La vita è bella
(Italia 1997, colore, 120m); regia: Roberto Benigni; produzione: Elda Ferri, Gianluigi Braschi per Melampo; sceneggiatura: Vincenzo Cerami, Roberto Benigni; fotografia: Tonino Delli Colli; montaggio: Simona Paggi; scenografia e costumi: Danilo Donati; musica: Nicola Piovani.
Primo tempo. Toscana, anni Trenta. Guido Orefice e il suo amico Ferruccio sono due giovanotti che sanno divertirsi combinando goliardate a bordo della loro Balilla nuova fiammante. Durante una di queste scorribande Guido incontra Dora, giovane maestra, e ne resta affascinato. Il sentimento si trasforma in amore poco tempo dopo, quando i due si rincontrano in città, dove Guido si è trasferito per lavorare come cameriere al Grand Hotel assieme a uno zio, in attesa di coronare il proprio sogno di aprire una libreria. Anche Dora si sente attratta da quel giovane romantico e sensibile, ma non osa ribellarsi alla famiglia che la vuole sposata con un arrogante gerarca fascista. Guido non si perde d'animo e conquista la ragazza con un corteggiamento serrato che culmina in un'apparizione da principe azzurro nel corso della festa di fidanzamento. Alcuni anni dopo i due giovani sono sposati e hanno avuto un bimbo, Giosuè. Guido ha aperto la libreria ma fatica a sopravvivere a causa delle leggi razziali che, in quanto ebreo, lo perseguitano. Secondo tempo. Nonostante l'atteggiamento positivo che l'uomo ha sempre adottato di fronte ai provvedimenti del regime, il giorno del quinto compleanno di Giosuè tutta la famiglia viene deportata in un campo di concentramento tedesco. Per non turbare il piccolo, Guido racconta che si tratta di un gioco, di un concorso a premi che consentirà, alla fine, di vincere un carro armato vero e proprio, la passione di Giosuè. Tutta la tragedia del lager viene costantemente ribaltata in burla dal padre, che cerca di proteggere il suo bambino da una vita troppo orrenda. Proprio alla fine del conflitto, Guido è sorpreso mentre cerca di ritrovare Dora dall'altra parte del campo e inviato alla fucilazione. Ci andrà col sorriso sulle labbra, offrendo al figlio l'ultima, estrema, dimostrazione d'amore.
Nel 1962, Pier Paolo Pasolini scrisse per il produttore Roberto Amoroso il copione per un episodio di un film a più mani. L'episodio si intitolava Il viaggio a Citera, poi divenuto La ricotta, mentre il film nel suo complesso ‒ che non verrà poi realizzato ‒ aveva come titolo La vita è bella. L'espressione non piaceva a Pasolini che la tacciò di "ottimismo italiota", ed è forse proprio per questo motivo che l'allievo Vincenzo Cerami ha scelto di servirsene, a quasi quarant'anni di distanza, per uno dei film meno ottimisti che si possano immaginare. Dopo il vastissimo successo di commedie popolari e tutto sommato facili per un comico del suo calibro, quali Il piccolo diavolo (1988), Johnny Stecchino (1991) o Il mostro (1994), a Roberto Benigni si aprivano due possibili prospettive. Continuare a esercitare la propria abilità di creatore ed esecutore di gag in blande satire sociali che comunque rientrano nel contesto variegato di un cinema regionale a conduzione familiare, oppure tentare un salto di qualità con un progetto dove non si rinneghino le origini ma ci si apra a una prospettiva universale. L'impianto stesso di La vita è bella va in questa direzione. Come in Chaplin, il comico e il tragico si fondono su un terreno comune, dove la risata e la tentazione del pianto si susseguono senza soluzione di continuità. In più, la cosa avviene nel contesto di un vero e proprio tabù, il male assoluto rappresentato dall'Olocausto. Come del resto era già accaduto a Ernst Lubitsch ai tempi di To Be or not to Be e al contemporaneo Train de vie (Train de vie ‒ Un treno per vivere, Radu Mihaileanu 1998), l'operazione di attraversare nazismo e persecuzioni razziali conservando tenacemente una risata sul viso ha dato vita a un dibattito anche aspro, che tuttavia non ha impedito al film di diventare uno dei maggiori successi internazionali dell'intera storia del cinema italiano.
Del resto, come la critica ha messo ampiamente in rilievo, La vita è bella è costituito da due parti che potrebbero essere quasi prese e valutate autonomamente. La prima riguarda infatti una rappresentazione favolistica della vita nella Toscana degli anni Trenta, durante l'ascesa del fascismo e l'inaspirsi delle leggi razziali. Qui Benigni si limita a porre le basi per quella che sarà la parte davvero sconcertante e originalissima del film. Si delineano i personaggi e l'ambiente, attingendo ai maestri riconosciuti: il rapporto fra il burattino-clown Benigni e l'arroganza del potere è affrontato nei termini enigmatici dell'assoluta estraneità con cui era già stato descritto da Marco Ferreri in Chiedo asilo (1979), mentre un certo gusto per la fuga metaforica in un mondo fantastico alternativo può essere ricondotto al manierismo felliniano di La voce della luna (1990).
Nella seconda parte, però, la situazione precipita e il gioco si fa davvero pesante. Benigni è un uomo rinchiuso con il figlio in un campo di concentramento, in attesa della morte, impegnato a usare le armi della comicità nel disperato tentativo di mantenere una parvenza di umanità negli orizzonti di un bambino sprofondato in una situazione troppo atroce per essere, letteralmente, presa sul serio. Il film diventa allora volutamente terribile, e le gag di Benigni, il suo passo dell'oca come le sue battute sull'insensatezza di quello che gli altri detenuti hanno rivelato al ragazzino (può un bambino intelligente credere al fatto che esista qualcuno che uccide le persone e usa i loro corpi per farne bottoni o paralumi?) assumono il significato assoluto di una riflessione sulla natura del male e sul potere rivelatorio del comico. Naturalmente le posizioni si ribaltano e diventa chiaro che Benigni è l'unica persona sana in un contesto abitato da pazzi sanguinari, grotteschi buffoni della crudeltà, assurdi burocrati della morte. Il territorio è scivoloso, pericoloso, difficile, e va dato atto a sceneggiatore, regista e attore di averlo attraversato fino in fondo mantenendo sempre una solida lucidità e senso della misura. Tre Oscar, per il miglior film straniero, la miglior regia e la musica.
Interpreti e personaggi: Roberto Benigni (Guido Orefice), Giorgio Cantarini (Giosuè Orefice), Nicoletta Braschi (Dora), Giustino Durano (lo zio Eliseo), Bustric (Ferruccio), Marisa Paredes (Laura, madre di Dora), Horst Buchholz (dr. Lessing), Lydia Alfonsi (Guicciardini), Giuliana Lojodice (direttrice didattica), Amerigo Fontani (Rodolfo), Pietro De Silva (Bartolomeo), Raffaella Lebboroni (Elena), Andrea Nardi, Gina Rovere, Gil Baroni.
M. Morandini, La leggerezza vincente del bambino Guido-Giosué, in "Cineforum", n. 370, dicembre 1997.
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S. Campanoni, A. Meneghelli, R. Menarini et al., Giosuè! Giosuè!! e le di-savventure del paratesto, in "Voci off", n. 14, febbraio-marzo 1998.
S. Goudet, Le rire et la mort sûre, in "Positif", n. 452, octobre 1998.
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Sceneggiatura: La vita è bella, Torino 1998.