La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Localizzazioni cerebrali, neurone e neurocibernetica
Localizzazioni cerebrali, neurone e neurocibernetica
Alla fine dell'Ottocento, le neuroscienze si fondavano principalmente su due nozioni che si sono rivelate particolarmente durature, ossia la teoria delle localizzazioni cerebrali e la teoria dei neuroni. La prima prendeva origine dagli studi frenologici effettuati da Franz Joseph Gall (1758-1828) all'inizio dell'Ottocento; si deve allo scienziato tedesco l'introduzione della tesi secondo cui diverse qualità mentali avevano la loro origine in regioni del cervello separabili tra loro, principalmente nella corteccia cerebrale. Le ricerche di Pierre Flourens, Jean-Baptiste Bouillaud, Pierre-Paul Broca e Carl Wernicke, nei decenni successivi, identificarono sperimentalmente le aree cerebrali legate ad alcuni tipi di afasie (afasia motoria e sensoria).
Nella seconda metà del XIX sec., l'attenzione si rivolse alle funzioni superiori, grazie agli studi di John Hughlings Jackson che inquadrò in una cornice evolutiva la sua ipotesi della gerarchia funzionale del cervello, e di Theodor Meynert, che cercò differenze strutturali nel cervello da associare alle localizzazioni funzionali. Fu dunque l'intervento della fisiologia sperimentale, con il suo ventaglio di metodi e problemi, a consentire negli ultimi decenni del secolo lo sviluppo delle neuroscienze. Eduard Hitzig, Gustav Theodor Fritsch, David Ferrier, Hermann Munk grazie alla scoperta dell'eccitabilità corticale per mezzo della stimolazione elettrica, localizzarono diversi centri deputati al controllo della visione, dell'udito e capaci di indurre movimenti negli arti degli animali da laboratorio.
La teoria del neurone si ricollega invece al paradigma cellulare, prevalente nell'Ottocento. Fu Camillo Golgi, nel 1873, a introdurre la tecnica di colorazione (la 'reazione nera' che utilizza il nitrato d'argento) che permise di osservare al microscopio le numerose ramificazioni delle singole cellule neuronali. In seguito al perfezionamento della tecnica da parte di Santiago Ramón y Cajal, si moltiplicarono i sostenitori dell'indipendenza morfologica e funzionale delle cellule nervose, in opposizione all'ipotesi sostenuta da Golgi dell'unità funzionale del sistema nervoso e della continuità fisica di tutte le sue cellule. Nel 1891 Wilhelm Waldeyer riassunse lo stato delle cose in un articolo, coniando il termine 'neurone'. Quasi immediatamente dopo, in modo autonomo, Ramón y Cajal e Arthur van Gehuchten postularono il principio della polarizzazione dinamica, secondo cui i dendriti trasmettono l'eccitazione al corpo cellulare e l'assone lo ritrasmette al neurone successivo. Questa ipotesi fisiologica sulla propagazione dell'eccitazione nel sistema nervoso era però altrettanto speculativa dell'assunto di Charles S. Sherrington che tra i nervi si trovi una piccola fessura, cui diede il nome di 'sinapsi'.
All'inizio del XX sec. la maggioranza degli anatomisti considerava esatta la teoria neuronale. Sulla teoria delle localizzazioni ciò non ebbe comunque alcun effetto, né positivo né negativo: le dottrine coesistevano l'una accanto all'altra, senza sostenersi o contraddirsi a vicenda. Dopo il 1900, soprattutto negli ambiti dell'anatomia cerebrale e della clinica medica, si sviluppò però una forte critica alla teoria delle localizzazioni, motivata da ragioni ideologiche almeno quanto dalle incongruenze insite nella teoria stessa. Ciò che in seguito è stato indicato con il termine olismo era perfettamente compatibile con la convinzione di fondo che i fenomeni mentali fossero un prodotto delle funzioni cerebrali superiori. Il punto era se il complesso rapporto tra struttura e funzione potesse essere affrontato in base all'analisi di singole regioni cerebrali e se una visione neurologica della mente umana come somma delle sue sensazioni fosse sufficiente per la comprensione dell'uomo e delle sue malattie. La polemica sull'afasia fu scatenata concretamente da un lato dal problema di differenziare e isolare i singoli tipi di disturbi linguistici sulla base della localizzazione anatomica e, dall'altro, da quello di una interpretazione più generale, fondata sulle regolarità psicologiche del linguaggio e sull'elusività dei sintomi clinici. Un argomento importante era rappresentato in questo caso dalla diversità dei sintomi anche in presenza di lesioni in punti apparentemente uguali. Dal punto di vista anatomico, inoltre, non si poteva trovare alcuna spiegazione plausibile al regredire dei sintomi. Una reazione decisiva a queste incongruenze fu un più accurato e sistematico esame neurologico-psicologico dei pazienti, anche per mezzo dell'introduzione del metodo dei test psicologici, con cui poterono essere descritti molti nuovi disturbi prima sfuggiti all'attenzione dei neurologi.
Grazie a una nuova analisi dei casi clinici di afasia motoria descritti da Broca, per esempio, il neurologo Pierre Marie (1853-1940) poté dimostrare che quei pazienti soffrivano anche di disturbi di comprensione del linguaggio e agrafia. In base ai casi seguiti da lui stesso egli riteneva che tutti gli afasici presentassero disturbi di comprensione, dal momento che reagivano in modo adeguato alle domande semplici ma non a quelle complesse. Marie registrò inoltre una generale diminuzione delle capacità intellettive dato che, per esempio, anche semplici operazioni aritmetiche non potevano essere risolte. Da ciò concluse che l'afasia di Broca fosse un quadro clinico composto dall'afasia sensoria di Wernicke, da disturbi di articolazione e da una perdita del controllo sui processi necessari alla produzione del linguaggio (anartria). In modo analogo, l'inglese Henry Head (1861-1940) sottolineò che le lesioni cerebrali provocavano più di un solo disturbo del linguaggio e distinse quattro forme di afasia: verbale, sintattica, nominale e semantica. La classificazione funzionale di Head non riuscì a imporsi, perché non riconducibile alla localizzazione anatomica, ma i suoi studi evidenziarono che l'afasia e altri disturbi cognitivi non erano classificabili secondo il semplice binomio sensorio-motorio. L'intento che si prefiggevano i neuropsichiatri all'inizio del XX sec. era di liberare la neurologia da vincoli teorici troppo stretti, obiettivo che raggiunsero tenendo conto in modo crescente dei risultati della glottologia, della linguistica e della psicologia, senza negare l'importanza di fisiologia o anatomia. Altri andarono ancora oltre e tentarono di integrare la teoria delle localizzazioni senso-motoria, riflessologica, e quindi riduzionistica, in una teoria psicologica o biologica di ordine superiore che considerasse l'uomo nella sua totalità. I sintomi di privazione circoscritti erano quindi manifestazioni biologiche in una persona trasformata dalla malattia, tenendo conto che la trasformazione comprendeva sia il comportamento sia la fisiologia, e perciò disfunzioni specifiche, come i disturbi linguistici, costituivano soltanto un aspetto tra molti.
Furono soprattutto Constantin von Monakow (1853-1930) e Kurt Goldstein (1878-1965) a tentare di sviluppare un fondamento biologico della neurologia che rendesse maggiormente giustizia alla personalità individuale dell'uomo. Per Monakow la capacità dell'organismo di riparare da solo, fino a un certo grado, i danni subiti era altrettanto fondamentale dello sviluppo dei meccanismi di compensazione. I disturbi reattivi passeggeri sono causati dall'isolamento di diversi aggregati di cellule nervose, interruzioni di fibre nervose e distrofie, mentre la distruzione di tessuto cerebrale porta a regressioni compensative del comportamento. A questo punto Monakow riprese le considerazioni di Jackson sulla struttura evolutiva del cervello: le lesioni potevano portare fino alla frammentazione dei primissimi livelli infantili o fetali, ovvero a puri automatismi del tronco cerebrale. Una lesione, anche locale, portava a reazioni generali dell'organismo, e ciò significava che non si poteva considerare il cervello isolatamente dal resto del corpo.
Goldstein sviluppò la sua teoria dell'organismo, analogamente a Marie e a Head, a partire dalle esperienze con i soldati della Prima guerra mondiale che avevano riportato lesioni cerebrali in seguito a ferite alla testa. Per la neuropsichiatria ciò significava sintomatologie del tutto nuove e quindi una notevole spinta innovativa. D'altra parte, questi cerebrolesi costituivano un grave problema per la medicina riabilitativa. Combinando un approfondito esame psicologico e psichiatrico con l'assistenza medico-sociale, Goldstein trovò la chiave della sua teoria, che sosteneva una concezione del rapporto tra organismo e ambiente affine alla teoria ambientale di Jakob von Uexküll (1864-1944), secondo cui normalità e sanità vanno definite in termini di equilibrio ossia di adeguatezza tra individuo e ambiente. Per Goldstein la malattia era sempre causata da un processo inadeguato all'organismo che rompeva questo equilibrio portando uno sconvolgimento, una 'reazione catastrofica'. La successiva reazione dell'organismo era vista da Goldstein come un tentativo di ristabilire un nuovo equilibrio, tale da portare alla completa guarigione oppure, se ciò non era possibile, da ripristinare l'adeguatezza a un livello inferiore. Questo avveniva tramite una modificazione dell'ambiente, con cui i difetti venivano integrati in un certo qual modo nei comportamenti. Goldstein interpretava le deviazioni dalla norma anche come misure difensive. Il compito terapeutico del medico consisteva nell'aiutare il paziente a ristabilire nuovamente il suo rapporto con l'ambiente con la minore limitazione possibile dei suoi bisogni essenziali.
Con lo sguardo rivolto alla situazione complessiva dell'organismo sano e di quello malato, Goldstein invitava a vedere una funzione isolata nel quadro della sua relazione con la funzione complessiva del cervello. Con questa concezione in apparenza paradossale Goldstein non si discostava fondamentalmente dalla teoria dei centri, ma per lo scienziato il punto cruciale era un altro, in quanto considerava la comprensione di una lesione cerebrale, e quindi il presupposto per il processo di guarigione, in ultima istanza un atto intuitivo che trascendeva le possibilità delle scienze naturali analitiche e, non a caso, si richiamava esplicitamente alla 'esperienza intuitiva' (intuitive Anschauung) di Goethe. L'approccio filosofico di Goldstein e il suo concetto di astrazione come categoria per il modello comportamentale più altamente sviluppato non trovarono ampio consenso; invece la sua qualificazione psicologica delle sindromi e il suo concetto dell'analisi delle prestazioni, che tentava di decifrare la natura della lesione variando costantemente i test impiegati, furono ampiamente accettati come pilastri portanti della diagnostica neuropsicologica.
Nonostante il vistoso contrasto tra olismo e localizzazionismo è innegabile che la prassi sperimentale e clinica della localizzazione cerebrale non fu intralciata in alcun modo da tali discussioni. L'armamentario dei metodi neurofisiologici e istologici, neurologici e psicologici veniva perfezionato sempre più, sicché la localizzazione continuò a rimanere uno dei pilastri teorici della neurologia. L'ulteriore storia della teoria anatomica delle localizzazioni si svolge in un ambito separato sia dalla teoria dei neuroni sia da quella mielogenetica di Flechsig. Molto prima che Mieczyslaw Minkowski (1884-1972) potesse dimostrare che (nelle scimmie) tutte le circonvoluzioni cerebrali possiedono fibre proiettive e associative, fu Monakow insieme a Oskar Vogt (1870-1959) a provare che anche i campi associativi così definiti da Flechsig contenevano fibre proiettive. Vogt e sua moglie Cécile partivano dal presupposto, nella loro sistematica analisi anatomica del cervello, di suddividere le componenti corticali (materia bianca e corteccia) per ordinamento, numero, grandezza e morfologia grezza delle cellule nervose e fibre conduttive. Nel far questo li interessava il quadro strutturale generale e non, come in istologia, i singoli elementi del tessuto.
In base a questo principio Korbinian Brodmann (1868-1918), collaboratore di Vogt, stabilì una suddivisione citoarchitettonica della corteccia cerebrale, distinguendo tra loro campi di struttura unitaria e regionalmente delimitati. La mappa cerebrale umana di Brodmann ha mantenuto la sua validità fino a oggi. L'esistenza di campi nettamente delimitati fu però da lui ipotizzata soltanto per determinate funzioni, in particolare per le modalità motorie e sensorie. Tuttavia, contrariamente a Flechsig egli respingeva l'idea di centri psichici, strati associativi, organi di pensiero, cellule concettuali e così via non soltanto con l'argomento che non esisteva alcun sostegno anatomico a favore, ma richiamandosi anche alla teoria di Wilhelm Wundt (1832-1920), secondo cui le attività mentali erano troppo complesse per circoscriverle in una regione precisa. Brodmann arrivò dunque all'opinione, piuttosto antilocalizzatoria, che nei processi psichici fosse implicato il cervello nella sua totalità.
I coniugi Vogt rivolsero il loro interesse a una correlazione degli studi citoarchitettonici e mieloarchitettonici sul cervello con stimolazioni elettriche della corteccia cerebrale. A tale scopo marcavano esattamente nei loro esperimenti i punti la cui stimolazione portava a una modifica del comportamento degli animali da laboratorio, tentando poi di identificare tali punti nella dissezione. Le ricerche dei Vogt trovarono un importante completamento negli studi del neurologo e neurochirurgo Otfried Foerster (1873-1941) che, partendo dalla suddivisione di Brodmann e di Vogt, effettuò esperimenti di stimolazione elettrica intraoperatoria delle regioni motorie su pazienti con lesioni cerebrali, giungendo a risultati concordanti. Questa varietà di metodi mostra di per sé che l'approccio teorico dei Vogt andava ben oltre l'anatomia cerebrale in senso stretto. Inoltre essi integrarono nelle loro ricerche approcci genetici, chimici e farmacologici, da loro riuniti nel Kaiser-Wilhelm-Institut für Hirnforschung. Questo istituto ebbe un ruolo guida per la neurologia del Novecento, in quanto riuniva per la prima volta differenti approcci di ricerca in un unico progetto interdisciplinare su vasta scala. L'obiettivo propagandato a più riprese dell'ambizioso approccio dei Vogt era quello di trovare una soluzione empirica del problema mente-corpo, raggiunta nel momento in cui si fosse individuato il correlato fisiologico di ogni elemento delle manifestazioni della coscienza, permettendo la completa tracciabilità dello svolgimento dei fenomeni psichici. Dopo l'analisi citoarchitettonica preliminare del cervello di Lenin, da un ispessimento del terzo strato corticale e da numerose grandi cellule piramidali, Vogt ‒ in maniera perfettamente compatibile con il suo programma scientifico ‒ concluse trattarsi di un 'atleta associativo', ripromettendosi di trarre dalla citoarchitettonica anche importanti risultati per la pedagogia e l'eugenetica. Il sogno accarezzato da Vogt di una neurologia come disciplina guida antropologica con ampi poteri e autorità in campo sociale è un tipico esempio della crescente politicizzazione delle scienze biomediche nel primo terzo del XX secolo.
Le ambizioni politico-scientifiche di Vogt ebbero fine con il nazionalsocialismo, ma la sua neurologia di impianto interdisciplinare rimase esemplare, come dimostra soprattutto la fecondità scientifica dell'ancor giovane neurochirurgia. Questa disciplina trasse indubbiamente profitto, oltre che da una diagnostica clinica sempre più precisa, anche dalla diagnosi a raggi X che costituì, per esempio, il fondamento per lo sviluppo della ventricolografia e della pneumoencefalografia da parte di Walter E. Dandy (1886-1946).
L'accesso diretto al cervello umano aprì tuttavia le più importanti prospettive per la ricerca sulla localizzazione, specialmente consentendo di continuare gli esperimenti di stimolazione della corteccia cerebrale effettuati da Fritsch e Hitzig sugli animali. Dopo il 1900 Sherrington e Albert S. F. Grünbaum effettuarono tali esperimenti sulle scimmie, soprattutto per localizzare con maggiore esattezza la regione motoria. Studi paragonabili sul cervello umano furono poi iniziati nell'ambito della terapia chirurgica dell'epilessia. Harvey W. Cushing (1869-1939) già nel 1909 riuscì, mediante stimolazione del gyrus postcentralis, a produrre nel paziente vigile sensazioni nelle estremità controlaterali.
Wilder Penfield (1891-1976) aveva acquisito familiarità, durante un soggiorno presso Foerster, con la tecnica della stimolazione intraoperatoria della corteccia. L'interesse di Foerster era rivolto, accanto al completamento fisiologico della citoarchitettonica di Vogt, alla più esatta localizzazione del focus epilettogeno e a una mappatura più precisa del cervello, in modo tale da poter effettuare interventi neurochirurgici più efficaci e sicuri.
Negli anni seguenti Penfield realizzò mediante stimolazione sistematica della corteccia una mappa delle funzioni senso-motorie, rappresentata di proposito come un homunculus nel quale l'estensione delle singole parti del corpo doveva corrispondere alla loro importanza nella vita di tutti i giorni. Con lo stesso metodo Penfield si accinse anche a localizzare i centri linguistici, provocando a scopo sperimentale allucinazioni e illusioni ottiche e acustiche stimolando il lobo temporale. Questi fenomeni, che chiamò 'attacchi psichici', corrispondevano agli 'stati sognanti' descritti per la prima volta da Jackson per l'epilessia del lobo temporale. Poiché essi non emergevano casualmente bensì erano in ogni paziente in stretto rapporto con la sua biografia, Penfield trasse la conclusione che queste aree avessero una speciale relazione con il registro dell'esperienza e la sua riattivazione. Il principio della stimolazione intracerebrale, applicato sistematicamente sull'uomo da Penfield, è ancora oggi di fondamentale importanza per la ricerca sulla localizzazione, dato che i pazienti riferiscono di volta in volta nuove e sorprendenti manifestazioni soggettive emerse in seguito a tali stimolazioni nel corso di una operazione neurochirurgica, inducendo i neurologi a nuove speculazioni sulla funzione di un'area cerebrale fino a quel momento non meglio classificata.
La morfologia funzionale, intesa come citoarchitettonica, e la localizzazione clinica, ossia fisiologica, delle funzioni non furono l'unica strada che portò alla moderna neurologia nella seconda metà del XX secolo. Al contrario, almeno l'approccio morfologico si vide esposto, a partire dal 1940, ad aspre critiche a causa, non da ultimo, degli studi di Karl Spencer Lashley (1890-1958). Uno dei pilastri fondamentali della sua teoria era costituito dagli esperimenti sui ratti istruiti a percorrere un labirinto e poi addestrati ancora una volta allo stesso compito. Se essi subivano una lesione chirurgica della corteccia prima o dopo il primo addestramento, era riscontrabile una correlazione tra l'entità della lesione e il peggioramento dell'apprendimento sia pre- sia postoperatorio. Lashley non riusciva però a individuare alcuna correlazione tra il punto della lesione e le disfunzioni e concluse quindi che la memoria fosse distribuita uniformemente sull'intera corteccia. Per diverse funzioni anche Lashley ipotizzava una certa localizzazione ma, come regola generale, sottolineò che quanto più una funzione era complessa, tanto meno si lasciava localizzare. In seguito a ciò, egli non si limitò a porre la domanda provocatoria se la localizzazione anatomica avesse una qualche importanza per la funzione; come i localizzazionisti, era infatti interessato a una spiegazione materialistica del comportamento. Lo scopo da lui perseguito di una psicologia oggettiva era identico all'analisi fisiologica dell'attività neuronale, che infine doveva portare a riconoscere la loro identità con i fenomeni mentali. La coscienza, ipotizzava, andava messa in relazione con l'attività complessiva di tutti i centri.
La frustrazione nei confronti della morfologia si avverte anche nella cibernetica, che sosteneva una teoria della mente come macchina. Per Norbert Wiener (1894-1964), per esempio, le malattie mentali erano di natura funzionale, tanto che era insensato cercare una morfologia distintiva nel cervello di un soggetto schizofrenico o depressivo. L'esame anatomico del cervello non permetteva in alcun modo né di identificare le catene neuronali né la loro importanza per la formazione e la memorizzazione delle idee. Di conseguenza Wiener, con la terminologia delle tecnologie delle comunicazioni, spiegava i fenomeni psicopatologici come 'disturbi secondari del traffico': un disturbo del normale percorso dei flussi di informazioni circolanti nel cervello, come può accadere in una macchina calcolatrice.
Con la cibernetica si compie il passaggio da una visione organicistica a una tecnicistica del cervello. Il nuovo paradigma non si concentrava sulle strutture ma sulle funzioni; non era interessato a caratteristiche individuali ma a regolarità generali del pensiero, della percezione e dell'azione; non puntava su proporzioni e su costellazioni topografiche ma su stati dinamici, cablaggi e circuiti, per i quali era indifferente che fossero realizzati da sostanze organiche, come cellule e fibre nervose, oppure da macchine. La grandezza e il numero delle cellule nervose erano irrilevanti: ciò che contava era il loro stato di attivazione. Il cervello non era più considerato un organo in cui sono inscritti ‒ in diversi luoghi ‒ l'intelligenza e i sentimenti, il pensiero e gli istinti bensì un'unità funzionale che effettua l'elaborazione simbolica delle informazioni e risolve problemi. Questa svolta cognitiva faceva del cervello qualcosa di simile a un computer e poneva come principali oggetti di studio l'algoritmo che ne governa il funzionamento e la possibilità di una sua simulazione elettronica.
Un aspetto importante del progressivo accostamento tra sistema nervoso e computer è il fatto che l'avvicinamento è stato reciproco. I computer potevano ammalarsi e, secondo Wiener, presentavano addirittura riflessi condizionati. I cervelli presentavano d'altronde caratteristiche che, in linea di principio, li rendevano compatibili con i calcolatori. I neuroni, le più piccole unità funzionali del cervello, agiscono come i relè, in quanto il loro effetto fisiologico si basa su due stati: acceso o spento. Quest'idea del principio on-off non era però un dono della teoria delle macchine automatiche alla neurofisiologia, bensì si trattava di una teoria genuinamente fisiologica, basata sul principio del tutto o niente dell'attivazione nervosa enunciato già nel 1913 da Edgar D. Adrian (1889-1977). Questa teoria divenne un'ipotesi matematica e tecnologica nel momento in cui, nel 1936, Alan M. Turing avanzò l'idea che macchine calcolatrici e cervelli potessero essere compresi nella stessa misura in base a principî logici, anche se il sistema nervoso non è una macchina a stati discreti. A partire da questa ipotesi Warren McCulloch e Walter Pitts tentarono, pochi anni dopo, di caratterizzare i processi del sistema nervoso come operazioni logiche, nelle quali lo stato di attività di un singolo neurone corrisponde al più semplice atto psichico. La teoria informazionale del sistema nervoso prendeva in esame le unità più piccole per riuscire ad afferrare il comune denominatore delle operazioni intelligenti. Quando si riuscì a tracciare l'attività di singoli neuroni nel cervello mediante un microelettrodo, si riscontrò ‒ in particolare nel sistema visivo ‒ che determinate cellule reagiscono effettivamente a stimoli specifici. È ancora adesso una questione controversa se tali schemi di attività si possano identificare con semplicissimi atti psichici.