Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’inizio degli anni Ottanta del Novecento, con la crisi dell’avanguardia, entra in scena una nuova generazione di musicisti portatori di valori che minano le basi della “cultura della modernità” in cui si era identificato il XX secolo. Al rigorismo intellettuale della Nuova Musica i compositori “postmoderni” oppongono il diritto di scegliere liberamente i propri modelli nel segno di un ritrovato desiderio di espressività e di comunicazione che li porta a rivalutare gli aspetti percettivi della musica e a riscoprire forme e sintassi del passato. Nel contempo la crisi delle grandi ideologie del dopoguerra e l’incipiente globalizzazione creano un terreno favorevole a nuove forme di pluralismo culturale, di mescolanza di generi e di integrazione fra musica colta e di consumo.
Il postmoderno in musica
Jean-François Lyotard
Pluralità postmoderna e declino delle metanarrazioni
La pragmatica sociale non ha la “semplicità” di quella scientifica. È un mostro formato dalla embricazione di reti, di classi, di enunciati eteromorfi (denotativi, prescrittivi, performativi, tecnici, valutativi, ecc.). Non vi è alcun motivo di pensare che sia possibile determinare metaprescrizioni comuni a tutti questi giochi linguistici e che un consenso rivedibile, come quello che regna in un dato momento nella comunità scientifica, possa comprendere l’insieme delle metaprescrizioni che regolano il complesso degli enunciati che circolano nella collettività. È anche all’abbandono di questa credenza che è legato l’attuale declino delle narrazioni legittimanti, siano esse tradizionali o “moderne” (emancipazione dell’umanità, divenire dell’Idea). È parimenti la perdita di questa fede che l’ideologia del “sistema” si appresta ad un tempo a colmare con la sua pretesa totalizzante e ad esprimere col cinismo del suo criterio di performatività.
J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1982
Negli anni Settanta del Novecento la carica innovativa dei fenomeni d’avanguardia che hanno caratterizzato la musica colta occidentale nel secondo dopoguerra si esaurisce. La chiave di volta è la scomparsa dei presupposti intellettuali su cui si è formata un’intera generazione di compositori che si sono riconosciuti nella Nuova Musica: l’utopia della rigenerazione infinita dei linguaggi, la provocazione musicale come strategia di coinvolgimento sociale, la ricerca del “nuovo” come sfida permanente alla percezione sonora, alle convenzioni d’ascolto, alle istituzioni della cultura di massa.
Sebbene la svolta dovrà assumere il carattere di una cesura storica – resa più evidente dal ricambio generazionale – il cambiamento si consuma tuttavia senza eccessive polemiche né discussioni accanite. È anzi l’assenza di veri manifesti programmatici, quasi una diffidenza per le scelte poetiche troppo radicali e per i sistemi teorici onnicomprensivi, a caratterizzare il nuovo scenario della musica contemporanea nei confronti della fase precedente, così propensa alle contrapposizioni frontali, alle speculazioni astratte, all’elaborazione intellettuale. Dopo un quarto di secolo nel quale i compositori d’avanguardia si sono mossi alla stregua di una scientific community attorno ad alcune parole d’ordine generali – serialismo, strutturalismo, sperimentalismo, alea, happening – emerge all’improvviso una germinazione spontanea e caotica di indirizzi individuali, meno interessati a sottoscrivere un’appartenenza di scuola che non a riscoprire nella musica, su basi empiriche e soggettive, facoltà comunicative e risonanze interiori a lungo rimosse. A questa frammentazione corrisponde una proliferazione di etichette e di “ismi” nel tentativo, ora apologetico ora denigratorio, di trovare un denominatore comune di un fenomeno che rimane in larga parte fluido e sfuggente: si è parlato di trans- e di postavanguardia, di nuova semplicità, di neosoggettivismo, di neoromanticismo, di nuove tonalità, tutte definizioni nelle quali è implicito l’abbandono delle presunzioni avveniristiche, sostituite da un nuovo desiderio di confrontarsi senza inibizioni con il proprio passato.
Nell’insieme, le nuove tendenze configurano in musica qualcosa di simile a ciò che all’epoca si comincia genericamente a indicare come “postmoderno”: un concetto in cui è implicito un capovolgimento di valori rispetto a quella “cultura della modernità” in cui si è sino allora identificato il XX secolo. Il termine non è nuovo, essendo stato impiegato sin dai primi anni Sessanta in America per indicare alcune correnti letterarie e architettoniche radicali. Arrivando in Europa però assume un nuovo e più generale significato nell’interpretazione del filosofo Jean-François Lyotard che in un fortunato saggio del 1979 (La condition postmoderne) definisce con quel termine la situazione della società postindustriale nell’ultimo scorcio del XX secolo: vale a dire, la società atomizzata dell’informazione e della telematica, della promiscuità dei messaggi e dei codici, caratterizzata dalla perdita di forti sistemi di riferimento all’interno di un’offerta culturale sempre più pletorica e indifferenziata, dove ciascuno può ormai scegliere autonomamente senza limiti di spazio e di tempo né gerarchie univoche di valore. Se l’epoca della modernità è stata, nel bene e nel male, la stagione delle utopie razionaliste e delle grandi costruzioni ideologiche, l’era postmoderna si apre nel segno opposto del relativismo, dell’eclettismo, del pluralismo culturale, dell’individualismo soggettivo e delle forme asistematiche di pensiero.
Benché nata senza riferimento alla musica, l’opposizione moderno/postmoderno coglie con precisione alcuni caratteri della nuova situazione musicale dove, all’intellettualismo esasperato dell’avanguardia, con la sua fobia dell’espressione e la consapevolezza paralizzante del peso della storia, vengono a poco a poco subentrando una visione più realistica della materia sonora e un’accettazione meno problematica della tradizione, una nuova attenzione alla sfera del privato, un desiderio di comunicazione. Qualche segno si può già cogliere nella produzione più recente di alcuni protagonisti della passata stagione, ad esempio in certe venature intimistiche dell’ultimo Luigi Nono (1924-1990), nel riaffiorare di figurazioni lineari in Luciano Berio (1925-2003) o in Mauricio Kagel (1931-2008), nel ritorno a sintassi più arcaiche in György Ligeti (1923-2006). Ma i tratti della sensibilità “postmoderna” appaiono con evidenza soprattutto nei nuovi compositori non ancora trentenni, appartenenti a una generazione nata dopo la guerra. Alla severa disciplina sperimentale dei colleghi più anziani essi oppongono il diritto di scegliersi liberamente i propri modelli senz’altra motivazione se non l’inclinazione soggettiva e l’impulso a creare. All’utopia dell’infinita manipolazione razionale del suono contrappongono una più attenta considerazione delle costanti percettive e dei dati intuitivi dell’ascolto musicale. E nel segno di una imparzialità quasi naïve verso ogni modello culturale, tornano di moda, accanto ai vocaboli espressivi, anche forme e tecniche del passato, ivi compresi elementi della sintassi tonale, depurati di ogni riferimento al loro contesto di origine. In anticipo sugli altri Paesi, e quasi per reazione al forte radicamento istituzionale della Neue Musik, è in Germania che si afferma un primo gruppo di giovani compositori (Manfred Trojahn, Wolfgang Rihm, Peter Hamel e altri) che guardano ai modelli romantici e tardoromantici di Anton Bruckner (1824-1896) e Mahler (1860-1911). In Francia sono invece i precedenti di Edgar Varèse (1883-1965) e di Olivier Messiaen (1908-1992) a dare avvio a nuove ricerche nel campo della temporalità musicale e delle componenti “spettrali” del suono nei loro aspetti psico-acustici: una corrente, legata all’Ensemble Itinéraire, ha fra i suoi principali esponenti Gérard Grisey, Tristan Murail, Michaël Levinas, e a cui non viene meno il gusto per l’elaborazione teorica e la discussione intellettuale . In Italia le nuove tendenze si traducono, tra l’altro, nella riscoperta dell’opera teatrale nella sua naturale funzione di narrare “storie in musica”, sia pure rinnovate negli schemi, nel linguaggio e nei soggetti (Lorenzo Ferrero, Giuseppe Sinopoli, Azio Corghi, Marco Tutino).
Nuovi scambi e contaminazioni
Il ritrovato rapporto con la tradizione e con le proprie radici fa riaffiorare certe peculiarità nazionali che la Nuova Musica ha occultato. Per contro, l’incipiente globalizzazione e la stessa crisi dell’avanguardia, ultimo baluardo di un’utopia eurocentrica, aprono la scena della musica contemporanea a nuovi scambi e contaminazioni transnazionali. Dagli Stati Uniti, ove si è sviluppata da oltre un decennio, la corrente della minimal music, più propriamente della “musica ripetitiva” (Philip Glass, LaMonte Young, Steve Reich) si diffonde rapidamente in Europa come esempio estremo di dilatazione dei nessi più elementari del discorso musicale. Altri influssi incrociati giungono dall’Oriente, non più inteso soltanto come fonte di filosofie esoteriche ma anche come esempio di nuove Gestalten psico-percettive (in particolare dalla musica giapponese, con la figura eminente di Toru Takemitsu). E alla fine del decennio, e nel decennio successivo, con la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, l’Occidente si arricchisce dell’apporto di compositori pressoché ignoti della Russia e dell’Europa orientale (Arvo Pärt, Alfred Schnittke, Sofja Gubajdulina). Ma a questi interscambi che liberamente valicano i confini del tempo e dello spazio, altri se ne aggiungono con l’indebolirsi delle barriere ideologiche sulle quali poggia tradizionalmente la separazione tra generi “alti” e “bassi”, tra musica d’arte e popular music. Da un lato, i musicisti d’estrazione colta cominciano a vedere nella musica pop modelli di comunicazione e forme di linguaggio in sintonia con la sensibilità musicale collettiva. Dall’altro, si diffonde nella musica di consumo una consapevolezza della propria funzione culturale e della propria storia che era stata sinora appannaggio della musica colta. Il concerto di musiche di Frank Zappa diretto da Pierre Boulez all’Institut de Recerche et Coordination Acoustique Musique (IRCAM) di Parigi nel 1984 è un evento simbolico di un processo di integrazione multiculturale divenuto irreversibile. La strada è ormai aperta a quella che appare come la situazione odierna, dove è possibile ascoltare indifferentemente, a casa, a concerto o in auto, musiche di Brahms, un gruppo heavy metal, suonatori giavanesi, ovvero il Kronos Quartet in una trascrizione per archi di brani di Jimi Hendrix (1942-1970). Ma dove tuttavia rimangono operanti, quasi irriducibili lasciti del passato, vincoli e categorie estetiche, come il concetto enfatico di opera d’arte, di artista creatore, di grande interprete, che vanamente lo sperimentalismo degli anni Cinquanta e Sessanta ha creduto di demolire.