Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’opera dei tre compositori appartiene a quell’eccezionale tratto di storia culturale che è vissuto a Vienna tra il tardo Ottocento e il primo Novecento. Nei tre viennesi, estetica ed etica non sono mai separabili da aspetti di tecnica compositiva; l’invenzione dell’atonalità e la sua razionalizzazione nella dodecafonia sono manifestazioni di una tradizione intellettuale, che in quegli anni ebbe nuova vita, completamente assorbita nel tentativo di dare una lettura del mondo attraverso l’elaborazione di un linguaggio.
La cultura viennese fin de siècle
Quella di Vienna è, per antonomasia, la scuola musicale del Novecento. Il termine “scuola” non ha qui il senso di un semplice riferimento di massima – a seguito di una “prima” scuola di Vienna, con i tre corifei del classicismo Haydn, Mozart e Beethoven – ma quello di un sodalizio stretto, con ferrea unità d’intenti e di concezioni, la cui guida è Arnold Schönberg (1874-1951), e le cui altre figure di rilievo (dal 1904 al 1908 suoi allievi) sono Alban Berg (1885-1935) e Anton Webern (1883-1945). L’influsso della scuola di Vienna su numerosi altri compositori si è d’altronde ramificato tanto da far assumere al termine il significato di un magistero esercitato ben oltre i confini geografici e temporali del cenacolo (anche grazie al fatto che Schönberg continua il suo insegnamento a Berlino dal 1925 e, dopo l’avvento del nazismo, negli Stati Uniti, dal 1933). La statura del sodalizio, inoltre, si commisura – nella profondità del disegno intellettuale, nei suoi successi ma anche nei suoi insuccessi di pubblico, nel suo aspetto di “rivoluzione conservatrice” – a quella di Vienna e della sua aura di capitale della cultura del XX secolo. Johannes Brahms (1883-1897), Anton Bruckner (1824-1896), Gustav Mahler (1860-1911) e, tra i non musicisti, Sigmund Freud, Hugo von Hofmannsthal, Gustav Klimt, Karl Kraus, Adolf Loos, Arthur Schnitzler, Otto Wagner, Otto Weininger, Ludwig Wittgenstein, appartengono a questa temperie.
Atonalità, dodecafonia e musica seriale
Gli esordi compositivi di Schönberg avvengono nel duplice segno di Brahms e di Wagner. Da subito la sua scrittura si contraddistingue per fitte maglie di motivi correlati tra loro in un’intelaiatura tonale prima “allargata” e poi “sospesa” – ossia, in cui le direzioni e le mete tonali sono sempre più fortemente offuscate. Può essere preso a paradigma di questa tendenza il poema per sestetto d’archi Notte trasfigurata (Verklärte Nacht) op. 4, del 1899. Il fatto che questo brano, scritto a 25 anni, sia poi rimasto il più eseguito e il più noto dell’opus schönberghiano, la dice lunga su quanto oltre sospinge il linguaggio musicale, in una ricerca di coerenza e di autenticità del tutto priva di mediazioni con il gusto del pubblico. Già da Pelleas und Melisande op. 5 (altro poema sinfonico su testo di Maeterlinck, composto tra il 1902 e il 1903), la padronanza di Schönberg delle tecniche della tradizione tonale, che ha acquisito quasi esclusivamente da autodidatta, è tale da permettergli di farne materiali del tutto nuovi (ad esempio, accordi per quarte ed esatonali). In questo modo si innesca un processo di trasfigurazione dei mezzi espressivi del passato che ben presto condurrà alla cosiddetta atonalità. In un brano atonale la coerenza non si basa più sugli accordi e sui processi armonici della tonalità; un’alternanza di elementi “centrali” e centrifughi vi è ancora presente, ma quasi unicamente nell’ambito di sonorità variamente dissonanti: con queste si calibrano tensioni e distensioni del flusso sonoro, così da reinventare ex novo la dialettica tonale. Da questo punto di vista si può meglio comprendere un’analogia tra l’atonalità e la corrente artistica dell’espressionismo (Schönberg e Kandinskij sono in contatto dal 1911 e coautori dell’almanacco “Der blaue Reiter”, “Il cavaliere azzurro”). Non solo entrambi sono linguaggi dell’immediatezza della vita psichica che sopravanza i vincoli delle tradizionali forme artistiche; in particolare, essi sono accomunati da una decisiva tendenza all’astrattismo (o astrazione): la trasmutazione dell’armonia tonale in quella atonale da un lato, e di figure in elementi non figurativi dall’altro, sembrano essere sottese dalla stessa logica interiore. Il passaggio all’atonalità avviene in un arco di tempo brevissimo. Schönberg lo compie in alcuni Lieder scritti tra il 1908 e il 1909, in massima parte da Il libro dei giardini pensili (Das Buch der hängenden Gärten) op. 15 (da Stefan George), e, più compiutamente, con i 3 Pezzi per pianoforte op. 11 (1909).
Con le loro prime prove atonali, Berg e Webern, che in precedenza hanno seguito le orme di Schönberg con lavori in tonalità allargata/sospesa, divengono ormai, da allievi eccezionalmente dotati, colleghi del maestro. Nel contempo, queste opere recano quei segni distintivi delle rispettive personalità che s’imprimeranno su tutta la loro futura produzione. In Webern la precocità nell’accogliere i nuovi mezzi si accompagna a un loro già consumato dominio, di sobria essenzialità (4 Lieder op. 3, 1908-1909; 5 Pezzi per quartetto d’archi op. 5; 6 Pezzi per orchestra op. 6). In Berg il nuovo idioma, che pur è sperimentato nei suoi aspetti più radicali (ad esempio negli Altemberg Lieder per soprano e orchestra op. 4, 1912) si trova calato in ambiti che a volte concedono ancora forme di eufonia più o meno tonale (n. 4 dei 4 Lieder op. 2, 1909; Quartetto per archi op. 3, 1910), prefigurando la tendenza, in seguito pienamente espressa, alla coesistenza di linguaggi e di piani stilistici molteplici. Se si astrae dall’ovvia considerazione che quasi ogni opera scritta dai viennesi dopo il 1907 è per molto tempo presa dalla maggioranza del pubblico come una provocazione, le linee evolutive appena descritte conducono alla realizzazione di almeno due capolavori universalmente riconosciuti. Il Pierrot Lunaire op. 21 di Schönberg (1912) per voce recitante e 8 strumenti, traduce in musica le visionarie immagini di 21 poesie del simbolista belga Albert Giraud; ad esse ben si adatta lo Sprechgesang della partitura, una sorta di intonazione a mezza via tra il parlato e il canto. Come tutti i lavori dei viennesi, anche il dramma musicale Wozzeck op. 7 di Berg (1917), tratto dalla “ballata tragica” di Georg Büchner (Woyzeck, 1836), è vissuto dal suo autore con profonda partecipazione interiore, ma in questo caso con un surplus emotivo. All’identificazione di Berg, da poco uscito dagli anni di vita militare del conflitto mondiale, con la lancinante mestizia del soldato Wozzeck, si deve una partitura di raro fervore drammatico, in cui mezzi tonali e atonali si combinano in un congegno scenico straordinariamente efficace, ancorché piuttosto complesso, e di grande spessore morale.In estrema sintesi, ciò che l’infaticabile ricerca linguistica dei viennesi ha in comune con il suo milieu è contenuto nell’affermazione di Schönberg nel Manuale di armonia secondo cui “ciò che [l’artista] fa è come se gli venisse dettato”. In questa affermazione si rivela la saldatura tra l’istanza espressionista della verità come intuizione inconscia e la ricerca di una sua oggettivazione linguistica. La coerenza immanente dei processi di rappresentazione dell’idea musicale deve manifestarsi in modo comprensibile secondo le leggi di una “logica musicale”. Perciò ogni scelta estetica di Schönberg e dei suoi colleghi è anche etica: non si dà forma di comunicazione musicale che non si basi su una ferrea logica strutturale, seguita anche a scapito di ogni allettamento sensibile. La critica a un “carattere viennese” apaticamente rassicurato dalle facili consuetudini accomuna quindi Schönberg a Kraus: anche le feroci polemiche di questi dalle pagine della rivista satirica “Die Fackel” (“La Torcia”) muovono dalla convinzione di un’unione inscindibile di logica e morale. In ciò si comprende quanto il radicalismo di Schönberg sia distante dall’intenzione di épater le bourgeois (“stupire i borghesi”); ciò accade effettivamente, ma è solo una conseguenza indiretta del suo disegno filosofico-musicale.
Alcuni dei più importanti nessi logici interni ai brani atonali dei viennesi riguardano le relazioni tra i motivi. Dopo il 1910 la tecnica di creare una coerenza del discorso musicale attraverso questi nessi assume un rilievo ancora più marcato: i viennesi la sviluppano al punto da fare di una cellula di poche note ciò che un tempo era il tema. Da questa contrazione delle figure tematiche nasce il cosiddetto “atematismo” – che a volte è diretta causa di uno stile “afortistico”, ossia di brani molto brevi. Esempi del genere sono i 6 Piccoli pezzi per pianoforte op. 19 di Schönberg (1911) e, di Webern, le 6 Bagatelle op. 9 per quartetto d’archi (1913; quattro di queste durano circa 30 secondi), i 5 Piccoli pezzi per orchestra op. 10 (1913), i 3 Piccoli pezzi per violoncello e pianoforte op. 11 (1914). Abbreviandosi e perdendo identità tematica, inoltre, le figure melodiche si riducono a nuclei che, in qualche modo, assumono la funzione che nella tonalità era propria delle scale maggiori e minori. Tra il 1913 e il 1920 Schönberg sperimenta vari tipi di organizzazione del discorso musicale basato su nuclei del genere e giunge – in modo compiuto e definitivo con la Suite per pianoforte op. 25 del 1921-1923 – alla definizione di un tipo in cui il nucleo fondamentale comprende tutti e 12 i suoni temperati disposti in un certo ordine (serie dodecafonica). Un brano è strutturato come ricorrenza periodica di questa serie, in modi sempre differenti. Dallo stile atonale si passa così, senza soluzione di continuità al principio della “composizione con 12 note”: la dodecafonia è, in effetti, uno dei possibili tipi di atonalità. Il metodo sarà d’ora in avanti posto da Schönberg al servizio dei più vari scopi tecnici ed espressivi: dal recupero del tematismo in disegni formali nuovamente di ampio respiro (Quintetto per fiati op. 26, 1923-1924; Variazioni per orchestra op. 31, 1926-1928) a rinnovate forme di trasfigurazione della dialettica tonale (in senso sia stretto che lato) in chiave seriale (Variazioni su un recitativo per organo op. 40, 1941; Trio per archi op. 45, 1946); infine, anche schemi drammaturgici e retorici che chiamano ancora in causa il suo mondo di convinzioni etiche e religiose (l’incompiuta opera Moses und Aron, 1930-1932; A survivor from Warsaw per voci maschili e orchestra op. 36, 1947).
Anche l’adozione del metodo dodecafonico da parte di Berg e di Webern è tale da fugare ogni sospetto di epigonismo. In Berg risalta la funzione di una serie come puro strumento, accanto ad altri. Sovente il materiale seriale s’intreccia ad altri che non lo sono (Lyrische Suite per quartetto d’archi, 1925-1926), o è contessuto di elementi tonali (Der Wein, per soprano e orchestra da Baudelaire, 1929, Concerto per violino, 1935). L’uso berghiano della serie, evidentemente distante da quello di Schönberg nel mutarne l’ordine interno degli elementi, ricorda piuttosto quello di Joseph Mathias Hauer (1883-1959), un altro viennese d’eccezione che, negli stessi anni in cui Schönberg idea il metodo dodecafonico, sviluppa del tutto autonomamente una propria tecnica seriale. L’inventiva di Berg in questo campo, sempre nell’ambito di una commistione di differenti dimensioni dell’opera, pare non avere limiti. Nell’altro suo grande cimento teatrale, incompiuto, Lulu, 1929-1935, da Lo spirito della terra (Erdgeist, 1895) e Il vaso di Pandora (Die Büchse der Pandora, 1904) di Frank Wedekind, alcune parentele strutturali tra segmenti seriali corrispondono ad affinità di carattere drammatico e scenico.
Webern, che dal canto suo ha sperimentato le possibilità strutturali di costellazioni non seriali ma ugualmente di 12 suoni almeno dall’op. 9, adotta il metodo dal 1924 (Pezzo infantile per pianoforte). Nel corso di vent’anni conduce uno studio severo sulle corrispondenze interne dei segmenti seriali e sul loro riferimento a radici generative comuni – in pratica, su serie che derivino dallo sviluppo di una loro parte, come nel caso del materiale seriale del Concerto op. 24 per 9 strumenti (1931-1934). Alla stessa linea di ricerca va ascritta la realizzazione di strutture seriali (e formali) a specchio, come nel caso del brano testé citato e, tra altri esempi, della Sinfonia op. 21 (1928) e delle Variazioni op. 27 per pianoforte (1935-1936). La figura di Webern come campione di questa ars combinatoria va ascritta a un ideale di purezza astratta del mondo dei suoni: in modo del tutto conscio, Webern considera la propria musica un emblema dell’unità che cerca di scorgere in altre manifestazioni dell’esistenza. Questa visione simpatetica da una parte risale a Goethe e a una metafisica della natura, dall’altra attinge soprattutto al principio già da tempo acquisito da Webern e dai suoi compagni di strada e maturato nell’ambiente viennese: il linguaggio come modello costitutivo di realtà e la sua conseguente funzione etica, la stessa richiamata dalla Nuda veritas di Gustav Klimt.