di Davide Calcagni
Il problema minerario. Quando comunemente si pensa agli accumuli ‘convenzionali’ di idrocarburi, il pensiero immediatamente si focalizza sui grandi giacimenti del Medio Oriente, Siberia, offshore dell’Africa occidentale e orientale piuttosto che quelli localizzati nei mari di molte province petrolifere. In questo caso è bene sapere che petrolio e gas naturale sono contenuti nelle micro vacuità di rocce porose. Questa tipologia di accumulo ha inoltre un’ulteriore caratteristica: gli idrocarburi sono distribuiti nella roccia in modo ben definito e confinato (trappola) e soprattutto, nella grande maggioranza dei casi, il petrolio e il gas si liberano dalla roccia fluendo spontaneamente attraverso un reticolo naturale di micro canali e raggiungono la superficie per mezzo di pozzi di emungimento.
Nel caso di accumuli di shale gas e shale oil parliamo, invece, di accumuli ‘non convenzionali’ perché le semplici regole dette poc’anzi non valgono più. Cadono i concetti di trappola e di giacimento. Il petrolio e il gas sono contenuti in rocce impermeabili, distribuiti in modo diffuso in rocce che non presentano un reticolo naturale di microcanali e che quindi non permettono agli idrocarburi di liberarsi in modo spontaneo. Siamo di fronte ad accumuli che necessitano di sofisticate tecnologie di produzione quali la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica, in una parola il ‘fracking’.
La fratturazione idraulica ha quindi un unico, basilare e imprescindibile scopo: creare un reticolo di piccolissimi canali (fratture) entro cui gli idrocarburi possano fluire fino a raggiungere i pozzi di emungimento e quindi essere portati in superficie.
Le origini. L’idea di cercare di produrre olio e gas da rocce non in grado di rilasciare idrocarburi spontaneamente non è certamente nuova. Applicazioni con l’uso di esplosivi sono riportate fin dai primi anni del Novecento. Al contrario, l’idea di ottenere reticoli di fratture artificiali impiegando fluidi in pressione in rocce impermeabili o quasi prende le prime mosse nell’immediato dopoguerra negli Usa, ma è solo nel 1948 che una tecnologia basata sull’impiego di acqua in pressione comincia a dare qualche risultato tecnico, ed è solo nell’anno successivo (1949) che si concretizza la prima applicazione commerciale.
Dal 1949 inizia quindi una progressiva, ma limitata, applicazione industriale delle tecniche di fratturazione sia idraulica che con esplosivi ma sempre confinata nell’ambito degli ‘Eor’ (Enhanced Oil Recovery) cioè metodi di miglioramento dei volumi di idrocarburi prodotti in reservoir ‘difficili’ o meglio ‘tight’ ma comunque sempre convenzionali.
Arriviamo così senza massicce applicazioni industriali al 1973, quando il primo grande choc petrolifero porta molti governi mondiali (Usa in testa) a dover sviluppare un nuovo modello energetico per evitare di essere esposti nuovamente alle pressioni degli allora grandi produttori mondiali di petrolio. Le decisioni in materia non tardano ad essere messe in pratica e nel 1975 gli Usa promulgano l‘Energy Policy and Conservation Act (Epca) che determina una massiccio programma di finanziamenti a progetti di ricerca e sviluppo tesi a rendere gli Usa indipendenti dalle importazioni di greggio.
Un filone di ricerca si dedica allo studio di metodologie e tecniche per la produzione dei grandi accumuli ‘non convenzionali’ degli Stati Uniti. Sarà solo 30 anni dopo che il sogno diverrà realtà con l’inizio dell’escalation della rivoluzione dello shale Americano.
Il problema tecnico. Sono occorsi più di 60 anni per arrivare a ottimizzare una metodologia e una tecnica economica e industriale per sfruttare lo shale gas.e lo shale oil. La fratturazione idraulica ha infatti una dimensione rivoluzionaria solo nei confronti di questi accumuli di idrocarburi. Tutto ciò è un buon indicatore della complessità del problema affrontato. In breve: era necessario trovare il modo di rendere ‘permeabili’ e quindi produttivi decine e decine di chilometri quadrati di formazioni rocciose poste da 2 a oltre 3 km di profondità con pressioni in gioco di scala geologica (parliamo per intenderci dei campi di stress che generano le catene montuose).
La perforazione orizzontale. Il primo passo è stato mettere a punto la tecnologia per la perforazione di lunghi pozzi orizzontali (dreni). In questo caso la sfida risiede nel realizzare perforazioni orizzontali che seguano la conformazione della formazione geologica oggetto di interesse per distanze che oscillano da un minimo di 1500 m ad oltre 3000 m di lunghezza. Per dare una scala alle dimensioni dello sforzo da mettere in atto ci troviamo di fronte a tecniche di perforazione in grado di realizzare un foro non più grande di una pallina da tennis operando mediante dei tubi moderatamente flessibili a circa 6 km di distanza lineare, di cui la metà più profonda eseguita in orizzontale, con un errore inferiore ai 50 cm. Il tutto con tempi di esecuzione che non superino i 10-20 giorni al massimo.
Sono state quindi sviluppate ‘batterie’ di perforazione con flessibilità adatta ad eseguire curve dalla verticale fino a 90° e a ‘navigare’ nella roccia per mezzo di strumentazioni elettroniche al fine di guidare in continuo gli scalpelli. I fluidi di perforazione hanno anch’essi subito un’inevitabile evoluzione per supportare al meglio la perforazione di tratti di pozzo in cui la forza di gravità rappresenta non più un fedele alleato ma si trasforma in un subdolo nemico. La necessità di perforazioni estremamente veloci ed economiche ha richiesto la progettazione di pozzi concettualmente differenti in cui è stato ottimizzato il numero delle colonne di tubaggio senza alcun pregiudizio alla cementazione e tenuta ‘stagna’ dei pozzi. A questo è seguita la realizzazione di una classe di impianti di perforazione con un rapporto potenza/costo giornaliero tarato sui target geologici da affrontare e la dimensione finanziaria dei progetti. In media parliamo di rigs da 1200 a 1500 Hp.
La fratturazione idraulica. Il passo successivo è stato ideare e industrializzare una tecnologia ed un processo in grado di vincere la resistenza delle rocce per creare un reticolo artificiale di piccoli canali entro cui gli idrocarburi possano fluire verso il pozzo di emungimento (dreno). Le pressioni in gioco sono di svariate migliaia di Psi (per dare una scala si pensi che gli pneumatici di un’automobile sono gonfiati a pressioni di circa 30-40 Psi). Il problema tecnico da superare è stato riuscire a sottoporre tratti di formazione della lunghezza di circa 100 m a pressioni dell’ordine di 6000- 8000 Psi a 2-3 km di profondità. Le dimensioni dello sforzo da produrre sono notevoli ma l’intuizione tecnica vincente è stata la scelta di impiegare l’acqua come mezzo per trasferire la pressione. I liquidi, come noto, sono incomprimibili e quindi hanno la capacità di trasferire energia senza considerevoli perdite di carico. Un’operazione di fratturazione idraulica impiega quindi batterie di 10-15 pompe industriali ad alta capacità in grado di sviluppare centinaia di HP che portano acqua pressurizzata a 6-8000 Psi in formazione, sottoponendo il tratto di roccia trattato a una pressione tale da aprirvi delle fratture. La fratture generate si propagano con un percorso più o meno tortuoso a una distanza non superiore a due/ tre centinaia di metri dall’asse del pozzo. Appena la frattura si è formata, con lo stesso sistema di pompe viene depositato all’interno della frattura materiale granulare (proppant) miscelato ad altra acqua in modo da creare un ‘cuneo’ poroso (a volte ramificato) che assolve a tre funzioni: impedire che la frattura si richiuda, che il cuneo stesso si disgreghi nel tempo per effetto della pressione della roccia quando la frattura tende a richiudersi e, funzione basilare, permettere agli idrocarburi di fluire verso il pozzo. L’operazione descritta è denominata ‘stage’. L’esecuzione di una serie di stages a distanze prestabilite (da 80 a 200 m in media) lungo l’intera lunghezza del dreno permette quindi di rendere permeabile il volume di roccia attraversato dal pozzo. I dreni più complessi possono raggiungere anche i 3000 m di lunghezza con 60 stages di fratturazione. Un’operazione completa di fratturazione impiega in media dai 100.000 ai 200.000 barili di acqua addizionata di proppant (circa il 99,5% del volume) e alcuni composti chimici per facilitare l’operazione (circa lo 0,5% del volume). Il proppant, nella stragrande maggioranza dei casi, è sabbia di quarzo di appropriata granulometria. Il diametro dei singoli granelli in media è compreso fra 100 e 300 micron; solo in casi particolari si preferiscono sabbie artificiali a base di ceramiche.
La produzione di idrocarburi. I pozzi, una volta completati e fratturati, possono dare produzioni nell’ordine di centinaia di barili/giorno/ pozzo di greggio leggero, in media fra i 35° e i 42° Api, ma non mancano alcuni casi in cui la produzione ha raggiunto gli oltre 2000 barili/giorno. Le produzioni di gas sono nell’ordine delle centinaia di migliaia di piedi cubici/ giorno/pozzo di gas dolce sia associato all’olio oppure completamente dry (shale gas). Produzioni che ben si confrontano con quelle dei ‘cugini’ convenzionali: la grande differenza è data dal declino produttivo che, nel caso dei pozzi non convenzionali, è molto più rapido rispetto ai pozzi convenzionali. Dal picco iniziale, le maggiori produzioni si concentrano nei primi mesi, con un declino piuttosto rapido ed una riduzione della produzione iniziale che può raggiungere il 65% e oltre in meno nei primi tre anni, per poi declinare in modo molto più lento e con code di produzione che possono durare fino a 50 anni. Questo spiega la necessità di perforare e fratturare con continuità un grande numero di pozzi per mantenere il livello di produzione atteso in un progetto di coltivazione shale oil o shale gas.