La sessualita a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una parità quasi raggiunta e una grande libertà: le donne romane, a differenza di quelle greche, raggiungono un livello di emancipazione considerevole, a patto naturalmente che adempiano agli obblighi sociali e all’etica vigente, finché non interviene l’intento moralizzatore del principato: Augusto, assecondando una supposta esigenza di moralità che sembra rispondere alle accuse infamanti e alla misoginia esplicita della satira letteraria, legifera per addomesticare la sessualità femminile – con scarso risultato, invero, ma preparando il terreno al cristianesimo che, una volta divenuta religione di stato, sancirà in modo definitivo la discriminazione di genere.
Il modello dei rapporti fra sessi teorizzato da Aristotele trova perfetta corrispondenza nella mentalità, nella prassi e nelle regole giuridiche di Roma, dove la condizione femminile, nei primi secoli di vita della città, è sostanzialmente analoga a quella delle donne greche. Ma a partire dal III secolo a.C. la situazione cambia, e all’epoca di Augusto, raggiungono la quasi totale parità di diritti in campo privato, e soprattutto una libertà di movimento e di pensiero che alcuni secoli prima sarebbero stati semplicemente inimmaginabili.
È un processo lungo e complesso quello della emancipazione delle donne romane, che qui non è possibile seguire, se non per segnalare due circostanze, che giocano un ruolo fondamentale nel facilitarlo: in primo luogo le donne romane, a differenza delle donne greche, alla morte del padre partecipano alla sua successione, in condizioni di assoluta parità con i fratelli maschi, e con il passare del tempo acquistano la capacità di disporre liberamente del proprio patrimonio. In secondo luogo sono spesso istruite: a differenza delle donne greche, infatti, ricevono un’educazione, non solo elementare, e non studiano solo materie "femminili", come ad esempio la letteratura, bensì anche materie come il diritto e la retorica. Due circostanze – la capacità patrimoniale e l’istruzione – senza le quali, indiscutibilmente, all’epoca di Augusto le donne non sarebbero economicamente e intellettualmente indipendenti, come invece diventano.
Senonché accade che il modo in cui esse usano i loro nuovi diritti non piaccia agli uomini. I Romani – questo va detto – hanno un’idea del ruolo femminile diversa e molto più liberale di quella dei Greci: il compito delle donne, per loro, non è solo generare figli, è anche affiancare il marito nell’educarli. Se non svolgono degnamente questo ruolo le sanzioni sono pesanti, ma se si adeguano a quel che l’etica cittadina prescrive, se sono mogli e madri esemplari, vengono ricompensate da grande rispetto e considerazione, e sono autorizzate a vivere una vita sociale molto attiva: come potrebbero educare degnamente i figli, insegnando loro a essere buoni cittadini romani, se fossero condannate all’incultura e all’ignoranza di quel che accade nello spazio pubblico?
Ma, ciò posto, esistono dei limiti, e le nuove donne, quelle "emancipate", secondo i Romani li hanno abbondantemente superati. Ecco alcuni esempi (letterari, ma non per questo meno significativi): nella seconda metà del I secolo, racconta Marziale, la "casta" Levina prende i bagni nelle acque del lago Averno, o nelle terme: e quindi, “cade in amoroso fuoco: pianta il marito, e segue un giovanotto” (I, 62); la moglie di Alauda si lamenta perché il marito fa l’amore con le schiave: ma lei lo fa con i lettighieri, ecco cosa significa la "parità" fra i coniugi (XII, 58); Proculeia abbandona il marito ormai vecchio perché non più ricco a sufficienza, e lo licenzia con la frase che una volta dicevano i mariti: tuas res tibi habeto, "riprenditi le tue cose" (X, 41). Potremmo continuare, ma quel che pensa Marziale è più che chiaro. E se passiamo a Giovenale il quadro si fa ancora più fosco, e la denuncia delle nefandezze femminili diventa di inaudita spietatezza. Ursidio vuole un figlio – leggiamo nella sua sesta satira – e perciò cerca una moglie come quelle del tempo antico: ma ormai, “le donne che non tendano insidie di baci perfino al loro padre, sono poche” (VI, 50-51). Sposarsi, di conseguenza, è un rischio serio, la corruzione ha contagiato anche le donne più umili: “ormai la lussuria è pari vizio di tutte, sia padrone, sia schiave: quella che logora a piedi scalzi lo scabro selciato non è migliore di quella che si fa portare in lettiga da giganteschi siriani” (VI, 347-349). Le più povere, rispetto alle altre, hanno tuttavia un punto a loro vantaggio: “si sottomettono al pericolo del parto e, nonostante le angustie della loro povera condizione, sostengono tutte le fatiche naturali della donna che allatta. Pochissime invece sono le puerpere che si vedono giacere negli aurei letti dei ricchi” (VI, 588-590).
Superfluo dire che la satira è un genere letterario per definizione malevolo, e che l’avversione di Giovenale per il sesso femminile rivela una misoginia che rasenta i limiti del patologico. Ma in lui tornano temi che sono evidentemente patrimonio del senso comune dell’epoca: tra i quali, accanto a quello dell’adulterio, quello della abitudine delle donne di abortire per pura leggerezza, vanità, o desiderio di non limitare la loro sfrenata vita sessuale. Ce n’è quanto basta per avere un’idea di come venga vissuta l’emancipazione femminile. E a dare la sintesi di quello che è l’atteggiamento maschile più diffuso soccorre la citazione, in Livio, di una celebre frase di Catone: alle donne non bisogna concedere di essere uguali agli uomini, perché “non appena avranno la parità, ci comanderanno” (Livio, XXXIV, 3, 2).
Come rimediare a questo stato di cose (o meglio, a quello che viene presentato come tale)? Preoccupatissimi per le sorti dell’istituto familiare, da sempre considerato il baluardo che garantisce la saldezza dello stato, oltre che turbati da comportamenti che fanno vacillare la loro certezza nella propria tanto vantata virilità, i Romani tentano in molti modi di contrastare i nuovi costumi, e uno di questi è l’impegno di Augusto di difendere i "valori familiari" con una serie di leggi, tra le quali una legge sull’adulterio (lex Iulia de adulteriis, 18 a.C.). Sino a quel momento, il venir meno da parte delle donne alla fedeltà coniugale se sposate, e al dovere della castità se nubili, divorziate o vedove, è stato considerato una questione esclusivamente familiare. La lex Iulia, invece, lo valuta per la prima volta come un comportamento punibile su richiesta non solo dei padri e dei mariti, ma di qualunque cittadino decida di intentare l’azione criminale appositamente prevista a questo scopo. La pena è la relegazione su un’isola, accompagnata da pesanti sanzioni patrimoniali. Le adultere non rischiano più la vita, secondo le nuove regole. Ma la legge è un totale fallimento: nel timore di ritorsioni, nessuno denunzia le adultere; nel corso di un secolo i processi per questo reato non raggiungono neppure la ventina. Augusto non risolve il problema dell’adulterio, ma sta per aprirsi una nuova era, destinata a cambiare profondamente la cultura romana, anche in questa sfera: l’epoca in cui si diffonde e quindi si afferma il cristianesimo.
La predicazione di Cristo agisce in profondità, portando innovazioni radicali nel rapporto tra sessi e mettendo in discussione l’etica sessuale e le pratiche sociali pagane. A Roma, sin dai tempi di Romolo i matrimoni possono essere interrotti. Per Gesù, invece, il matrimonio è indissolubile (Matteo, XIX, 3-9 e Marco, X, 2-9). Come se questo non bastasse, Gesù e i suoi seguaci dicono che uomo e donna hanno pari dignità nel matrimonio. E Paolo, nella Lettera ai Galati, afferma che non vi deve più essere “né giudeo, né greco, né schiavo, né uomo libero, né donna, né uomo” (III, 28). Non senza contraddizione, peraltro, lo stesso Paolo, nella Lettera ai Corinzi (in cui peraltro descrive il matrimonio come una relazione paritaria), scrive che “l’uomo, il capo della donna”, è “immagine e gloria di Dio, la donna è gloria dell’uomo” (I, 11, 7).
A cancellare le discriminazioni non intervengono neppure gli imperatori cristiani. Nel 339, Costanzo e Costante, i figli di Costantino, reintroducono la pena di morte per l’adulterio (Cod. Theod., IX, 15, 1, del 318 e Cod. Theod., XI, 36, 4, del 339). La violazione della fedeltà coniugale, insomma, viene punita con crescente severità, e solo qualora a violarla sia la moglie. Se è vero, infatti, che le disposizioni sin qui esaminate prevedono che la pena venga applicata anche al complice dell’adultera, non bisogna dimenticare che, come sempre era stato, questi viene punito per aver leso il diritto di un altro cittadino all’esclusività sessuale sulla propria moglie e non, certo, perché a un uomo sia vietato di per sé di avere rapporti con donne diverse dalla propria moglie. Qualora un uomo sposato abbia rapporti sessuali fuori del matrimonio con una donna che non è tenuta alla fedeltà coniugale (vale a dire con una prostituta o una schiava), nei suoi confronti continua a non essere prevista alcuna sanzione. Se tradisce la moglie, rischia solo di perdere alcuni vantaggi patrimoniali legati al matrimonio. Nel 556, infine, l’imperatore Giustiniano, spinto dal desiderio di limitare le condanne capitali, abolisce la pena di morte. In base alle nuove disposizioni, l’adultera deve essere chiusa in un monastero, dal quale può uscire solo se il marito la perdona entro due anni. Se il perdono non viene concesso entro questo termine, o se il marito muore prima della sua scadenza, viene condannata a passare in reclusione il resto della sua vita (Novella, CXXXIV, 10). In una società che aveva utilizzato la detenzione solo come misura preventiva (in attesa degli esiti di un processo o, dopo una sentenza, nell’attesa di un’esecuzione capitale), e in cui le pene – peraltro crudelissime – non avevano mai comportato la reclusione, l’adulterio femminile è il primo reato punito con una sanzione equiparabile all’ergastolo.
Le discriminazioni legate alla diversità delle donne continuano a sussistere ben oltre la fine dell’impero romano. Perché cominci a essere messa in discussione la naturalità della loro differenza devono passare ancora molti secoli. Limitiamoci ad alcune delle diverse ipotesi avanzate per riconfermarla, e facendo un balzo avanti di circa due millenni arriviamo alla Germania dell’Ottocento.
In pieno clima romantico, un autore che nasce sulla fine del secolo precedente, Josef Görres, vedendo tradite le speranze rivoluzionarie (ovviamente, quelle della Rivoluzione francese) trova rifugio nello studio della mitologia e della cosmologia, e formula una singolarissima teoria della differenza sessuale, da lui intesa come il riflesso sulla terra della differenza sessuale che percorrerebbe il cosmo. Sempre in Germania, sempre nell’Ottocento, Jacob Grimm, uno dei famosi fratelli, formula una teoria della differenza sessuale in campo linguistico: le vocali, più elementari, sono femminili; le consonanti, frutto più elaborato della riflessione, sono maschili; la forma attiva del verbo è maschile, la forma passiva è femminile, e la traduce in alcune equiparazioni: "maschile = natura spirituale, luce e libertà"; "femminile = natura materiale, gravitazione e necessità".
Veniamo a un terzo e ultimo esempio, che dalla cosmologia e dalla linguistica ci conduce alla storiografia. Ancora nell’Ottocento, lo storico del diritto Johann Jakob Bachofen, nel 1861, scrive Das Mutterrecht, un’opera monumentale destinata a suscitare molte polemiche ma anche ad avere una grande celebrità. In essa Bachofen formula una teoria (inevitabilmente evoluzionista, nel clima culturale dell’epoca) secondo la quale tutti i popoli, in tutti i tempi, devono passare attraverso degli stadi di sviluppo: il primo, che definisce "afroditismo" o "eterismo" è lo stato di natura, in cui gli uomini sottomettono le donne grazie alla superiore forza fisica. Da questo stato di cose le donne reagiscono, riescono a uscire ricorrendo alla loro religiosità, con cui arrivano a imporre il matrimonio monogamico, e con esso la "ginecocrazia": un’epoca felice, in cui – eccoci al punto che ci interessa – trionfano i valori femminili, vale a dire la fratellanza, la giustizia e l’eguaglianza. E all’affermazione della femminilità in campo sociale Bachofen collega l’affermarsi di una serie di equazioni. Tra esse: la notte e il buio sono femminili, mentre il giorno e la luce sono maschili; la destra, attiva, è maschile, mentre la sinistra, passiva, è femminile.
Ed ecco la conclusione della sua storia (che sarebbe piaciuta a Aristotele): il periodo del potere femminile, dice Bachofen, è destinato a essere superato dal patriarcato, che si impone perché la donna, legata alla materia, non è in grado di far nascere lo stato, prodotto dello spirito, con cui solo l’uomo si identifica. Gli esempi potrebbero continuare. Ma quanto visto sembra più che sufficiente per trarre alcune conclusioni sulle teorie formulate dai greci sulla "differenza" che oggi chiamiamo "di genere": ripensare al loro caparbio rifiuto di ammettere una identità femminile diversa da quella "naturale" (salvo i casi "contro natura", per dirla con Aristotele) non è solo una erudita escursione in un mondo diverso e lontano. Ripensare alle idee dei Greci sulla identità femminile aiuta a ragionare sul peso e sui molteplici aspetti della loro eredità. Insieme alla democrazia, al teatro, all’arte e ai tanti lasciti per i quali, giustamente, continuiamo a celebrarli, ai Greci dobbiamo anche una codificazione della differenza sessuale le cui conseguenze hanno determinato la vita di milioni e milioni di persone sino alle soglie della nostra era.