Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Negli studi storico-artistici, oltre alla nascita della connoisseurship, la seconda metà dell’Ottocento registra una nuova speculazione nel campo dell’estetica e nel settore della ricerca propriamente detta, impostata su diverse metodologie. L’attenzione filologica al documento e alle scienze ausiliarie, la centralità dello stile, le suggestioni esercitate dalla filosofia idealistica, dalle scienze naturali, dalla psicologia, e la propensione a disegnare dinamiche di lunga gittata, compongono uno scenario complesso e contraddittorio, prologo allo svolgimento dell’arte nel Novecento.
La pura visibilità
La “scienza dell’arte” tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è intessuta di istanze diverse, tra positivismo, psicologismo e idealismo, ma non c’è dubbio che la radice e l’annuncio dei cambiamenti che segneranno l’arte del “secolo breve” si possano scorgere, per buona parte, in quella dottrina di impianto formalistico che va sotto il nome di “pura visibilità” (Reine Sichtbarkeit) – o “Purovisibilismo”, nella divulgazione di Benedetto Croce, che ne colse il plesso di intuizione-espressione –, meditata dal filosofo tedesco Konrad Fiedler nel corso di una proficua consuetudine con il pittore Hans von Marées e lo scultore Adolf von Hildebrand. Abbandonata l’idea di un’estetica costruita su norme inflessibili e sul bello ideale, l’attenzione si concentra sulla forma, piuttosto che sul tema iconografico e sulle fonti scritte, che rimangono fattori esteriori, seppur apprezzabili, visto che, sostiene Fiedler, “nelle opere d’arte vi sono molte cose degne di esser risapute, che tuttavia non hanno alcuna relazione con il loro significato artistico”. Tutto ciò tradisce i limiti della pura visibilità dal punto di vista storiografico, ignorando, o mettendo in second’ordine, quel complesso di apporti documentari che la filologia ottocentesca e l’azione dei “conoscitori” vanno indagando.
Il pensiero di Fiedler, di ascendenza kantiana, si esplica nelle sue due opere principali: Sulla valutazione delle opere d’arte figurativa (Über die Beurteilung von Werken der Bildenden Kunst, 1876) e Sull’origine dell’attività artistica (Über den Ursprung der künsterlischen Tätigkeit, 1887). Egli cerca di definire la possibilità di un “modo di vedere artistico”, di una autonomia dell’atto visivo rispetto agli altri sensi, primo fra tutti il tatto. Soltanto isolando l’attività del vedere diventa possibile superare la nozione dell’“esistenza oggettiva” delle cose e giungere a servirsi della vista per fini “inerenti al vedere medesimo”. Conquistando questa visione assoluta, l’artista potrà accedere a un mondo di “rappresentazioni” che si distaccano dalla complessità del reale, imparando a concepire non già l’arte secondo la natura, bensì la natura attraverso l’arte. Per l’artista infatti il mondo è solo apparenza, figura visibile ma inafferrabile da riprodurre nella propria intuizione. A tali condizioni l’arte non può dunque essere imitazione, ma è ricreazione del mondo. In conclusione, “l’arte nasce come momento spirituale non meno necessario della scienza, quando l’uomo sente la necessità di creare per i propri bisogni spirituali un mondo di pura visibilità”.
Le ragioni fondanti della pura visibilità, così come le sue libere o addirittura snaturanti interpretazioni, le sue assunzioni anche parziali, fanno da sfondo all’arte a cavallo del secolo e, poco dopo, alle novità clamorose delle avanguardie storiche. L’azione di quintessenziale riduzione sulla realtà, attuata dal “vedere in termini artistici” predicato da Fiedler, allontana il pericolo di un piatta mimesis in favore di una distillazione della natura nei termini di quella sintesi che informerà il simbolismo e l’art nouveau. Ancor più, quella stessa capacità dell’artista di ricreare o arricchire la natura con la propria visione selezionata consentirà l’affermarsi delle poetiche neoplastico-costruttiviste che segnano il XX secolo.
L’adesione visiva alla realtà fenomenica rimarrà campo privilegiato della fotografia. Proprio nelle avanguardie del primo Novecento questa vedrà finalmente riconosciuta la propria natura estetica in quanto traccia ed esperienza della realtà mondana. Sarà così superato quello stato di subordinazione alla pittura che ne caratterizza la pratica nel corso dell’Ottocento, quando Baudelaire ne censura la facile prassi come “rifugio di tutti i pittori mancati”, riconoscendo a essa un modesto ruolo ancillare.
Alois Riegl e la Scuola di Vienna
Con Scuola di Vienna (Wiener Schule) si intende una cerchia di personalità scientifiche operanti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento nella capitale dell’Austria felix, che vive un periodo di straordinaria ricchezza intellettuale e artistica a fronte di una rapida decadenza politica culminata nel primo conflitto mondiale. La teoria della pura visibilità entra solo in parte nel metodo della Scuola. Infatti, pur nelle diverse prassi adottate dai suoi esponenti, accanto alla suggestione di un’analisi esclusivamente formale, riveste massima importanza l’attenzione all’oggetto artistico, minore o maggiore, nella sua materiale concretezza, in quanto documento della civiltà che lo ha prodotto. L’oggetto viene indagato in maniera diretta e autoptica, con il supporto delle fonti letterarie, archivistiche e delle cosiddette discipline ausiliarie. In questo modo si inaugura una collaborazione tra istituzioni museali, università e altri istituti di ricerca, primo fra tutti l’Istituto austriaco per la ricerca storica (Institut für Österreichische Geschichtsforschung) che ospita un insegnamento di storia dell’arte.
All’interno della Wiener Schule la figura di Alois Riegl, forse la più importante e discussa per sensibilità critica, originalità e ampiezza di vedute, va ricordata per aver efficacemente contestato i pregiudizi estetici sulle “età di decadenza” e sulle “arti minori”. Di salda formazione storico-filologica, Riegl è tuttavia uno spirito speculativo, cui fanno buon servizio gli studi filosofici giovanili, accordati su una visione universalistica della storia e dell’ethos dei popoli. Nel suo metodo il particolare e il generale, l’emergenza infinitesima e il monumento nella sua interezza sono sempre valutati e messi in rapporto a dinamiche risolutrici di portata molto ampia.
Le sue ricerche sull’ornamentazione vegetale dall’antichità al Rinascimento, tra Europa e vicino Oriente, iniziate con lo studio sui tappeti orientali (Altorientalische Teppiche, 1891) e culminati in Problemi di stile (Stilfragen, 1893) restituiscono a un genere considerato minore e anonimo, prodotto poco innovante di maestranze specializzate, l’importanza che gli compete, dimostrando l’antico lignaggio e l’autonomia formale della decorazione rispetto alla più blasonata pittura di storia o di immagine. Riegl si convince dell’inesorabilità dello sviluppo della forma secondo una “volontà artistica” (Kunstwollen) collettiva, che ingloba e in un certo modo riassume gli stili individuali. Per Riegl le forme si sviluppano e trovano il loro compimento indipendentemente da qualsiasi limite opposto dal materiale e dalle pratiche in uso in ciascuna epoca, contrariamente alle teorie di Gottfried Semper, che vedono scaturire proprio dal fattore tecnico le conseguenze formali. Riegl scriverà più tardi: “ho visto infatti nell’opera d’arte il risultato di un Kunstwollen determinato e cosciente del suo scopo che si afferma lottando con lo scopo utilitario, la materia prima e la tecnica”. Proprio le ricerche sulla decorazione cadono, non a caso, nel clima internazionale del simbolismo, che nutre un fecondo rinnovamento del linguaggio ornamentale e che a Vienna rivisita liberamente moduli classici nell’opera di Gustav Klimt e degli artefici della Wiener Werkstätte.
È nella sua opera più celebre che il suo metodo si manifesta organicamente: con Industria artistica tardoromana (Die spätrömische Kunstindustrie nach den Funden in Össterreich-Ungarn, 1901) egli vede quel Kunstwollen trasversale a tutte le arti, maggiori e minori. Esso si riverbera nei vari manufatti con modalità particolari ma coerenti, secondo una progressione percettiva su scala epocale che va da una sensibilità “tattile” (preferenza per figure ”piatte”, aderenti alla superficie e nemiche dello spazio profondo, caratteristiche dell’antichità pre-ellenica, per esempio nella civiltà egizia o mesopotamica), fino alla graduale conquista, proprio nella pretesa “decadenza” del Tardoantico, dello “spazio cubico”, prodromo alla spazialità medievale e poi al perfetto governo prospettico nella modernità. Le opere della tarda antichità sollecitano così, diversamente dall’arte arcaica, una visione da lontano, che anima valori ottici. Dunque, proprio in un’età di preteso declino, quell’arte “barbarica” e disarmonica inaugurerà nuovi canoni estetici fondati anche su una dialettica luce e ombra, carica di tensioni emotive e spirituali. È bene sottolineare poi che il binomio “ottico” (optisch) / “tattile” (haptisch), che si deve in parte alle idee di von Hildebrand sulla scultura, avrà una notevole importanza per le nuove modalità cognitive dell’arte di un Novecento che produrrà opere non solo “da vedere” ma anche “da toccare”, mentre la rivalutazione della espressività “barbarica” dell’arte postclassica va di pari passo con le prime avvisaglie dell’espressionismo, che sarebbe esploso di lì a qualche anno (Oskar Kokoschka, Egon Schiele, ecc.). Riegl non si interessa particolarmente all’arte contemporanea, ma riusce a comprendere come la stagione del naturalismo-impressionismo (estremo raggiungimento di quella sensibilità ottica maturatasi nei secoli) si sia ormai esaurita, per far posto a valori superficiali di ritorno, a un’arte che privilegi forme “neoegizie” di “schietto oggettivismo tattile”, che egli riconosce nella pittura, da lui apprezzata, di Jan Toorop e, in generale, nella stagione del simbolismo.
Oltre a Julius von Schlosser Magnino (1866-1918) e alle sue indagini innovative su fenomeni eccentrici quali le Wunderkammern e sull’arte di corte internazionale tra Tre e Quattrocento, tra gli altri esponenti della Wiener Schule vanno ricordati Franz Wickhoff e Max Dvorák.
Wichkoff è studioso di formazione filologica e positivistica, attento alle fonti letterarie e alieno da speculazioni estetologiche. Importanti i suoi studi sull’arte romana, che egli vede in autonomia rispetto all’arte ellenica, notandovi tendenze impressionistiche, in linea con quel clima artistico che a Vienna si declina in un sentimentale Stimmungsimpressionismus. Dedica poi importanti indagini alla miniatura tardoantica nella Genesi di Vienna (Die wiener Genesis, 1895) ove approfondisce il problema della concezione spaziale nell’antichità, e nel Rinascimento.
Di Max Dvorák occorre sottolineare la convinzione nell’assoluta storicità dell’indagine sulle opere d’arte, senza alcun debito nei confronti della filosofia e dell’estetica, cui non sarebbero propri “valori storicamente determinati”. Ciò non significa che la storia dell’arte debba confondersi con la più generale storia della cultura, poiché, se è vero che le opere d’arte “non sono solo dei monumenti dell’evoluzione artistica, ma anche di quella strettamente culturale”, poiché “ci illuminano su usi sociali, forme di vita, rapporti economici, costumi”, è del pari incontestabile che tutto ciò non sia oggetto della storia dell’arte, bensì delle varie specifiche discipline, quali appunto la storia economica, la sociologia ecc. Per Max Dvorák tali aspetti sono importanti e determinanti, ma costituiscono solo lo scenario panoramico, le “premesse esteriori per i fenomeni artistici”. La forma, lo stile seguono “linee autonome di sviluppo genetico” che è compito delle indagini storico-critiche sviscerare. Dvorák accetta la centralità del problema stilistico e la concezione evolutiva dei fatti artistici seguendo il suo maestro Riegl, ma negli anni della maturità la sua speculazione assumerà toni antipositivistici, per disegnare una storia dell’arte pensata come storia delle idee e dello spirito di ispirazione hegeliana. In altre parole, l’arte “non crea solo soluzioni formali […] ma con esse […] dà corpo alla Weltanschauung”, cioè alla nostra visione del mondo. Ne sono esempio i suoi studi sul gotico (Idealismus und Naturalism in der gotischen Skulptur und Malerei, 1918), ove egli vede una bilanciata convivenza tra spirito e attenzione alla natura, segno dell’“equilibrio tra una spiegazione soprannaturale della vita e un determinato riconoscimento della vita stessa” nei suoi termini mondani e materiali.
Heinrich Wölfflin e la “storia dell’arte senza nomi”
Anche il metodo indicato dall’elvetico Heinrich Wölfflin, allievo a Basilea di Jacob Burckhardt, è basato sulla psicologia collettiva e addirittura nazionale, a indicare quella che si definisce una “storia dell’arte senza nomi”, ove anche le personalità più elevate partecipano, al pari dei comprimari, di una medesima visione del mondo, anzi di un modo di vedere e dunque di rappresentare sostanzialmente diverso tra Rinascimento e Barocco, che sembrano così divenire due categorie del pensiero e della vita, oltre che dello stile. Egli ne afferma la pari dignità contribuendo alla rivalutazione dell’arte barocca, censurata allora come “dialetto inselvatichito” e corrotto dell’equilibrata maniera rinascimentale.
Wölfflin esordisce con un saggio intriso di suggestioni fisiopsicologiche: Prolegomeni a una psicologia dell’architettura (Prolegomena zu einer Psychologie der Architektur, 1886), in cui l’organismo architettonico diventa proiezione e specchio dell’anatomia umana e delle funzioni del corpo.
Nei suoi studi ulteriori sull’architettura romana tra Rinascimento e Barocco, lo studioso individua due macrocategorie polari, il “lineare” (o “tattile”) e il “pittorico” (o “pittoresco”), tra cui si svolge la storia delle forme in età moderna. Egli contrappone l’“essere” statico e, appunto, “lineare” del classicismo rinascimentale al “divenire”, all’“illimitato” e al “colossale” dei movimentati e “pittoreschi” scenari barocchi. Queste due categorie sono assai simili a quello che Riegl intende per “tattile” e “ottico”, ma Wölfflin le impiega in un arco temporale assai più ristretto, fra XVI e XVII secolo. Coerentemente alla sua visione psicologistica, l’architettura in ciascun tempo “riproduce l’essere fisico dell’uomo, la sua maniera di comportarsi e di muoversi, il suo comportamento leggero e disinvolto, oppure grave e serio […]. Essa rivela […] il senso vitale d’un’epoca”.
In Concetti fondamentali della storia dell’arte (Kunstgeschi-chtliche Grundbegriffe, 1915) Wölfflin precisa meglio le nozioni di “lineare” e “pittorico”, allargandone l’ambito all’intero “sistema moderno delle arti” (pittura, scultura e architettura) e smembrandole in una serie di cinque coppie di sottocategorie, cinque modalità della visione, impostate secondo una progressione tramite la quale si dimostra la mutazione dello stile rinascimentale nel movimentismo barocco. Da forme chiuse e lineari si passa a forme pittoresche, animate da luce e ombra; da figure organizzate in superficie si passa alla profondità, cioè a una più disinvolta occupazione dello spazio pittorico; da forme chiuse, disposte secondo assi verticali e orizzontali, si va verso forme aperte, distribuite casualmente; dalla molteplicità ben definita delle cose, in un qualche modo “isolate” le une dalle altre, si passa all’unità indifferenziata, al coinvolgimento di corpi, luce e spazio in un continuum formale; infine, dalla chiarezza assoluta di una luce indeterminata si passa alla chiarezza relativa propria del fenomenismo atmosferico. Questo sviluppo porta dunque a un’arte animata, pronta a dare conto della casualità, della vitalità dei fenomeni mondani, sciogliendo i lacci di una visione rinascimentale impostata su equilibri statici. Wölfflin contrappone le due modalità del vedere e dello stile, sorvolando sui fenomeni intermedi e devianti e sulla problematicità del manierismo. Per sua stessa ammissione, egli non vuole fare compiutamente la storia dell’arte tra XVI e XVII secolo, ma delinearne “lo schema, le possibilità ottiche e figurative.
Panofsky, iconografia e iconologia
Il nome di Erwin Panofsky e il filone prediletto della sua ricerca, l’iconologia, disciplina che a lui deve la propria matura definizione scientifica, non possono essere dissociati da quelli che se ne possono considerare i due padri culturali: da una parte il filosofo neokantiano Ernst Cassirer, con la sua Filosofia delle forme simboliche (Philosophie der symbolischen Formen, 1923-1929), dall’altra Aby Warburg e le sue innovative ricerche in campi del sapere fino ad allora ignorati dagli storici dell’arte (astrologia, magia, studio del folclore, economia, antropologia, ecc.), con particolare attenzione al tramando e alla memoria delle immagini dall’antichità, al medioevo e al Rinascimento, nonché alle culture extraeuropee. Cassirer e Warburg sono le due radici di un ceppo dottrinale sul quale Panofsky innesta la propria riflessione e ricerca sulla nozione di simbolo: teoretica e istitutiva secondo Cassirer; culturale, artistica, con una maggiore attenzione all’alveo della storia entro cui recuperare o ricostruire un senso ormai dimenticato secondo Warburg. Notevoli a tal proposito, sono le indagini di Panofsky sull’individuazione di motivi classici nell’iconografia cristiana, o la reinterpretazione cristiana di immagini dell’antichità.
L’adesione alla dottrina cassireriana è manifesta nel celebre contributo che il giovane Panofsky dedica al problema della raffigurazione dello spazio dall’antichità al Rinascimento, La prospettiva come “forma simbolica” (Die Perspektive als “symbolische Form”, 1927) ove egli interpreta le varie modalità di restituzione delle tre dimensioni sul piano come cifra simbolica della visione del mondo in ciascun tempo.
Con “iconologia” definiamo oggi un’indagine in profondità sui significati simbolici, allegorici e criptici delle immagini, dunque una dimensione relativa al “contenuto” e non più semplicemente alla “forma” quale è indagata dalla pura visibilità e, per alcuni aspetti, da buona parte delle personalità fin qui citate. Occorre premettere che “iconologia” è un lemma dotto che deve la sua prima comparsa in epoca moderna al dizionario eponimo del perugino Cesare Ripa (1593).
L’iconologia secondo Erwin Panofsky sarebbe però qualcosa di più complesso, che matura al termine di tre diversi “gradi di giudizio” sull’opera d’arte. Nell’introduzione a Studi di iconologia (Studies in Iconology, 1939), pubblicato dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti a seguito delle leggi razziali naziste, lo studioso ipotizza tre diversi livelli di comprensione di un’immagine artistica; il primo livello è quello descrittivo e prevede l’identificazione delle “pure forme […] come rappresentazioni di oggetti naturali, quali esseri umani, animali, piante, case, utensili e così via”. Il passo successivo è quello iconografico, cioè la descrizione dell’immagine in termini di senso storico o allegorico, quando i suoi motivi possono essere riconosciuti come “portatori di un significato secondario o convenzionale […]” in una determinata cultura. Ad esempio, la raffigurazione di tredici persone a tavola, con il personaggio centrale che spezza il pane o innalza il calice, è immediatamente riconoscibile come un momento fondamentale della civiltà cristiana, quale appunto l’Ultima cena, mentre non riuscirebbe comprensibile in tali termini a chi ignorasse completamente i Vangeli. Il terzo e ultimo livello è quello propriamente iconologico, più complesso e raffinato: si tratta di riconoscere nell’immagine il suo “significato intrinseco”, dunque “l’atteggiamento fondamentale di una nazione, di un’epoca, di una classe, di una convinzione religiosa o filosofica” che l’artista ha, inconsapevolmente o no, sintetizzato nella sua opera. In questo senso l’analisi iconologica richiede, secondo Panofsky, “una facoltà mentale confrontabile a quella di un diagnostico”, che sia capace di un’“intuizione sintetica” al limite dell’“irrazionale”. Nota Giovanni Previtali, che nel corso del tempo, forse influenzato da un certo pragmatismo d’oltreoceano, unitamente al fatto che il termine stesso “iconologia” è guardato con un certo sospetto, questa componente estrema viene riassorbita in un ridimensionamento dell’iconologia stessa, che si avvia a essere una sorta di iconografia più approfondita, in senso warburghiano, confortata da erudite digressioni a tutto campo.
Uno sguardo al Novecento
Il panorama della critica d’arte nel pieno Novecento si presenta assai più complesso rispetto a quello sopra delineato, che vede sostanzialmente istanze formalistiche e contenutistiche scontrarsi o venire a patti nella difficoltosa definizione di una vera scienza storico-artistica. Le scienze sociali chiamate allora in causa come sfondo entrano ora potentemente nel campo della storiografia, ad esempio con Arnold Hauser, padre di una sociologia dell’arte di impronta marxiana che non consente l’autonomia della storia dell’arte quale la volevano i padri della Scuola di Vienna, proprio perché epifenomeno di dinamiche sociali preponderanti. Inoltre, alla psicologia cognitiva si sostituisce ben presto la psicanalisi, stanti le notevoli implicazioni con la storia dell’arte, che vanno dalla ricostruzione della personalità di Leonardo compiuta da Freud stesso, alle naturali propensioni del Surrealismo nel misurarsi con il subconscio. La “s-definizione” dell’arte già decretata dal Dadaismo e ampliata dalle neoavanguardie nel secondo dopoguerra, contribuirà infine alla fortuna delle teorie di stampo semiotico, volte all’analisi, alla decostruzione e alla ricostruzione del testo in nome della rilevanza del valore “significante”.