella penisola iberica si era conclusa con la cacciata dei Mori da Granada nel 1492, e di compiere la profezia della predicazione universale del Vangelo. Altri si sforzano di individuare negli Indios popolazioni bibliche, come chi li ritiene discendenti delle dieci tribù disperse di Israele, o cercano di dimostrare che si tratta di popoli già raggiunti dalla predicazione di san Tommaso d’Aquino; altri ancora riconoscono in essi gli abitanti delle Esperidi, terra mitologica all’estremo Occidente – come lo storico spagnolo Oviedo y Valdés che intende in questo modo rivendicarne il possesso della Spagna, dove avrebbe regnato Espero, indipendentemente dalla concessione papale – oppure popolazioni scoperte dal visigoto Roderico, dal gaelico Madoc, o da Gomer, capostipite dei Galli, per affermare l’appartenenza dell’America rispettivamente al Portogallo, all’Inghilterra o alla Francia; altri ancora si richiamano all’Atlantide di Platone o alle terre che i Cartaginesi avrebbero toccato al di là delle colonne d’Ercole. Queste discussioni finiscono con il mettere in dubbio il dettato delle Sacre Scritture e, insieme al dibattito sull’umanità degli Indios e sul diritto dei coloni a ridurli in schiavitù – che ha da un lato, a paladini dei diritti degli indigeni, Antonio da Montesinos e Bartolomé de Las Casas e, dall’altro, Luís de Sepulveda che li dichiara homunculi, più simili a scimmie che a esseri umani – aprono la via a una laicizzazione del pensiero, contribuendo così alla costruzione di un’autocoscienza europea fondata su valori secolari. Per conciliare l’evidenza del Nuovo Mondo con la verità religiosa, il filosofo inglese Francis Bacon deve ipotizzare un secondo diluvio universale e Giordano Bruno finisce col rilevare esplicitamente l’assurdità di una teoria che obbliga a credere i bianchi, i neri e gli uomini dalla pelle rossa come discendenti tutti dal solo Adamo.
Non meno importante per la consapevolezza degli Europei di appartenere a una civiltà distinta e migliore delle altre è l’impulso dato dalle scoperte geografiche al superamento del senso di reverenza verso gli antichi. L’Europa appare ai contemporanei come l’artefice di imprese rispetto alle quali quelle delle epoche precedenti impallidiscono, mentre la rivelazione delle imprecisioni e dei tratti fantastici delle conoscenze classiche favorisce una nuova fiducia nel presente che sfocerà nella querelle des anciens et des modernes . Già Las Casas, nella Storia delle Indie, parla con stupore di questo “tempo così nuovo e così diverso da ogni altro”. Più tardi Giordano Bruno, nel De propria vita, considera con entusiasmo il fatto di essere nato in un periodo “nel quale tutto il mondo è diventato conosciuto, mentre gli antichi ne conoscevano poco più di un terzo” e Tommaso Campanella nella Città del sole esalta un “secolo, c’ha più historia in cento anni che non ebbe il mondo in quattromila”.
Le rappresentazioni delle terre che si vanno scoprendo si pongono al punto di confluenza di molte fantasie. Esse sono immaginate non solo come il paradiso terrestre – la cui conoscenza segnala la fine dei tempi, insistentemente prevista dall’allarmata sensibilità dell’epoca, o l’occasione per continuare l’evangelizzazione degli infedeli, o ancora la splendida ricompensa alla sete di conoscenza, il mondo dove tutte le cose sono “differentissime da quelle del nostro”, come dice lo scrittore spagnolo Lopez de Gómara – ma appaiono anche come le terre ricchissime dell’eterna abbondanza, della gioventù e dell’innocenza. Il filosofo francese Montaigne ne dà descrizioni famose ed entusiaste nei Saggi, nel capitolo sui cannibali, in quello sulle carrozze e nella Apologia di Raimondo Aron, in cui parla di un mondo innocente, “così bambino che gli si insegna ancora il suo abc”. Non si tratta però di imitare il buon selvaggio, libero dal denaro, dai traffici, dagli abiti, dalle differenze sociali, dagli odi e dalle bugie, ma piuttosto di misurare su un mondo vergine il cammino compiuto dal Vecchio Continente, che non è affatto rifiutato, ma anzi si vorrebbe perfetto. Questo Eden è anche il luogo dove l’oro è abbondante e la ricchezza facile da ghermire.
Montaigne, che ha magnificato il mondo primitivo, si estasia poi davanti al giardino del re degli Inca nel quale gli alberi, i frutti, le erbe, gli animali sono “perfettamente modellati in oro”. Un paese di cuccagna rispetto al quale l’Europa si pone subito come conquistatrice e su cui continuerà a fare sentire la propria superiorità sempre più schiacciante fino all’età dell’imperialismo. Eppure lo stesso Montaigne pone le premesse per il superamento di questa visione etnocentrica quando, nel paragonare il Vecchio Continente al Nuovo finisce con l’affermare che “ciascuno chiama barbarie ciò che non fa parte delle sue usanze”. Sarà questo un filo di pensiero minoritario, eppure sempre presente nell’epoca moderna accanto all’orgogliosa affermazione della forza e dell’egemonia europea.
Questa egemonia è efficacemente motivata dal gesuita Giovanni Botero nella quarta parte delle Relazioni universali pubblicata nel 1596, dove sono delineati i caratteri specifici della civiltà europea, la sola che abbia portato a compimento il passaggio dall’idolatria alla vera religione, dall’economia primitiva alla produzione regolare e al commercio, dal caos a leggi e istituzioni politiche stabili, dalla semplicità alla raffinatezza dei costumi, dall’isolamento umano alla costruzione di città imponenti. Un piccolo continente fertile e dal clima temperato, ricco di coltivazioni, di miniere, di manufatti e ben popolato, una terra che, al contrario delle altre più grandi, “basta a se stessa in pace come in guerra”, come afferma Sebastian Munster nella Cosmographia (1588): questa sarà l’immagine dell’Europa di cui i suoi abitanti diventeranno sempre più consapevoli a partire dal XVI secolo.
Il sentimento di superiorità dell’Europa rispetto al resto del mondo si va costruendo fra Quattrocento e Cinquecento, anche e soprattutto come effetto di un insieme di fattori che si sviluppano all’interno del continente: fattori culturali, politici ed economici. In primo luogo il diffondersi dell’umanesimo che si richiama all’antichità classica: partito dall’Italia, introduce elementi importanti di uniformità fra i dotti dei diversi Paesi attraverso i loro viaggi, i loro carteggi e cenacoli come l’Accademia romana dell’umanista Pomponio Leto e quella fiorentina di Marsilio Ficino, l’uso generalizzato del latino, la cui impronta non sarà cancellata dall’emergere delle lingue volgari. La stessa frattura religiosa provocata dalla Riforma protestante si traduce in una più intensa circolazione culturale: basti pensare alle peregrinazioni degli eterodossi e al dinamismo che Riforma e Controriforma producono nelle Chiese, all’attività missionaria nei territori da riconquistare alla fede cattolica o alla diffusione della ratio studiorum dei Gesuiti e dell’arte che riceve la sua impronta dalla Controriforma. Quanto all’aspetto politico, Machiavelli esplicita un nuovo sentimento di appartenenza individuando un modo di organizzazione dello Stato prettamente europeo, poiché “l’Europa solamente ha avuto qualche regno e infinite repubbliche”, come osserva nell’Arte della guerra. Ed è anche dell’ambiente fiorentino, a partire da Leonardo Bruni, la sottolineatura della molteplicità dei soggetti politici che operano all’interno degli Stati. Questa varietà favorisce lo sviluppo delle capacità individuali e lo spirito di emulazione, e costituirà d’ora in poi nella pubblicistica un tratto irrinunciabile della loro identità. Di qui deriva la convinzione della necessità di mantenere un equilibrio fra gli Stati che culminerà nelle teorizzazioni settecentesche. Ma già il letterato fiorentino Pier Francesco Giambullari ritiene possibile scrivere una Storia d’Europa, pubblicata a Venezia nel 1566, mostrando la concatenazione degli avvenimenti europei e finendo così con l’evidenziare lo spostamento del baricentro del continente dal Mediterraneo all’Europa centrale.
Recentemente è stato dato grande rilievo, in particolare dallo storico Immanuel Wallenstein, agli aspetti economici, al balzo demografico e all’insieme di cambiamenti strutturali che si verificano a partire dalla seconda metà del Quattrocento, a quello scatto in avanti che modifica per secoli i rapporti tra l’Europa e il resto del globo e alla specializzazione delle funzioni sul piano mondiale che permette al Vecchio Continente di assumere una posizione di dominio progressivamente crescente. È stata prestata attenzione quindi non tanto alla coscienza che di sé assumono gli Europei dalla prima età moderna in poi, ma al cumulo di fattori che di fatto determinano l’inizio di un processo di lunga durata.
La considerazione dell’esistenza di diversi gradi di civiltà, di una scala di cui lo stato degli indigeni americani costituisce il primo scalino e quello degli Europei l’ultimo, finirà nel Settecento, con la certezza della possibilità di educare i popoli primitivi che altrimenti non potranno che scomparire, sostituiti da altri più progrediti. Tra gli altri Voltaire, nel Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1756), si fa portatore di una visione dell’umanità che implica il suo progredire da uno stadio all’altro.
Tuttavia, fra Seicento e Settecento si moltiplica una letteratura incentrata su fittizie corrispondenze dall’Europa di Persiani, Arabi, Egiziani, Indiani, in cui questi criticano i costumi europei (basti citare le Lettere persiane di Montesquieu del 1721). L’ammirazione per le antiche civiltà, in primo luogo i Cinesi, pone il problema di accordare la superiorità del Vecchio Continente con la lunga storia di questi popoli, ai quali sono attribuite la saggezza e la giustizia che si vorrebbe vedere regnare nel proprio Paese. La risposta è trovata nel tradizionalismo di popoli ormai invecchiati e incapaci di ulteriori progressi, contrapposto al dinamismo degli Europei che continuano la propria corsa verso nuovi avanzamenti sociali, economici e politici e nuove conquiste artistiche e scientifiche.
Neppure nell’Ottocento, quando l’idea dell’Europa come un unico sistema politico, economico e culturale dovrà fare i conti con il sentimento di nazionalità, la costruzione dell’identità europea sarà veramente interrotta. Anzi, la convinzione della superiorità del Vecchio Continente raggiungerà l’apice negli ultimi decenni dell’Ottocento, nell’età dell’imperialismo, quando l’Europa si sentirà investita della missione di imporre la propria religione, le proprie istituzioni, i propri costumi al resto del globo e sarà compiuto il processo di gerarchizzazione economica del mondo. Proprio allora inizieranno però a manifestarsi i primi segnali di crisi, in concomitanza con l’ascesa degli Stati Uniti d’America e poi anche del Giappone, fino a che la Grande Guerra non stabilirà un nuovo assetto planetario.