La scuola
La soppressione, nel 1773, dell’ordine dei Gesuiti, che per due secoli avevano esercitato il monopolio dell’istruzione in Europa, impose ai governi una decisione di eccezionale novità, quella di avocare la scuola allo Stato. A Venezia il senato istituì le Pubbliche Scuole su progetto di Gasparo Gozzi(1): e il Liceo «Marco Foscarini»(2), nato come liceo-convitto il 14 marzo 1807 con decreto di Eugenio Napoleone, ne è l’erede diretto(3). Ma poiché questo decreto prevedeva che le classi ginnasiali fossero frequentate dai soli convittori, il 10 dicembre 1812 a spese del Municipio veniva istituito un ginnasio municipale per i non convittori, che sarà poi l’altro liceo veneziano, il «Marco Polo»(4).
È appena il caso di sottolineare(5) che, mentre la politica napoleonica tendeva a limitare le opportunità educative a pochi privilegiati, la Municipalità veneziana, in linea con i convincimenti già espressi da Gasparo Gozzi, vedeva nella diffusione dell’istruzione un beneficio per tutta la società, ed è da dire che la politica scolastica dell’Austria sarà in sintonia con essa. E proprio con l’intento di diffondere l’istruzione e la cultura anche fra i ceti meno abbienti fin dal 1804 erano sorte a S. Agnese le Scuole di carità gratuite, fondate dai fratelli Anton Angelo (1772-1858) e Marcantonio (1774-1853) Cavanis(6), due sacerdoti di nobile famiglia. Nel 1808 essi fondarono anche la Pia casa di educazione delle fanciulle(7) con l’insostituibile collaborazione di Maddalena di Canossa, che prese a cuore la cosa prima ancora che l’ordine da lei fondato avesse l’approvazione pontificia. Il tipo di istruzione impartito in tutte queste scuole andava però sempre più perdendo il carattere professionalizzante(8) delle Pubbliche Scuole di Gozzi, ispirandosi a un tipo di cultura umanistica, non finalizzata a immediati sbocchi professionali. E questo vale anche per le scuole «Cavanis», delle quali pure lo storico moderno(9) dice con riferimento ai programmi iniziali: «Complessivamente, con larga libertà di sviluppo, si eseguiva il programma dato da Gaspare Gozzi alle scuole pubbliche della Repubblica Veneta». Si rese perciò necessaria l’istituzione di scuole che invece si mostrassero specificamente finalizzate al conseguimento di una formazione professionale. Giuseppe Pavanello segnala la continuità delle nuove scuole con la tradizione: «La storia pura e semplice dell’Istituto Tecnico ‘Paolo Sarpi’[(10)], incomincia dal 1866, cioè dall’annessione del Veneto, ma giacché esso non fu che la trasformazione della Scuola Reale Superiore[(11)] esistente nella nostra città dal 1851, e questa, a sua volta, della Scuola tecnica dall’Austria promessa nel 1836 e aperta nel 1842, è necessario rimontare fino a tali date e a tali istituzioni. Anzi, perché anche la Scuola austriaca derivò, come le consimili d’Europa, da un bisogno generalmente sentito dell’insegnamento tecnico popolare, non sarà inutile risalire fino ai primi tentativi del genere, fatti dalla nostra Venezia»(12).
«Insegnamento tecnico popolare»: in un’epoca in cui i ceti agiati potevano limitare l’attività lavorativa all’amministrazione dei propri patrimoni, la coincidenza di istruzione popolare e formazione professionale (o meglio addestramento al lavoro) era addirittura un’ovvietà, e l’attenzione per l’istruzione tecnica e professionale manifestata dall’amministrazione austriaca si inseriva nella politica di assistenza vantata tra le benemerenze di quel governo: l’istruzione elementare era gratuita e fin dal 1818 furono istituite le scuole elementari maggiori.
Inoltre Venezia aveva naturalmente avuto nella sua storia una particolare attenzione per l’istruzione marinara(13) sia dei nobili sia degli equipaggi sia dei costruttori. E così avvenne anche dopo la perdita della sovranità(14). Nell’anno 1855 fu istituita, all’interno della Scuola reale, la Scuola di nautica con un suo piano di studi. L’attuale Istituto tecnico nautico «Sebastiano Venier» ne è la naturale prosecuzione. E nel 1873 alla Celestia nel vecchio convento che oggi ospita l’Archivio Storico Comunale fu allogata la Scuola macchinisti.
Intanto, accentuandosi l’esigenza di formazione professionale, si verificava la necessità di altre sedi scolastiche. Nel 1857 fu trasferita a S. Maurizio, presso la Scuola elementare maggiore, la Scuola reale inferiore incompleta che diventò completa nel 1862. Con l’annessione al Regno d’Italia già nell’anno scolastico 1867-1868 il corso inferiore della Scuola reale fu trasferito a palazzo Pesaro-Papafava a S. Felice, a costituire una delle due scuole tecniche, la «Caboto»(15), mentre l’altra, la «Sanudo»(16), trovava sede nel palazzo Donà a S. Stin, dove si trova ancor oggi.
L’istruzione tecnica nel secolo XIX non separava ancora la formazione industriale da quella commerciale, cosicché materie come chimica speciale e tecnica, architettura, teoria delle macchine, disegnare e modellare, si studiavano tutte nello stesso corso di studi(17). L’esigenza di separare l’indirizzo industriale da quello commerciale si fece però ben presto sentire, e spettò ancora alle autorità municipali farsene interpreti, nel momento in cui intervenivano anche su un altro aspetto innovativo, l’istruzione femminile: nel 1893 (era sindaco Riccardo Selvatico) venne aperto il Civico Istituto professionale femminile «Vendramin Corner»(18) con le due sezioni distinte, industriale e commerciale(19) di cui l’attuale Istituto tecnico femminile è la prosecuzione. Venne anche istituito l’Istituto superiore femminile «Gio. Batta. Giustinian», all’Accademia, che aveva «per iscopo di dare alle giovinette una eletta educazione, conforme all’indole della donna ed all’ufficio, al quale essa è chiamata nella famiglia e nella società»(20). Sempre nel campo dell’istruzione femminile fin dal 1867 «ai primi albori della libertà del Veneto [...] fu istituita in Venezia una Scuola Magistrale, allo scopo di preparare le numerose maestre necessarie per le nuove scuole elementari, che in città e in provincia stavano per aprirsi»(21).
Anche l’istruzione artistica e musicale ebbe una notevole considerazione nelle scelte delle autorità sia locali sia imperiali: c’era l’Accademia di Belle Arti(22), naturale prosecuzione dell’Accademia fondata nel 1754, e l’Istituto d’Arte, derivato dalla R. Scuola Superiore d’Arte applicata alle industrie. Il Conservatorio di musica «Benedetto Marcello» nacque da una società privata denominata appunto Liceo e Società musicale «Benedetto Marcello», costituita nel novembre del 1877. Nel 1897 il Comune, che nel frattempo si era assunto la gestione della scuola e del suo personale, acquistava parte del palazzo Pisani a S. Stefano per dare una sede adatta al civico liceo musicale(23).
L’avvento del nuovo secolo non vide bruschi cambiamenti nella vita della scuola veneziana, né del resto di quella italiana. A Venezia non c’era stata una forte soluzione di continuità nemmeno tra la politica scolastica perseguita sotto la dominazione austriaca e quella successiva col Regno d’Italia, soprattutto per merito delle autorità locali che nei limiti del possibile salvaguardarono la tradizione veneziana, propensa a una cultura eminentemente pratica, tecnica e scientifica, e di conseguenza a una scuola professionalmente utile(24).
Le diverse amministrazioni municipali succedutesi negli anni, per quanto era stato nelle loro competenze e possibilità, effettuarono notevoli interventi sia nel campo dell’edilizia scolastica, sia in quello dell’assistenza, come pure in quello delle spese facoltative in materia di istituzioni scolastiche sussidiarie. Nel 1895 (sindaco Selvatico) era sorto sull’area dell’antico Teatro di S. Samuele il nuovo edificio scolastico che avrebbe ospitato le due scuole, maschile e femminile(25), collocate una in palazzo Da Lezze a S. Samuele e l’altra in palazzo Pisani a S. Stefano. Poi durante le amministrazioni del sindaco Filippo Grimani (dal novembre del 1895 al dicembre del 1919) furono costruite nuove scuole: nel 1909 la «Giacinto Gallina» a S. Zanipolo per 900 alunni, nel 1910 il nuovo edificio della Giudecca per 950 alunni e nel 1914 la «Renier Michiel» alla Toletta per 800 alunni, nel 1915 la scuola del Lido per 500 alunni. Nel 1909 fu acquisito il palazzo Zaguri a S. Maurizio, dove si trasferì la sezione femminile(26). E ciò anche per far fronte al consistente incremento demografico: infatti dal 1872 al 1911 il numero degli abitanti di Venezia città era salito da 127.018 a 151.498(27). Il numero degli alunni iscritti alle scuole elementari, che nel 1900 era di 9.207, era salito dopo un decennio a 12.353(28).
Nel campo dell’assistenza agli alunni l’attività del Comune si svolse in diversi ambiti con interessanti realizzazioni delle cosiddette istituzioni sussidiarie, quali gli asili d’infanzia(29), i ricreatori comunali(30) e le scuole all’aperto(31). E a questo proposito è il caso di ricordare che il Comune di Venezia curava una pubblicazione con frequenza varia, ma per lo più biennale, intitolata Le scuole elementari del Comune di Venezia; sono volumi con più di duecento pagine, contenenti oltre ai programmi, ai testi delle circolari, a preziosi dati statistici, elenchi nominativi di insegnanti e talvolta di alunni, anche dei veri e propri saggi pedagogici di Lorenzo Bettini, direttore didattico generale, sotto forma di istruzioni e consigli agli insegnanti(32).
Anche nel campo dell’educazione degli adulti il Comune di Venezia era intervenuto fin dal 1867 con l’istituzione di scuole serali per adulti analfabeti.
E così pure nel campo della istruzione professionale: «A Venezia qualche cosa si è fatto in proposito: la scuola professionale Vendramin Corner istituita dal Comune, essendo Sindaco il compianto Riccardo Selvatico, e le scuole serali professionali annesse all’Istituto Tecnico, sono eloquente dimostrazione dell’interessamento del Comune per tale problema dell’educazione popolare; ma molto più si farà se la concorde collaborazione del Comune, di privati cittadini e dell’Istituto per il Lavoro, che sin qui si è mostrata illuminata, operosa e feconda, non verrà a mancare»(33).
Per il resto in quegli anni dall’inizio del secolo allo scoppio della Grande guerra non si rilevano episodi salienti nella scuola veneziana: solo si nota una progressiva espansione della domanda e dell’offerta nel campo dell’istruzione.
Nel 1906 fu fondato l’Istituto «Nave scuola Scilla» «sotto gli auspici della R. Marina, col prezioso patrocinio del compianto illustre concittadino S.E. Luigi Luzzatti, della Società Regionale Veneta per la Pesca ad iniziativa ed opera del benemerito comm. Prof. Davide Levi Morenos che ebbe la valida collaborazione dell’attuale Direttore comm. Mamerto Camuffo. Essa provvede al ricovero, all’assistenza e istruzione professionale marittima degli orfani di marinai e di pescatori, di orfani di guerra e, in genere, di fanciulli materialmente o moralmente abbandonati [...] per avviarli ai gradi inferiori della marineria, e precisamente capitani di piccolo cabotaggio, meccanici, e motoristi navali, fuochisti artefici, motoristi specializzati per la pesca, radiotelegrafisti e mozzi scelti per la R. Marina, per la Marina mercantile e per la Marina da pesca»(34).
Nel novembre del 1913, per ovviare all’eccessivo numero di iscrizioni presso la Scuola normale «Elena Corner Piscopia», venne aperta una seconda scuola normale, che fu intitolata a Niccolò Tommaseo, la cui prosecuzione è l’attuale istituto magistrale.
L’Istituto tecnico «Paolo Sarpi» fu retto in quegli anni, dal 1894 alla morte avvenuta nel 1913, da Ottorino Luxardo, «uomo di grande valore nel campo scientifico, che nel 1903-04 aggiungeva ai corsi serali quello dei Capimastri». Scorrendo gli elenchi dei docenti balzano agli occhi alcuni nomi prestigiosi: «Avevano insegnato, chi più chi meno a lungo, o insegnavano, con la vecchia guardia della Scuola Reale Superiore», scrive ancora Pavanello lasciando allo storico futuro il compito di sbrogliare la matassa cronologica, e introducendo un lungo elenco di nomi di insegnanti tra i quali fanno spicco Pompeo Molmenti, «qui incominciava l’opera sua sulla storia di Venezia», Raffaele Giovagnoli, «rinomato romanziere e drammaturgo», Attilio Sarfatti, delicato autore di Minuetto, e Giovanni Bordiga, ingegnere, che lasciò l’insegnamento nel 1902 e che, dal 1890 al 1895 era stato assessore alla pubblica istruzione della giunta Selvatico, segnalandosi per la tendenza fortemente laica in materia di insegnamento religioso e «destinato a restare nel gruppo dirigente della Biennale, nonostante il variare dei contesti politico-amministrativi, sino ad esserne, fra il 1920 e il 1926, il presidente, sia pur vincolato a diffide e controlli»(35); poi fu anche primo direttore dell’Istituto Universitario di Architettura e docente all’Università di Padova. E agli insegnanti Pavanello associava scolari illustri quali il commediografo Luigi Sugana, Antonio Fradeletto, il letterato e filologo Vittorio Lazzarini, lo scrittore Emilio Salgari, l’esploratore polare Pier Luigi Penzo; in quegli anni anche il segretario del «Paolo Sarpi» era un uomo di cultura, il giornalista e scrittore Antonio Pilot. Ma anche nelle altre scuole non mancavano insegnanti dediti alla Cultura con la «C» maiuscola, di cui fu esempio illustre proprio Giuseppe Pavanello, morto nel 1934, più volte qui citato come autore di storie di singoli istituti scolastici, che insegnò dal 1900 al 1923 alla Scuola «Caboto», attento e corretto studioso di storia veneta, per lunghi anni segretario dell’Ateneo Veneto.
Il Liceo «Marco Foscarini» iniziò con l’anno scolastico 1911-1912 l’esperimento del ginnasio-liceo moderno(36), «che sarà completo con tutte le classi solo nel 1915-16; oggetto di ampie e autorevoli discussioni per la preparazione e il perfezionamento didattico, fino alla soppressione decretata nel marzo 1923»(37). Inoltre sempre al «Marco Foscarini» nel 1914 «al locale demaniale dell’antico Convento di Santa Caterina, che per buona parte era occupato dal Convitto Nazionale, fu aggiunto un nuovo edificio appositamente costruito a cura delle amministrazioni provinciale e comunale». Il 24 aprile di quello stesso anno moriva il preside Alessandro Manoni, che per ben diciotto anni aveva retto quel liceo, e gli succedeva Vincenzo Crivellari fino al 1923. Nel corpo docente spiccano i nomi di Giovanni Zenoni, l’autore di indimenticabili grammatiche latine e greche, e del figlio di questo Luigi, del filosofo Giorgio Politeo, dello storico Pietro Orsi, che dopo l’avvento del fascismo sarà il primo podestà di Venezia nel 1926, e di Andrea Benzoni, classicista. Tutti questi e molti altri sono autori di numerose pubblicazioni (v. a questo proposito la bibliografia alle pp. 38-43 dell’Annuario del 1925-1926).
Per quanto riguarda il «Marco Polo» invece questi dovettero essere anni piuttosto grigi. I presidi succeduti al mitico Carlo Villa, che resse il liceo dal 1888 al 1902, non sembrano aver lasciato grandi tracce, come fa fede l’eloquente reticenza delle Notizie storiche sull’Istituto (1812-1924), che a onta delle date indicate nel titolo omette ogni e qualsiasi indicazione su questo periodo tranne l’analisi delle cause della flessione di iscrizioni che si legge nell’Annuario del 1923-1924 di questo liceo(38), che sembra suggerita più da carità di patria che da spirito di verità. Il testo è anonimo, ma si indovina la penna di Carlo Grimaldo: «Questa scuola da principio per la maggior parte della sua vita fu molto frequentata: ogni classe superava i 40 alunni, i quali a un certo momento si ridussero di numero nelle cinque classi ginnasiali per esser sorto nello stesso Sestiere, e a pochi passi da esso, il Ginnasio gratuito dei P.P. Cavanis, oltre a quello, pur non lontano, annesso al Seminario Patriarcale della Salute». E invoca anche altre cause burocratiche quasi a scagionare la scuola. Anche per quanto riguarda gli insegnanti, il «Marco Polo» non ha in questo periodo grandi nomi da esibire. Ritiratosi dall’insegnamento nel 1901 il prof. Giuseppe Occioni-Bonaffons, insigne studioso, che aveva tenuto la cattedra di storia già onorata dall’abate Rinaldo Fulin, rimangono personaggi che al vaglio dei molti decenni trascorsi appaiono assai sbiaditi e che Carlo Grimaldo ricorda con aggettivi di circostanza, o anche senza. Conclude poi Grimaldo con soddisfazione: «Dal 1918, si provvide a mano a mano alle aule necessarie per le classi aggiunte, la popolazione scolastica rapidamente aumentò raggiungendo nel 1919-20 il numero di 286 alunni e nel 1922-23 quello di 324». E in effetti nel 1916 col preside Ugo Bassi, che resterà in carica fino al 1923, inizia un periodo nuovo.
Gli anni della Grande guerra avevano portato inevitabili disagi anche alla vita della scuola in una città come Venezia che si trovava nelle immediate retrovie del fronte e che nel ’17, dopo la rotta di Caporetto, aveva visto le truppe nemiche lambire le acque della laguna. Il Liceo «Marco Foscarini» fu requisito, divenne un ospedale militare, «il più bello degli ospedali militari cittadini» si legge nell’Annuario del 1923-1924, e il preside Vincenzo Crivellari «trovò la presidenza e la segreteria rifugiate in una stanza della Scuola Tecnica Caboto; poi tutto l’Istituto si rannicchiò nella sede della scuola elementare ai S.S. Giovanni e Paolo. [...] Dopo il rovescio di Caporetto [prosegue l’Annuario] anche le scuole parvero in Venezia colpite a morte e furono chiuse, la maggior parte dei professori erano sotto le armi o per concessione ministeriale partiti profughi». In quella circostanza il Liceo «Foscarini» ridotto a 26 alunni (essendo gli altri partiti con le famiglie per località più sicure o addirittura, alcuni dei più grandi, arruolatisi volontari) cambiò ancora sede a causa della «scarsezza del carbone, la difficoltà di averne ed il prezzo elevato» e fu ospitato presso il Liceo «Marco Polo» a S. Trovaso «dove il riscaldamento è a legna». Alto fu il numero degli studenti veneziani caduti nella prima guerra mondiale: solo del «Paolo Sarpi» ne morirono 68; 50 del «Marco Foscarini»; 23 del «Marco Polo».
La fine della guerra trovò la borghesia veneziana sostanzialmente allineata sulle opinioni di tutta la borghesia italiana, caratterizzate da un forte sentimento patriottico, animato dell’entusiasmo per la vittoria e irritato dall’indignazione per la cosiddetta vittoria mutilata. Si è soliti ritenere che Venezia non abbia vissuto in maniera grave lo scontro sociale che si svolse in Italia e che si concluse con la vittoria del fascismo. In realtà, come recenti studi hanno dimostrato, Venezia non fu indenne e registrò anch’essa episodi gravi di violenza(39). Però nella scuola la ripresa dopo il travagliato periodo della guerra avvenne in maniera piuttosto rapida e tranquilla: qualche manifestazione studentesca, quasi sempre promossa dagli studenti dell’Istituto nautico, «che stava diventando un vivaio di squadristi fascisti»(40), e nient’altro, o quasi. O quasi, perché ancora nel 1926 il poeta Diego Valeri rimase vittima «delle intemperanze della teppa in camicia nera», come in un’affettuosa lettera di solidarietà scrivono 15 suoi studenti del Liceo «Marco Polo»(41).
Per il resto, nel complesso, ordinaria amministrazione. Al «Marco Foscarini» si registra un evento triste: «La mattina del 27 ottobre 1921, nella sala della presidenza, mentre era intento alle quotidiane cure, il vecchio preside [Vincenzo Crivellari], che vantava quarantadue anni di servizio senza un giorno di riposo e non sapeva misurare la stanchezza, improvvisamente reclinò il capo nella morte. Nell’Istituto stesso ebbe la veglia funebre cogli altri segni dell’amore e della reverenza»(42).
Le elezioni amministrative dell’ottobre 1920 erano state vinte dal blocco d’ordine con 12.615 voti contro gli 11.109 dei socialisti. Il blocco d’ordine era la formula su cui si erano rette per un quarto di secolo le giunte di Filippo Grimani, solo che ora con i liberali e i popolari c’erano anche i fascisti. Sindaco fu eletto il chirurgo Davide Giordano, che nel ’24 lascerà il posto a un commissario governativo, e nel ’26 il prof. Pietro Orsi, storico, già insegnante del «Marco Foscarini», sarà il primo podestà fascista di Venezia.
Il nuovo gruppo dirigente veneziano ereditava nel campo della scuola una situazione nel complesso positiva. Il 1° novembre 1919 era stata istituita la R. Scuola secondaria di avviamento professionale con indirizzo commerciale «Rosalba Carriera», allogata nei pressi di campo SS. Giovanni e Paolo, in fondamenta Dandolo, progettata già da prima della guerra, con l’intento di raccogliere «le fanciulle che desideravano una cultura modesta ma completa, tale che, non precludendo la via a continuare gli studi alla scuola normale o all’istituto tecnico, fornisse loro le cognizioni indispensabili per occupare piccoli impieghi»(43).
Quello dell’istruzione professionale rimaneva tuttavia il problema di fondo, irrisolto e urgente, malgrado l’impegno della civica amministrazione. Ecco che cosa scriveva nella «Rivista Mensile della Città di Venezia» Giuseppe Dell’Oro(44): «L’Italia, povera di materie prime, non può affidare le sue fortune alle grandi industrie ma deve fare, essa che è soprattutto esportatrice d’uomini, ogni sforzo per la loro elevazione, cosicché i suoi operai sieno pregiati non soltanto per la sobrietà e la robustezza, ma per la loro capacità tecnica, in modo che essi possano essere non soltanto degli ottimi artieri, ma capi e dirigenti di un numero non esiguo di maestranze. Ma operai di così fatta levatura non si improvvisano, occorre prepararli sin dalla più tenera età con una serie di corsi». Osservazioni ovvie e scontate, che più tardi faranno da supporto alla Carta della scuola di Bottai, ma che in quel momento sembrano avere un significato quasi eversivo, dato che le opinioni prevalenti nella classe media, più ancora che nel ceto dirigente politico e burocratico, erano per lo più pregiudizialmente ostili a ogni e qualsiasi forma di scolarizzazione della classe subalterna, compresa l’istruzione tecnica e professionale.
In un altro articolo di quattro anni dopo lo stesso Dell’Oro ci dà la mappa dell’istruzione professionale a Venezia con l’indicazione delle diverse sedi, ma anche e soprattutto con l’esplicita indicazione delle reali carenze, alle quali si porrà rimedio molto, troppo tardi: «1) per l’avviamento professionale non esiste una vera e propria Scuola, ma vi provvede il Consorzio della Scuola di Avviamento Professionale con le proprie Sezioni frequentate dai giovani dei Corsi Integrativi, nelle ore pomeridiane; 2) per il tirocinio professionale, pure non esiste una vera e propria Scuola di quattro anni, ma operano con programma biennale i Laboratori Scuola dell’Istituto per il Lavoro per le Piccole Industrie (Laboratorio Scuola ElettroMetallurgici e Laboratorio Scuola per l’arte del Legno presso la Ditta Pasqualin & Vienna) nonché gli Istituti della Congregazione di Carità ed altri di indole religiosa, oltre alla ben nota Scuola ‘Paolo Sarpi’; 3) per la formazione dei capitecnici e dei periti industriali non esiste un R. Istituto Industriale; 4) per il perfezionamento degli operai, artieri e piccoli industriali, con Corsi per Maestranze, opera l’Istituto per il Lavoro per le Piccole Industrie in base propriamente alla Legge sopra citata. Per i bisogni complessi della preparazione tecnica e per lo sviluppo agrario della vasta Provincia di Venezia, pure non esiste una Scuola di Agrimensura. Nella nostra Città, per le sue tradizioni, quale centro d’arte decorativa esiste invece il R. Istituto d’arte che provvede a tutti i gradi dell’istruzione artistica. Per l’istruzione marinara operano il R. Istituto Nautico ‘Sebastiano Venier’, la Scuola Marittima ‘Nazario Sauro’[(45)], la Nave Scuola ‘Scilla’».
E intanto operava l’iniziativa privata con finalità educative e caritative: nel 1923 per opera del rev. don Luigi Orione di Tortona nei locali dell’ex orfanotrofio maschile alle Zattere ceduti al medesimo dalla congregazione di carità di Venezia sorgeva l’Istituto «Artigianelli S. Gerolamo Emiliani». Vi era una scuola di fabbri-meccanici (un anno preparatorio e quattro anni di corso), una di falegnami-ebanisti (un anno preparatorio e tre anni di corso), una di intagliatori (un anno preparatorio e tre anni di corso), una scuola tipografica, una scuola linotypia, una scuola stereotipia, una scuola legatoria e una scuola di disegno. «Più che un’opera nuova [si legge nell’opuscolo illustrativo] si deve considerare come la continuazione di una di quelle mirabili Istituzioni Veneziane che, ispirate dalla Fede e dalla Carità, hanno saputo da secoli educare all’onesto vivere cristiano e civile più generazioni di bravi giovani Artigiani»(46). Ancora una volta un’istituzione si vanta di ricondurre i suoi principi ispiratori alle scuole della Repubblica veneta.
L’istruzione primaria invece procedeva intanto secondo i binari prestabiliti: nel 1922-1923 c’erano a Venezia 25 scuole elementari: «G. Gozzi», S. Provolo, S. Maria Formosa, «Diedo», Madonna dell’Orto, S. Girolamo, S. Samuele, Magazen del Megio, Carminati, S. Stin, Eremite S. Raffaele, Lido, Giudecca, Malamocco, Marghera, S. Giuseppe, «G. Gallina», SS. Apostoli, S. Fosca, S. Girolamo, S. Maurizio, Papadopoli, Priuli, S. Aponal, «Renier Michiel», cui si devono aggiungere le sezioni del «Tommaseo» e del «Corner Piscopia», annesse alle due scuole normali per il tirocinio delle future maestre, e la scuola per tracomatosi. «Il numero degli iscritti, che nel 1900 era di 9.207 ed era salito dopo un decennio a 12.353, supera quest’anno i 15.800», scrive Attilio Dusso, direttore didattico generale, che così commenta: «Se il risultato delle iscrizioni può essere motivo di soddisfazione, esso non è indice sicuro dell’adempimento reale dell’obbligo scolastico, che consiste nella frequenza continua e regolare degli alunni. Questa, purtroppo, lascia ancora a desiderare»(47). E infatti questi interventi non erano stati sufficienti e nel dopoguerra si dovette provvedere con ulteriori costruzioni e adattamenti di edifici preesistenti. Così erano state inaugurate la scuola femminile e quella maschile di S. Girolamo nel 1920 e 1921 sul terreno già occupato dal convento delle suore Cappuccine, ancora nel 1921 la scuola maschile a palazzo Carminati a S. Giacomo dall’Orio e la scuola femminile nel palazzo Papadopoli ai Tolentini e nel 1922 il nuovo edificio del Magazen del Megio pure a S. Giacomo dell’Orio, dove sarà allogata la Scuola elementare «Alessandro Manzoni». Naturalmente tutto questo comportò qualche manomissione: «L’antica costruzione ha conservato soltanto la caratteristica facciata sul Canal Grande [scrive ancora Attilio Dusso a proposito del Magazen del Megio(48)]: tutto il resto è scomparso. Dove s’aprivano gli antichi depositi del grano, ampi e bui, sorgono ora le due ali d’un fabbricato arioso e leggero, che comprende tredici aule ariose e spaziose, ben esposte, benissimo illuminate ed arieggiate, con locali accessori».
E intanto grandi mutamenti si preparavano per la vita della città, che si espandeva sulla terraferma. A seguito della convenzione stipulata il 23 luglio 1917(49) per la costruzione del nuovo porto di Venezia, in località Marghera, veniva riservata una zona della superficie di 150 ettari per la formazione del quartiere urbano, previsto sufficiente per una popolazione di 30.000 abitanti.
«Durante l’anno 1925 per l’aumento fortissimo e progressivo della popolazione di Porto Marghera, si è imposta la necessità di procedere alla costruzione di un nuovo edificio scolastico in sostituzione della vecchia scuola che era stata ceduta dal cessato Comune di Mestre, e che ormai era divenuta assolutamente insufficiente a contenere la cresciuta popolazione scolastica»(50): la Scuola elementare intitolata a Filippo Grimani(51).
Si poneva così in essere non solamente lo sviluppo di Marghera, ma altresì di Mestre il cui incremento demografico e urbano era stato notevole in quegli anni: dagli 11.000 abitanti del 1901 ai 22.000 del 1916 che sarebbero divenuti 36.000 nel 1933.
Così con «alate parole» dettate dall’enfasi retorica del dannunzianesimo di moda, Antonio Fradeletto salutava la nuova realtà di Venezia indubbiamente gravida di promesse inaugurando il primo numero della «Rivista Mensile della Città di Venezia» il 1° gennaio del 1922: «Vedevo una più ampia Venezia, abbracciante due Città: l’antica, la storica, l’immortale che serbava inviolato il suo sacrario di monumenti, il suo museo vivo di splendori vivi tra l’incanto del cielo e il murmure delle acque, la nuova protesa verso i margini della laguna, intenta alacremente alle attività fabrili [sic] e mercantili, senza paura di urtare contro ostacoli venerandi, anzi felice e orgogliosa di redimere, di popolare, di vivificare una plaga fangosa e deserta. E riassumevo la visione in questa similitudine: gioiello purissimo d’arte antica, incastonato nell’acciaio vibrante del lavoro moderno». Sembrava l’uovo di Colombo, e forse era una impossibile quadratura del circolo, la sintesi tra vecchio e nuovo, il vecchio amato ma sempre più difficilmente vivibile e il nuovo che sembrava una profanazione.
E così a Venezia la dicotomia tra cultura umanistica e cultura tecnica, che sottintende anche una differenza classista, si constata in maniera particolarmente evidente, perché lo sviluppo stesso della città e la sua trasformazione ne costituiscono quasi una sorta di diagramma. Tale sviluppo, prefigurato da Riccardo Selvatico con l’istituzione della Biennale d’arte e poi realizzato da Giuseppe Volpi, certo assecondando anche la logica delle cose, prevedeva la distinzione tra una Venezia insulare destinata alla cultura e al turismo o più in generale al terziario, abitata quindi per lo più dal ceto medio, e una Venezia di terraferma (Mestre e Marghera) destinata allo sviluppo industriale, dove invece fosse prevalente un ceto di operai e di tecnici. L’impetuoso sviluppo demografico della città di Mestre, il cui comune il 26 giugno 1926(52) sarà soppresso e il suo territorio annesso al comune di Venezia, ha confermato questa realtà.
La situazione scolastica di Mestre ereditata dal Comune di Venezia non era delle migliori. Nella relazione del sindaco Carlo Allegri, con la quale in data 27 dicembre 1916 si formulava la richiesta di concessione del titolo di città, che verrà esaudita solo nel 1923, si leggono indicazioni preziose: «Il capoluogo e le frazioni sono provvisti di adatti fabbricati per l’insegnamento elementare. Altri fabbricati sono in progetto, con una spesa preventivata di circa 800 mila lire. Da oltre un quarantennio esiste nel capoluogo una fiorente scuola di disegno, con un corso d’arte applicato all’industria. Circa dieci anni fa venne istituita una scuola tecnica comunale, la quale pure, fattasi fiorente, ottenne il pareggiamento per decreto ministeriale primo ottobre 1912, ed ora pendono pratiche per la sua regificazione. L’Istituto di San Gioachino, sorto verso la fine del secolo scorso ad iniziativa e con denaro del benemerito concittadino mons. Felice Groggia, accoglie e gratuitamente provvede all’istruzione, educazione e mantenimento di molte ragazzine del popolo. Nella frazione di Carpenedo già da alcuni anni funziona un asilo Infantile ed altro verrà istituito nel capoluogo, ambidue favoriti di dotazione del comune»(53).
La Scuola di disegno era stata istituita nel 1871, perché due anni prima erano state aperte delle scuole serali per gli adulti maschi e festive per le donne che però avevano avuto adesioni molto scarse, probabilmente per il fatto che il tipo di formazione che esse davano era molto generico, ed era progressivamente sempre più richiesta una, per lo meno discreta, formazione professionale. L’idea della Scuola di disegno era indovinata dal punto di vista formativo per educare all’esattezza e al rigore i giovani che «si farebbero osservatori delle leggi d’ornato e non ripeterebbero gli sconci, le inesattezze, le irregolarità e gli errori che si osservano nei lavori di falegname, fabbro ferraio, muratore, etc.»(54). Tuttavia al di là delle buone intenzioni, anche a causa delle cattive condizioni di salute del suo fondatore Giovanni Moretti, l’iniziativa fallì; in suo luogo però sorse due anni dopo nel 1888 la Scuola industriale d’arte, retta, fino alla morte avvenuta nel 1924, da Giuseppe Miotto. Alla sua scomparsa si diede sistemazione definitiva alla sede in via Spalti, un vecchio deposito di materiale dell’acquedotto, che venne sopraelevato. La nuova sede fu inaugurata il 20 giungo 1926 e intitolata a «Napoleone Ticozzi», il vecchio sindaco di Mestre, che «più di settant’anni prima aveva propugnato l’istituzione della primitiva ‘Scuola di Disegno’»(55).
Però la situazione nel comune di terraferma non era migliorata, tant’è vero che con l’introduzione della scuola dell’obbligo «Mestre conobbe così [si potrebbe ben dire fin dall’inizio della sua storia contemporanea] il disagio dei doppi turni»(56).
Nello sforzo di correre ai ripari si erano lasciati trascorrere molti anni in discussioni, trattative, gare d’appalto, finché nel 1902 era stata costruita la «De Amicis», «a ridosso della Torre dell’Orologio, l’edificio scolastico, di proprietà comunale, più antico di Mestre»(57). Solo nel 1921 verrà inaugurata la «Cesare Battisti» dopo che nel 1919 era stato redatto un Piano per l’edilizia scolastica nel quale «si era espressamente sottolineato che si voleva intanto risolvere una volta per tutte il problema delle aule per l’istruzione primaria, rinviando ‘più avanti nel tempo’ quello degli asili e delle scuole secondarie»(58).
Ma nella inerzia dell’iniziativa pubblica non si può ignorare la generosa caritatevole iniziativa dei privati, di uno almeno, cui faceva riferimento nella sua testé citata relazione il sindaco Allegri, don Felice Groggia, che in una villa di sua proprietà in quella che oggi si intitola via Andrea Costa aveva aperto nel 1894 una Scuola delle fanciulle del popolo affidata alle suore Mantellate di Pistoia, e due anni dopo il vescovo di Treviso (non si dimentichi che Mestre era nella diocesi di Treviso) approvava il regolamento della Casa di s. Gioacchino, così intitolata in onore di Gioacchino Pecci, papa Leone XIII. Parimenti nel 1919 la maestra Maria Berna «decise di mettere a disposizione tutto il suo patrimonio valutato in lire 400.000 per l’erezione di un istituto che raccolga ed educhi i fanciulli poveri con particolare riguardo agli orfani di guerra», istituto che divenne ben presto «una vera e propria scuola professionale a servizio dell’intera cittadinanza»(59).
Significativo poi è l’inizio di un’altra scuola di Mestre, la «Bandiera e Moro», che in un primo momento era stata allogata nei locali della «De Amicis», primo esempio di scuola autogestita. Era successo infatti che si doveva aprire una scuola tecnica che non si aprì a causa di una crisi della giunta comunale. Allora «le famiglie, che già avevano iscritto i propri figli, si tassarono perché le lezioni potessero incominciare»(60).
Il regime fascista dedicò molta attenzione alla scuola, ritenendo a torto o a ragione che essa fosse uno strumento utile per organizzare il consenso e — per dirla con Manzoni — «legare una volontà che non si guarda», quella dei giovani. «Il governo esige», dirà a Milano Mussolini il 23 marzo 1923, «che la scuola si ispiri alle idealità del Fascismo [...] esige che la scuola in tutti i suoi gradi e in tutti i suoi insegnamenti educhi la gioventù italiana a comprendere il Fascismo, a rinnovarsi nel Fascismo, e a vivere il clima storico creato dalla rivoluzione fascista».
E la riforma Gentile fu in senso cronologico uno dei primi atti del regime. La legge delega nr. 1601, alla quale tennero dietro tutti i dodici decreti che attuarono la riforma, è del 3 dicembre 1922, poco più di un mese dopo la Marcia su Roma. La riforma si attuò nel giro di un anno.
A Venezia a livello istituzionale gli effetti si videro soprattutto nella scuola superiore, con la nascita del Liceo scientifico «G.B. Benedetti» e del liceo artistico. Il liceo scientifico fu allogato là dove si trova ancor oggi, nell’edificio sorto sull’area della chiesa di S. Giustina demolita nel 1841, un edificio che nel tempo aveva ospitato l’Istituto di educazione militare, l’Istituto «Coletti», la Guardia di Finanza, e dal 1920 al 1923 l’Istituto nautico. Il liceo artistico(61), derivato dai corsi comuni dell’Accademia di Belle Arti, trovò sede nello stesso edificio di questa alla quale era amministrativamente annesso. Fu invece soppressa la Scuola normale «Elena Corner Piscopia» e aggregata alla «Niccolò Tommaseo», con la quale costituì il nuovo istituto magistrale(62).
A livello educativo invece la riforma non dovette incidere grandemente sulle scuole superiori, se con ostentata noncuranza l’estensore delle Notizie storiche sull’Istituto (1812-1924), nell’Annuario del Liceo «Marco Polo» dell’anno 1924-1925(63), presumibilmente Carlo Grimaldo, scrive: «L’applicazione avvenuta quest’anno della Legge Gentile non ha alterato tale stato di cose [cioè un certo incremento delle iscrizioni], essendosi avute 311 iscrizioni: ne è derivato invece il beneficio che alle classi aggiunte del Ginnasio, prima aleatorie, è stata data stabilità con la istituzione in organico del corso B completo e parallelo al corso A».
Più entusiasta nell’esaltazione della riforma il preside Carlo Contessa(64) del «Marco Foscarini», che doveva essere un bravo preside, ben sintonizzato con lo spirito del tempo, capace di proporre in maniera indiscutibilmente persuasiva un certo rigore autoritario accortamente motivato da argomenti di sapore democratico, ora di stampo liberale, ora di stampo sociale. E tuttavia anche la sua circolare (che allora si chiamava «Ordine del giorno») del 10 dicembre 1923 distribuita a stampa anche alle famiglie, e intitolata Sullo spirito dei nuovi programmi (pubblicata alle pp. 69-71 dell’Annuario del 1923-1924 di quel liceo), dice ben poco della riforma. Solo affermazioni di principio, peraltro sacrosante da condividere anche da chi gentiliano non è, nello spirito sì di Lombardo-Radice e dell’attivismo pedagogico, ma anche di un comune sano buon senso: «Vogliamo che lo studio non sia tormento, che la scuola sia sinceramente cercata e diletta. [...] Le ripetizioni meccaniche delle regole di grammatica e di stilistica debbono essere bandite; la tortura delle centinaia di date storiche e gli elenchi di papi e di imperatori in fila, le tavole delle cifre geografiche hanno fatto il loro tempo [...]. La vecchia persuasione che, studiando e appiccicando a memoria le formule stereotipate di un testo, più o meno ampio a seconda dei casi e più o meno autorevole, si possa tentare un esame, deve alfine cedere il campo a nuovi metodi di esami per cui il candidato macchina non basta più, ma è pregio dimostrare di saper ragionare con le proprie idee e conversare». Principi a tutt’oggi inattuati, anche perché non valgono gli ordini del giorno ad attuarli. E a questo, quasi ad alternare il bastone alla carota, segue la segnalazione un tantino minacciosa delle nuove norme relative alle bocciature, che appaiono restrittive rispetto alle precedenti.
Va infine segnalato un elemento della riforma Gentile non molto gradito in generale dagli insegnanti che per lo più lo hanno disatteso allora e in seguito trovandolo limitativo della loro libertà di insegnamento: la motivazione delle classificazioni, che incontrò invece l’incondizionata condivisione del preside Contessa («Fu senza dubbio tra le prescrizioni dei nuovi ordinamenti la più proficua di confortevoli risultati inattesi; gli alunni le attendono con viva curiosità e le discutono, feriti o incoraggiati, quasi sempre convinti. I parenti non solo ricavano maggior persuasione che dal misterioso linguaggio dei numeri, ma ne traggono argomento di sincera ammirazione e riconoscenza come indizio dell’onestà degl’insegnanti a studiare e comprendere l’alunno; e più quando la motivazione anziché analitica per ciascun voto, assurge per gl’insegnanti di parecchie discipline, o di una disciplina a più prove, a un vero giudizio sintetico sulle qualità intellettuali e morali dell’alunno»).
Ma al di là delle differenze di valutazione della riforma Gentile e dei diversi atteggiamenti degli insegnanti, si manifesta in quel periodo fra i due licei veneziani una differenza di ‘clima’. «Ogni scuola [diceva proprio il preside del «Marco Polo», Tullio Ortolani(65), inaugurando l’anno scolastico 1926-1927] è diretta da un Preside, ogni scuola ha un dato numero di insegnanti e di alunni: ogni Liceo, poi, ha leggi e regolamenti e programmi comuni. Ma come tutte le famiglie, pur ugualmente composte, hanno ciascuna una lor propria intima vita e fisionomia, che distinguono l’una dall’altra, così è delle scuole. Ognuna ha caratteristiche sue proprie, suo proprio indirizzo, vita sua propria». E il ‘clima’ di una scuola, soprattutto in virtù della sua tradizione, è talmente forte da mantenersi immutato per lungo tempo anche se cambiano gli insegnanti, anche perché, ovviamente, non cambiano tutti insieme nello stesso momento. Quando il 6 ottobre 1926 il preside del «Marco Foscarini», Carlo Contessa, nell’Annuario dell’istituto del 1927-1928 esaltava tra le caratteristiche del liceo l’«accordo sempre unanime sui criteri generali e particolari intesi alla correzione degli istinti men buoni degli alunni [...]», mostrava la consapevolezza dell’importanza del ‘clima’ anche come immagine esterna: «I risultati veramente soddisfacenti sono ormai consolidati da parecchi anni per modo di assicurare una fisionomia all’Istituto ben determinata nella coscienza degli alunni e confortati da segni manifesti della pubblica estimazione cittadina». Un carattere sensibilmente diverso da quello del «Marco Polo», descritto da Carlo Grimaldo nel suo saggio Un’ora fra le vecchie carte del ‘Marco Polo’(66); dalle pagine di Grimaldo emerge infatti un ambiente più disordinato, non privo nell’Ottocento di episodi di indisciplina accompagnati persino da atti di meschina delazione. Grimaldo nel descrivere quegli episodi fa un confronto col ‘clima’ del liceo in quei suoi anni: «Oh benedetti, tre volte benedetti gli alunni dei giorni nostri [siamo nel 1926], gli alunni di questo principio del secolo XX, con tutta la loro vivacità, con tutta la loro allegria, con la loro irrequietezza, la loro fiacca, direi persino con tutta la loro negligenza!».
Nel campo dell’istruzione tecnica e professionale una conseguenza della riforma Gentile fu la nascita del Consorzio facoltativo delle scuole di avviamento e apprendistato di Venezia, formalmente costituito il 5 maggio 1925, con l’intento di «gestire, coordinandole fra di loro, le varie scuole di indole professionale esistenti, istituirne di nuove e prendere ogni altra iniziativa che potesse facilitare la frequenza a queste scuole e migliorare la cultura tecnica ed artistica dei giovani indirizzandoli, secondo la loro vocazione ed attitudine, ad un mestiere»(67).
Nella scuola elementare invece le ripercussioni non furono prevalentemente di natura istituzionale, ma miravano a toccare soprattutto la sostanza dell’insegnamento. Un articolo di Attilio Dusso sulla «Rivista Mensile della Città di Venezia»(68) ci dà interessanti ragguagli. Innanzitutto con legittimo orgoglio egli proclama che la scuola veneziana aveva anticipato la riforma: «Quando nell’autunno del 1923, il Ministero pubblicò l’ordinanza contenente i nuovi programmi per le scuole elementari, le scuole di Venezia erano già avviate alla attuazione di taluno dei principi fondamentali a cui essi si inspiravano». Una delle innovazioni della riforma fu il tentativo di tradurre in atto i principi dell’idealismo educativo di realizzare una «scuola serena»(69), che paiono essere abbastanza ben compresi da Dusso, che scrive: «Davanti alla Riforma uno solo doveva essere il proponimento di chi era chiamato ad applicarla: lo studio. Lo studio animato e illuminato dal desiderio di trovare nuove vie alla scuola, di operare in essa nel modo più aderente allo spirito del fanciullo, di attrarre verso di essa le simpatie del pubblico e di accrescerne quindi il prestigio e l’efficacia. Venne presentata più volte a questo ufficio da parte di molti maestri la richiesta di un programma didattico particolareggiato, diviso per gruppi di lezioni, da servire a tutte le scuole del Comune, così come si faceva in passato. La proposta non venne da me accettata, perché contraria nettamente allo spirito della riforma, la quale vuole dal maestro maggiore operosità, maggior senso di responsabilità, maggiore cura di intonare il proprio insegnamento non su schemi astratti, ma sul concreto della sua scolaresca. Un programma didattico vecchio tipo, comune a tutte le scuole, avrebbe servito più ad impigrire che a tener desta l’attenzione dei maestri verso la nuova intonazione data dal programma all’insegnamento. La via da tenersi non poteva essere che questa: esame e discussione della riforma, in comune fra direttori e maestri; applicazione individuale». E ancora: «La scuola di Venezia, si trovò, quindi, pronta a seguire il nuovo programma, che altro non richiedeva se non una continuazione e una intensificazione dell’opera incominciata da molti anni»(70).
Ma non solo nelle intenzioni Dusso presentava la scuola veneziana come all’avanguardia, bensì anche nei fatti. Le innovazioni previste dalla riforma consistevano in alcuni punti ben precisi: l’insegnamento della religione, il canto, la lingua italiana, il disegno, la cultura regionale. Sul primo punto, indubbiamente il più importante dal punto di vista politico e sociale, egli ha buon gioco a ricordare che «l’insegnamento della religione, per desiderio del Comune, che aveva con una nobilissima circolare dell’On. Molmenti, assessore per l’I.P., raccomandato la preghiera quotidiana, e per spontanea adesione della cittadinanza, era tenuto in onore, tanto che ogni anno il parroco presiedeva gli esami di questa materia». E anche «il canto corale era curato con particolare amore, come provano la nomina di ispettori speciali, la introduzione dell’insegnamento della teoria musicale, nelle classi V e VI, la scelta di canzoni, che sono quanto di meglio si potesse, e si possa ancora, offrire ai bambini». Qui però bisogna dire che le stesse parole di Dusso rivelano una certa millanteria, dato che i corsi speciali per maestri iniziarono nello stesso anno 1923-1924 e non prima. Per quanto riguarda gli altri insegnamenti nuovi Dusso si lamenta che molti professori non curino quello del disegno. La cosa più interessante sono le sue osservazioni sull’insegnamento dell’italiano con particolare riferimento alla novità dello «sfruttamento del linguaggio già posseduto [dialetto]»(71), che egli, pur al di fuori della prospettiva di Lombardo-Radice, vede come mezzo «per giungere più rapidamente alla conquista della lingua nazionale»: di conseguenza anche le sue osservazioni sull’insegnamento della cultura regionale sono ambigue, e un po’ tartufesche: «I programmi didattici, su questo punto, sono stati compilati con cura; non sempre uguale cura fu posta invece nel loro svolgimento».
Ma in particolare le sue osservazioni sulla nuova impostazione dell’insegnamento della lingua sono corrette, se pur sempre animate da un certo spirito rivendicativo, che peraltro conferma l’impegno della scuola veneziana nella ricerca e nell’innovazione didattica, ancor prima che si affacciasse il pedagogismo gentiliano: «Anche per la composizione italiana e per l’uso del dialetto, si era già sulla buona via. La lotta contro il componimento retorico, iniziata da valenti pedagogisti, aveva trovato qui convinti propugnatori e seguaci, e le conferenze tenute nella scuola Diedo nel novembre 1914 provano come nelle nostre scuole l’indirizzo dato dai nuovi programmi non fosse del tutto nuovo, in teoria, sebbene in pratica molti ancora continuassero a seguire il vecchio sistema. Quanto al dialetto, tutte le nostre scuole ebbero, a cura del Comune, il vocabolario veneziano-italiano del Piccio. Di più nel 1921 le riunioni magistrali presiedute dall’Ispettore prof. cav. F. Bettini furono tutte occupate nello studio della didattica della lingua, e le conclusioni a cui si pervenne non furono molto lontane da quelle propugnate dai nuovi programmi i quali con il loro apparire dettero subito il conforto di un’approvazione ufficiale a quanto avevamo tentato».
Negli anni Trenta la scuola italiana subì col ministro De Vecchi, in carica dal ’35, quello che dagli stessi responsabili venne definito «il processo di fascistizzazione» o più arrogantemente la «bonifica della scuola». La riforma Gentile non soddisfaceva più gli uomini del regime e le impazienti aspirazioni del Partito a egemonizzare ogni aspetto della vita dei cittadini. Tuttavia è da rilevare come questo processo incontrasse delle difficoltà, riconosciute dalla maggioranza degli storici. «La scuola non era fascista forse perché in essa non c’erano dei veri agenti del Fascismo» scrive Michel Ostenc(72). Questo non è del tutto vero. Forse si può persino pensare che la scuola degli anni Venti fosse refrattaria al fascismo. Per lo più era indifferente(73): anche perché alcune delle istanze fasciste rispondevano ai luoghi comuni di quella borghesia benpensante alla quale apparteneva la maggior parte degli insegnanti. A questo si aggiunga un certo spirito individualistico di indipendenza della categoria, come sostiene a guerra finita, caduto e sepolto il fascismo, Francesco Semi, professore di italiano e latino al Liceo scientifico «Benedetti» nell’articolo di spalla del «Gazzettino» del 29 agosto 1945, intitolato Scuola democratica: «La grande maggioranza dei docenti — pur non avendo potuto avere tutti la necessaria preparazione democratica — almeno è stata sempre amante della libertà. Se la scuola fascista ha sempre funzionato assai male, ciò avvenne per l’innata incapacità degli insegnanti di sottomettersi a regolamenti che soffocavano l’individualità». Ne fa fede, ancora nel 1937, l’ammissione di Bottai nel discorso alla Camera: «L’insufficienza delle nostre scuole a creare degli uomini che volevamo è apparsa fin qui una insufficienza di dettaglio»(74). Insomma la vita della scuola a Venezia come altrove vedeva sì la sempre crescente preponderanza degli elementi fascisti al suo interno, in quanto erano agevolati dalle autorità interne ed esterne alla scuola, e anche perché nel bene e nel male essi rappresentavano lo spirito del tempo, ma questo non significava la fascistizzazione di quella che potremmo considerare l’intima coscienza della scuola, anche se le sue strutture e gli apparati ufficiali venivano massicciamente fascistizzati nel corso degli anni Trenta. Agevolò il processo il consistente ricambio di uomini verificatosi nella scuola veneziana tra il 1920 e il 1923, ma si trattava di una circostanza casuale, il regime non c’entra. Si affacciava così al governo della scuola locale una nuova generazione, senz’altro molto diversa dalla precedente, straordinariamente sensibile alla problematica pedagogica ben più di essa, e che però all’attivismo pedagogico (talvolta scambiato per attualismo), nel pensiero e nel convincimento di ciascuno di loro, aggiungeva un attivismo gestionale che si concretava in una sorta di contestazione dall’alto di tutte le convenzioni e le vecchie abitudini della scuola, una sorta di avanguardismo in parte di accatto, ma che per altri versi veniva loro dal clima complessivo che viveva il paese. Al «Marco Polo», al prof. Ugo Bassi subentrava il prof. Tullio Ortolani, al «Marco Foscarini», dopo la breve presidenza di Giacomo Pavan, giunto in tarda età da Rovigo a sostituire il compianto Crivellari, arriva nel ’23 il preside Contessa, al «Paolo Sarpi» sempre nel ’23 Pier Liberale Rambaldi, alla «Caboto» nel ’20 veniva il preside Giovanni Ciriello. Spicca poi fra questi uomini nuovi il provveditore agli studi del Veneto Gaetano Gasperoni, uomo di cultura, tutt’altro che burocrate.
Un aspetto evidente di questo attivismo è dato dagli organi di stampa, dai bollettini, che non sono semplici bollettini, ma vere e proprie riviste, redatte dai Provveditorati agli studi a livello regionale(75) cui collaboravano gli uomini migliori, o almeno quelli più in vista della scuola locale. A Venezia si pubblicò «Il Veneto Scolastico» dal 1923 al 1927, quando fu soppresso, come i bollettini delle altre regioni, per decisione ministeriale.
«Portare a cognizione degli interessati i criteri che ci guidano nell’Amministrazione della scuola della Regione; rendere sempre più proficua ed armonica l’opera di educazione e di istruzione richiesta dai nuovi tempi; stabilire rapporti più frequenti con i Sindaci e coi rappresentanti delle istituzioni ausiliarie; avvicinare la scuola alla famiglia ed al popolo in modo che risulti evidente la sua funzione sociale: ecco i nostri propositi». Questo era il programma enunciato dal provveditore agli studi Gasperoni, studioso in particolare della cultura del Settecento, ma con ampie divagazioni in altri campi. Ed è significativo che il primo numero si apra con un saggio sul palazzo della Fondazione Querini Stampalia, che allora ospitava il Provveditorato(76), per una sorta di bisogno di collegare la realtà dell’amministrazione scolastica, inevitabilmente burocratica, con una visibile e consistente dimensione culturale, quale era rappresentata dal palazzo e dalla Fondazione.
Sfogliando le annate del bollettino, che alternava articoli di cultura ad articoli di pedagogia, testi normativi a commenti agli stessi, e notizie riguardanti la vita corrente della scuola dai problemi stipendiali agli elenchi dei trasferimenti, alle graduatorie dei concorsi, si ha oltre all’informazione alquanto dettagliata della realtà della scuola il senso preciso della progressiva trasformazione della vita del paese, e per quello che a noi interessa della scuola, in regime. Fino al ’25 la parola «fascismo» non ricorre quasi mai, se non per qualche breve nota informativa, qualche «genuflessioncella di uso» in onore dell’esecutivo non fuoriesce dal normale galateo dei rapporti gerarchici. Anche una serie di articoli sulla riforma Gentile esprime generalmente consensi meditati, privi di quelle sperticate lodi che il regime pretenderà pochi anni dopo, ed è presente anche una voce accademica di dissenso, quella del filosofo patavino Erminio Troilo, che pur fra mezzo a qualche riconoscimento denuncia che «la pedagogia viene in tal guisa trattata da ritenersi più che rinnovata, soppressa» e trova discutibile quella parte del programma che prevede «il problema della scienza nella sua storia». Poi gradatamente i richiami aumentano, anche se, soprattutto negli scritti di Gasperoni, gli accenni al fascismo non sono mai disgiunti da riferimenti al sentimento nazionale, così da dare l’impressione che più che di fascismo si tratti di onesto patriottismo: per esempio sul nr. 7 (aprile) dell’anno IV (1926-1927) egli dice: «Vogliamo stabilire rapporti più larghi con le istituzioni create dal Fascismo»(77), quasi a sottolineare che col fascismo la scuola deve avere un rapporto come si addice a due realtà ben distinte, senza immedesimazioni. E così più avanti parla della «Patria, che il Fascismo trasse dalla rovina e conduce religiosamente e sicuramente verso il suo immancabile avvenire di potenza morale e materiale». Patria e fascismo risultano essere per lui due realtà ben diverse, il che è una distinzione non tanto sottile per quegli anni, e va evidenziata.
«Il Veneto Scolastico» chiuderà col numero di agosto-settembre 1927 per disposizione ministeriale con un Congedo del provveditore Gasperoni pieno di rammarico e di rivendicazione della positiva azione svolta dai bollettini regionali. Da alcuni numeri però egli non firmava più gli articoli che lo stile rivela essere suoi; segno forse di larvato dissenso. Pochi numeri prima in un articolo datato 4 dicembre 1926 il preside del «Paolo Sarpi», Pier Liberale Rambaldi, intitolava un suo articolo Perché siamo e dobbiamo essere con Lui; e Lui è Benito Mussolini, e l’articolo ne è uno sperticato elogio, tipico documento del culto della personalità che caratterizzò da quel momento in poi il regime fascista.
Gli anni del ministero De Vecchi da questo punto di vista furono decisivi. Il passaggio dell’Opera Nazionale Balilla alle dipendenze del Ministero della Pubblica istruzione, l’attribuzione di pieni e assoluti poteri, spesso addirittura senza possibilità di impugnativa, non al Ministero come struttura dello Stato, ma alla persona del ministro, la cui mentalità militaresca suscitava perplessità spesso ironiche in seno allo stesso Partito Nazionale Fascista, furono un colpo di maglio alla riforma Gentile, soprattutto a quegli aspetti liberali non del tutto assenti da essa.
A De Vecchi succedette nel novembre del 1936 Giuseppe Bottai. Resterà in carica fino al febbraio del ’43. La sua Carta della scuola fu il più organico progetto di fascistizzazione del sistema scolastico, e anche se bisogna riconoscere in Bottai ben altra personalità, più colta e meno rozza di quella di De Vecchi, le finalità della sua riforma ne rappresentano la scaltra prosecuzione. Non si tratta di una legge ma di ventinove dichiarazioni contenute nella Relazione al Duce e ai camerati del Gran Consiglio sulla Carta della Scuola tenuta il 19 gennaio 1939. Questa Carta della scuola veniva ricollegata dallo stesso Bottai alla Carta del lavoro del 1927 e alla Carta della razza e doveva costituire una sorta di «piano di lavoro»(78). A Venezia troviamo un interessante documento del clima di quegli anni nell’Annuario dell’Istituto Magistrale ‘Niccolò Tommaseo’ dell’anno 1938-39. XVII° E.F., dove si leggono i primi entusiastici commenti alla Carta della scuola, rivelatori però di un atteggiamento che trent’anni dopo si sarebbe detto «di sinistra».
Sotto il titolo La Carta della scuola sono raccolti sei saggi, che ora rapidamente sunteggeremo, e a guisa di epigrafe si legge una frase, evidentemente di mano del preside Armando Michieli, che nella sua ovvietà si dimostra eloquente segno dell’arrogante pilatesca insicurezza che caratterizzava in quegli anni ogni pubblico funzionario: «Ad ogni autore libertà e responsabilità di trattazione». Il primo saggio è dello stesso preside e si intitola Famiglia-Scuola-GIL(79), denso di citazioni del ministro Bottai, di cui il preside si rivela informato e assiduo lettore: il testo va letto insieme al discorso di inaugurazione dell’anno scolastico 1939-1940, contenuto nelle pagine immediatamente precedenti. Risulta accentuato un certo aspetto autoritario, che non è certo assente dallo spirito e dalla lettera delle Dichiarazioni di Bottai, ma in lui temperato, almeno a parole, da un certo attivismo pedagogico, mentre nel discorso e anche nel saggio del preside Michieli è sottolineato soprattutto col richiamo ai doveri degli alunni e in particolar modo dei genitori nei confronti della scuola: il che non costituisce né una richiesta né un’offerta di collaborazione: «Se i genitori vogliono i figli buoni e bravi, devono fare in modo, per quanto da loro dipenda, che i figli siano buoni e bravi, e aiutarci»; il saggio poi tratta diffusamente — come annuncia il titolo — del rapporto tra scuola e G.I.L. («la GIL si inserisce nella scuola, appunto perché gli insegnanti della scuola si sono inseriti nella GIL») auspicando con insistenza un’intesa fra queste due componenti dell’educazione del ragazzo, il che lascia intravedere che «quell’intesa che è indispensabile talvolta mancò [...] per quel conflitto che talvolta può nascere fra opposte tendenze»(80). Ma non doveva trattarsi di «opposte tendenze» politiche, e nemmeno filosofiche o pedagogiche. Forse in certi casi, non qui.
L’indicazione viene dal saggio successivo, L’alunno e la carta della scuola, della prof. Clara Della Cella Gallo, insegnante di filosofia e pedagogia nel corso B, che affronta il problema dei compiti per casa, con argomenti ancora oggi attualissimi. Appare abbastanza evidente che agli occhi di molti insegnanti gli obblighi di partecipazione alle attività della G.I.L. potevano distrarre gli alunni dallo studio, possiamo immaginare le proteste soprattutto di quegli insegnanti avvezzi a scaricare sullo studio pomeridiano buona parte dell’attività di apprendimento dell’alunno. La prof. Della Cella constata che «lo studio oggi, fra scuola e casa, in contrasto con la gelosa cura che il Fascismo ha della salute e del rigoglio giovanili, rinchiude i ragazzi fra mura, li immobilizza e curva sui banchi, contende loro moto, sole, letizia, per orari giornalieri di 8-10 ore. I testi moderni d’igiene debbono dare trattazione sempre più ampia al capitolo delle malattie scolastiche. [...] Se si giungesse a contenere lo studio — fra scuola e casa — nell’orario delle 18-24 ore, rimarrebbe, per le altre forme dell’educazione [leggi: adunate G.I.L.] un tempo pressappoco uguale». La seconda parte dello scritto della prof. Della Cella è di non troppo sommessa protesta nei confronti dell’esame «conservato ed anzi ribadito, come il solo mezzo di valutazione e selezione delle attitudini». La professoressa si chiede: «Non sarebbe dunque pienamente rispondente alla realtà del processo educativo che la selezione degli alunni ed il loro costante orientamento nella vita sociale fossero determinati proprio dal giudizio dell’insegnante? [...] Lo spirito della Riforma giustificherebbe il mutamento del vecchio e tormentoso sistema degli esami nel sistema del giudizio per consiglio d’insegnanti, anzi lo richiederebbe». La conclusione è: «qualora gli alunni venissero liberati, e per sempre, dalla fatica, inutilmente tormentosa, degli esami, potrebbero ‘ricreare’ sufficientemente, nei due mesi del luglio e dell’agosto, le loro energie ed anche partecipare tutti, con fervore e con letizia, ai campeggi, alle crociere, ai corsi estivi della GIL».
Il saggio Il lavoro nella scuola di Antonio Radini, insegnante di matematica nel corso C, illustra uno degli aspetti più specifici della Carta della scuola, che introduceva «il lavoro manuale in tutti gli istituti di educazione di ogni ordine e grado, quale parte integrante dei programmi di studio, accanto alle altre discipline». C’era un misto di populismo retorico e di scaltrezza demagogica classista in questo concetto vago e generico del lavoro, come attività manuale e pratica. In realtà non c’è un «lavoro», anche se Bottai si sforzava di precisare che si trattava di «lavoro produttivo», ci sono tanti lavori, tante abilità, tante mansioni. E alla ricerca di una definizione «schiere di pedagogisti e di filosofi, da De Ruggiero a Volpicelli, da Mazzetti a Valitutti, venivano incaricati di produrre la nuova ideologia della ‘scuola del lavoro’» — come scrive Barbagli(81), con esplicito riferimento al volume miscellaneo Il lavoro produttivo nella Carta della Scuola (del 1940). Il prof. Radini, consapevole della difficoltà di uscire dal generico, svolge il suo tema con ampie citazioni di addetti ai lavori, ma dovendo tentare di precisare ‘come’ si sarebbe dovuto operare annaspa in una serie di congetture: si potrebbe andare nelle «officine esistenti presso le scuole professionali», oppure «per esempio [significativo il «per esempio», come attestato dei dubbi e delle incertezze] sarebbero utili lavori riguardanti la coltivazione della terra [...], nonché lavori di falegnameria, di meccanica, di tipografia e di arti grafiche. Per le alunne [...] il lavoro più appropriato è quello tipicamente femminile come il ricamo, il cucito, di sartoria, di giardinaggio nonché di legatoria di libri e di economia domestica e via dicendo».
Le due ‘Carte’ di Alfonso Comaschi riprende il Leitmotiv, presente del resto nella consapevolezza di Bottai e reso esplicito da innumerevoli sue dichiarazioni, della complementarità della politica del lavoro e della scuola in quello che egli precisa essere «un deciso superamento di tutte le forme di liberalismo». Però poi il discorso torna alla retorica: «E vedremo così (e quanto bene farà in tutti i sensi) i nostri licealisti imparare ad amare la lima e la vanga, per bocca ed esempio dei loro camerati operai e contadini [...]».
Segue lo scritto L’insegnamento religioso nello spirito della Carta della scuola di mons. Giovanni Urbani, il futuro patriarca di Venezia, il quale non può non manifestare la sua soddisfazione per l’impostazione che la Carta della scuola dava non tanto e non solo all’insegnamento della religione quanto a tutte le problematiche dell’educazione che si sintonizzava sulla concezione cattolica dei rapporti tra la scuola e la famiglia.
Infine chiude la piccola raccolta di saggi un articolo di Teresa Ponticaccia, Ancora in tema di tirocinio, che loda quanto indicato nella sedicesima Dichiarazione della Carta della scuola che stabilisce per i diplomati degli istituti magistrali un anno di pratica nelle scuole elementari.
Ma la scuola veneziana non è solo quello che appare dagli scritti ufficiali, di persone che (quasi sempre in buona fede in quanto convinte per ceto e orientamento mentale della bontà della «causa fascista») intendono bruciare qualche granello d’incenso alle superiori autorità. Essa conserva un atteggiamento che Mario Isnenghi(82) ha definito come un «tentativo di adeguarsi a un modello tradizionale ed ‘alto’ di professore studioso in proprio». Egli dice questo dei professori del «Marco Foscarini» alla fine dell’Ottocento, ma la si può riconoscere come una caratteristica costante dei professori non adeguatamente gratificati dall’attività docente, ed è una caratteristica che si accentua nel momento in cui il regime fascista diventa più invadente e oppressivo. E significativa a questo proposito risulta essere la lunga recensione di Francesco Rossi (latino e greco al Liceo «Marco Polo») al libro di Mimmo Sterpa, Educazione politica(83), pubblicata sulla rivista «Ateneo Veneto» del 1942(84), dove si parla della Carta della scuola senza mai nominare il suo autore, Bottai, e senza mai pronunciare la parola «fascismo», si sospende il giudizio sulla Carta, di regola universalmente osannata, in attesa dei provvedimenti legislativi che dovranno darne attuazione («Nasce la nuova Riforma, sicuramente non del tutto è nata la nuova scuola. Sicuramente invece sono nati, dentro e fuori gli edifici scolastici, dubbi, perplessità, difficoltà»), e si finisce con la richiesta di una «educazione alla competenza» e di «lotta contro l’incompetentismo, cioè contro il genericismo, la superficialità, il dilettantismo, l’improvvisazionismo, alcuni fra i mali che affliggono i popoli», ed è solo questa «educazione alla competenza», che potrebbe dare ai giovani una «coscienza politica solida» e rendere il paese «più d’ogni altro padrone dei suoi destini» e sottratto «al pericolo d’essere tosto o tardi rimorchiato». Questo professore, «che dalla sua cattedra di materie classiche trascinava i discepoli all’amore della libertà attraverso i testi della letteratura e della filosofia greca»(85), indicava ai colleghi e agli italiani tutti la strada della opposizione morale al fascismo.
Nel 1938, dopo una sordida campagna propagandistica orchestrata al fine di preparare l’opinione pubblica e organizzare un consenso che in verità non ci fu, il regime fascista mostrò il suo vero volto con le persecuzioni razziali che in qualche modo rappresentano la logica conseguenza dell’esasperato nazionalismo che ne costituiva il nucleo ideologico fondamentale. La scuola fu il banco di prova di questi provvedimenti e in un primo momento l’aspetto più appariscente e significativo. Il decreto legge 5 settembre 1938 aveva escluso alunni e insegnanti ebrei dalle scuole pubbliche: gli insegnanti ebrei furono messi d’autorità in pensione. Successivamente il 23 settembre fu emanato un decreto legge che regolamentava l’istruzione elementare dei fanciulli di razza ebraica. I programmi erano quelli della scuola di Stato, tolto naturalmente l’insegnamento della religione cattolica. L’impegno organizzativo ricadeva sulle comunità, anche se le spese erano a carico dello Stato, dato che l’istruzione elementare era obbligatoria. Naturalmente le interpretazioni poi erano sempre restrittive. Uno scambio di lettere tra il commissario governativo della comunità israelitica Aldo Finzi(86) e il provveditore agli studi di Venezia Oreste Rossi(87) segnala il rifiuto di quest’ultimo a concedere una terza insegnante elementare oltre alle due regolarmente assegnate, con una popolazione scolastica di oltre 80 scolari. Più difficoltosa fu l’organizzazione di una scuola media: «Occorrerà, infatti, un anno per allestire l’edificio al Ponte Storto e installarvi la Scuola media, giusta il progetto dell’ing. Angelo Fano (che sarà presto inviato al confino per antifascismo)»(88), per accogliere i 74 giovani ebrei studenti in scuole di diverso ordine. Il 5 gennaio 1939 veniva approvato un progetto di scuola media ebraica parificata, ma non si consentiva di intitolarla alla memoria della medaglia d’oro Roberto Sarfatti, perché, scriveva il federale Ludovico Foscari, «tale iniziativa si presterebbe ad essere considerata — come effettivamente può darsi sia — una ignobile speculazione»(89). Negli anni della guerra la condizione degli ebrei a Venezia, come in Italia e come in tutta Europa, andò sempre più aggravandosi, finché il 30 novembre 1943 alle ore 21 la radio annunciò l’ordine di arresto e di sequestro dei beni per tutti gli ebrei italiani. Era cominciata una spaventosa caccia all’uomo. Nella notte fra il 7 e l’8 dicembre, mentre 105 ebrei adulti fra uomini e donne venivano rinchiusi nel carcere di S. Maria Maggiore, 19 ragazzi fra i tre e i quattordici anni venivano rinchiusi sotto scorta in tre diversi istituti per minori.
Il 1° giugno 1945, un mese appena dopo la Liberazione, riapriva in Ghetto vecchio la scuola elementare con 18 bambini; pochi giorni dopo riapriva l’asilo con 17(90). Il terribile incubo col suo atroce strascico di lutti era finito.
La seconda guerra mondiale non aveva portato a Venezia l’immane quantità di lutti e rovine che portò ad altre, infinite, città del mondo. La vita della scuola non fu perciò eccessivamente turbata e anche la fine del regime fascista non determinò grandi mutamenti. Mestre invece subì disastrosi bombardamenti con vittime e danni. Alla fine del conflitto risultava distrutto il 10% del suo patrimonio edilizio. E la realtà della scuola mestrina continuava a essere del tutto inadeguata. Mestre risentì in maniera grave dell’intensificarsi dei bombardamenti. E quando a novembre-dicembre cominciarono a fioccare le allarmate proteste dei genitori che avrebbero voluto poter riaccompagnare a casa gli alunni che durante gli allarmi aerei erano trattenuti forzatamente a scuola, le preoccupazioni più gravi erano naturalmente proprio per Mestre, dove ci si pose l’interrogativo se fosse o meno il caso di riaprire le scuole.
I disagi della scuola veneziana non furono quindi più gravi di quelli di tutte le altre città d’Italia: i due mesi di vacanza natalizia nel 1942-1943, dal 15 dicembre al 15 febbraio, la chiusura anticipata delle scuole il 20 maggio e la tardata riapertura all’8 novembre. Anzi il cronista del «Gazzettino» l’11 febbraio del ’43 commentava sornione, a proposito della chiusura invernale, che «questi due mesi daranno elementi preziosi per quella valutazione delle capacità del carattere del giovane secondo lo spirito della carta della scuola».
La presenza nella scuola veneziana di un esponente attivo del P.F.R. (Partito Fascista Repubblicano), come il preside del «Marco Foscarini» Enrico Santoni, membro della consulta federale del P.F.R. e presidente dell’Istituto nazionale di cultura fascista, sezione della provincia di Venezia, non riuscì determinante nella vita della scuola. Anzi, quando, col 1° ottobre del ’44, i presidi Da Rios del «Foscarini» e Zolli del «Marco Polo», per aver rifiutato il giuramento di fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana, furono invitati a chiedere la pensione e allontanati d’autorità dai loro istituti mentre al «Foscarini» subentrava appunto il prof. Santoni, gli alunni protestarono con uno sciopero e relativo picchettaggio, e il preside Santoni chiamò la polizia. Un episodio significativo dell’atteggiamento di ‘resistenza’ ormai vivo e presente nella scuola veneziana si verificò nella primavera del ’44, quando ad opera di giovani studenti furono affissi all’interno delle aule dei due licei veneziani manifesti inneggianti all’Italia libera e scritte «morte ai fascisti, libertà ai popoli»(91).
Vittima del terrorismo squadrista fu un uomo di scuola, il maestro Ubaldo Belli, «mite attivista cattolico», ucciso con altri cinque cittadini innocenti la notte del 7 luglio 1944 nel corso della rappresaglia compiuta «secondo la proporzionale tedesca di dieci contro uno» dalla feroce banda di Ernani Cafiero per vendicare l’uccisione del maresciallo Bartolomeo Asara, «zelante mastino procacciatore di reclute per l’esercito di Salò»(92).
E intanto uomini della scuola veneziana di diversa età e di diverso credo politico, come Giovanni Ponti, che sarà il primo sindaco di Venezia dopo la Liberazione, Agostino Zanon Dal Bo, Francesco Semi, Sandro Gallo, Mario Todesco, Primo Visenti, Pio Malgarotto, Paolo Zenoni Politeo, Armando Faganelli, Lino Moretti, Elena Bassi, Franco Gaeta, si univano a gruppi di cittadini di diversa estrazione sociale, acceleravano gli incontri e approntavano strutture organizzative, davano vita alla Resistenza e creavano le premesse per l’insurrezione finale.
Ma la guerra fu solo la causa occasionale del grave ritardo nell’istituire nuove scuole e nel realizzare un istituto tecnico industriale che potesse fornire alle industrie di Porto Marghera quadri intermedi, la cui mancanza era stata lamentata, come abbiamo visto, fin dal 1926 da Giuseppe Dell’Oro. Ciò è dovuto a scelte politiche che rispecchiano il diffuso atteggiamento di incomprensione quando non di insofferenza nei confronti della cultura tecnica e scientifica (il «vile meccanico» di manzoniana memoria), un atteggiamento che ad onta delle tradizioni sopra illustrate tocca in parte anche la classe politica veneziana (fermo restando che i poteri di intervento delle autorità locali in materia di istruzione erano ormai limitatissimi), tant’è vero che in Italia nell’anno scolastico 1938-1939 c’erano solo 33 istituti tecnici industriali (due anni prima erano 27) a fronte di 150 istituti tecnici commerciali e per geometri, 227 licei classici, 56 licei scientifici, 149 istituti magistrali.
La prima scuola superiore di Mestre, che nel ’39 arriva a sfiorare gli 80.000 abitanti, fu il liceo classico. Il nuovo edificio veniva inaugurato l’8 dicembre del 1940: nel 1931-1932 era stata aperta a Mestre una sezione staccata del «Marco Foscarini», il 12 settembre 1935 il ginnasio diveniva autonomo, e con regio decreto 17 agosto 1941 veniva istituito il nuovo liceo, intitolato a «Raimondo Franchetti».
Solo il 27 ottobre 1941, in piena guerra, fu aperto quello che, inizialmente intitolato a «Giuseppe Volpi di Misurata», assumerà poi l’intitolazione di Istituto tecnico industriale statale «Antonio Pacinotti». A Marghera nei locali provvisori del Laboratorio Scuola per maestranze dell’Istituto Veneto del Lavoro trovarono posto fin dal primo anno ben 96 alunni iscritti alle classi prime. L’incarico di organizzare e dirigere l’istituto fu conferito all’ing. Giuseppe Carro Cao di Pisa coadiuvato dall’ing. Carlo Zuccante, che gli sarebbe succeduto nella presidenza fino alla morte avvenuta prematuramente il 12 agosto 1968. Il 7 aprile 1944 l’edificio di Marghera fu distrutto da un bombardamento e l’istituto si trasferì a Venezia occupando i locali di palazzo Carminati a S. Giacomo dell’Orio, dove rimase fino al 1952 quando fu inaugurata una prima ala dell’edificio che ancor oggi lo ospita, quella est. Nel 1945 si ebbero i primi diplomati: 18 periti elettrotecnici e 5 meccanici, tutti maschi. L’anno successivo arrivarono al diploma anche i primi 6 periti chimici. Nel 1948 nasceva anche la sezione serale che dal 1959 ebbe la durata di sei anni in luogo dei cinque dei corsi diurni. La sezione metallurgici ebbe i suoi primi diplomati nel 1949 e nel 1964 i primi periti elettronici. Nel ’56-’57 l’istituto contava ben 1.074 alunni e nel ’59 fu completato l’edificio con l’ala che ne costituisce la facciata principale. Negli anni Sessanta per volontà e impulso del preside Zuccante il «Pacinotti» riuscirà a essere soprattutto una scuola moderna con un suo particolare clima di impronta aziendalistica: per esempio, l’inizio e la fine delle lezioni era segnato dal suono della sirena, le punizioni degli alunni consistevano in ore di servizio nelle officine; a creare questo clima contribuiva anche tutta una serie di attività parascolastiche, dal turismo scolastico alle attività del gruppo sportivo, dall’allestimento di spettacoli teatrali alla creazione di un giornalino d’istituto, all’esistenza di servizi: fin dal 1953 fu costituita una Associazione scuola-famiglia ed esisteva un attrezzato laboratorio di psicotecnica che oltre a servizi di orientamento scolastico e professionale, e selezione attitudinale anche per conto terzi, svolgeva una efficace opera di consulenza e assistenza agli alunni in difficoltà scolastica. Erano poi funzionanti strutture come il laboratorio fotografico, un osservatorio meteorologico, una ricca biblioteca, sussidi audiovisivi, un’aula magna attrezzata a cinema, due palestre e un campo sportivo.
Dal «Pacinotti» in piena espansione (2.357 alunni nell’anno scolastico 1967-1968) nacquero molti degli istituti tecnici industriali del Veneto, dapprima sue sedi staccate che diventano autonome, a Pordenone, Treviso, Chioggia (dove era istituita la sezione di telecomunicazioni, che diverrà autonoma nel 1961 e intitolata ad Augusto Righi), Conegliano, Mirano (il «Ponti») e a Venezia nel 1967. Questa sezione veneziana, che inizialmente ospitava il biennio, avrà nel ’78 la sua autonomia, assumendo il nome di «Fermi», dopo essere stato per molti anni succursale dello «Zuccante». Al preside Zuccante fu infatti intitolato un anno dopo la sua morte l’istituto tecnico industriale allogato nell’edificio di via Baglioni, da lui pensato per ospitare il biennio, che accolse invece la sezione elettronici alla quale fu aggiunta la sezione programmatori ed ebbe da subito la sua autonomia.
Lo sviluppo scolastico continuava soprattutto nella terraferma, dove l’incremento demografico risultava più sostenuto, ma sempre con gravi ritardi. Nel 1956 nasce un istituto professionale per l’industria e l’artigianato, il «Volta», nella sede dei corsi di avviamento professionale in corso del Popolo, mentre un secondo istituto professionale per l’industria e l’artigianato nascerà per divisione del «Volta» nei primi anni Ottanta.
Accanto al vecchio Istituto professionale «Bandiera e Moro» a indirizzo commerciale (che a seconda delle riforme assumerà denominazioni diverse, da Scuola professionale commerciale secondo la dizione della Carta della scuola di Bottai a Scuola secondaria statale di avviamento professionale commerciale, fino a diventare Scuola media statale a seguito della riforma che istituiva la scuola media unica nel 1963) nasceva nel ’63 una Seconda scuola secondaria statale di avviamento professionale commerciale dapprima con direzione in via Costa e due succursali ad Altobello e in via Piave, poi con direzione in località Altobello. Nel ’66 avremo il primo istituto professionale di Stato per il commercio con sede in via Dante che successivamente darà luogo all’istituto professionale di Stato per il commercio «Luigi Luzzatti» e al «Mozzoni».
A Venezia e a Mestre non era mai esistito un istituto statale per geometri. Generazioni di geometri si sono formate nell’Istituto legalmente riconosciuto «Giuseppe Parini» di via Torre Belfredo. Solo nel 1961 nascerà un istituto tecnico commerciale e per geometri di Stato con sede in via Fratelli Bandiera a Marghera che assumerà la denominazione di «Foscari» nel ’68; l’Istituto si articolerà in numerose succursali, tenendo la presidenza nella sede di via Cattaneo, che poi, una volta che la sezione geometri avrà ottenuto l’autonomia nel 1974, diventerà la sede dell’Istituto tecnico per geometri «Giorgio Massari», mentre il «Foscari» si sistemerà in via Vicinale in attesa di passare nel ’77 nell’attuale sede di via del Miglio. Intanto, a poca distanza da via del Miglio, in via Muratori veniva istituito un secondo istituto tecnico per ragionieri che sarà intitolato ad Antonio Gramsci e che poi si trasferirà in via Perlan alla Gazzera.
Il liceo scientifico di Mestre intitolato a Giordano Bruno nasce solo nel 1970, mentre il secondo liceo scientifico intitolato al matematico padovano Morin, che sarà sistemato in località Gazzera, accanto all’istituto tecnico commerciale «Gramsci», nasce nel ’78.
Nel ’67 nasce un istituto magistrale statale Venezia-Mestre che nel ’69 sarà intitolato al filosofo e pedagogista Luigi Stefanini, docente all’Università di Padova ed esponente italiano del personalismo. Fin dal 1951 la sezione F dell’Istituto magistrale veneziano «Niccolò Tommaseo» era stata sistemata a Mestre, e l’anno dopo anche la sezione D era a Mestre, però dovranno passare quindici anni perché Mestre abbia un istituto magistrale statale.
Nel centro lagunare nel 1964 nascerà l’istituto tecnico per il turismo che più tardi sarà intitolato a Francesco Algarotti.
Per il resto gli anni Cinquanta e Sessanta furono anni statici e tranquilli per la scuola, in Italia e a Venezia, anche per il persistente quanto inopportuno immobilismo ministeriale. Da segnalare nella seconda metà degli anni Cinquanta la nascita di un giornale studentesco, «Il Gatto a Nove Code», redatto prevalentemente da studenti del «Marco Polo» e del «Foscarini» fra il 1956 e il 1958, di carattere umoristico satirico, ma estremamente bonario; qualche anno dopo, dal ’59 al ’62, sempre per iniziativa degli studenti si pubblicò «Il Volto», una vera e propria rivista culturale di ottimo livello: dodici fascicoli per sedici numeri, al quale fece seguito dal ’65 «Angelus Novus».
Ai vertici della scuola veneziana dopo Giovanni Gambarin, insigne studioso, provveditore agli studi nell’immediato dopoguerra, e dopo Mario Muccini, autore di un buon libro sulla Grande guerra e di un romanzo non spregevole, Il giorno della civetta, provveditore agli studi di Venezia fu Mario Tavella, un calabrese energico e competente, temperamento sanguigno, che resse la scuola con piglio autoritario, ma anche con umanità e buon senso, in un’epoca in cui ormai i margini di discrezionalità dei provveditori erano limitati da normative procedurali estremamente vincolanti. Nelle scuole cittadine, al «Marco Polo» andò in pensione il mitico preside Eugenio Zolli e dopo due anni di interregno, con Carlo Grimaldo preside incaricato, venne da Treviso nel 1950 il preside Antonio Schiavon, uomo di raffinata cultura classica, che reggerà il liceo per un quarto di secolo, attorniato da un’ottima équipe di docenti, Francesco Rossi, Armando Scutari, Eugenio Bacchion, Sante Casellato, mentre il «Marco Foscarini» col preside Pareschi annovera personalità della cultura del livello di Tullio Roffaré, Enrico Turolla, Antonio Benzoni, Agostino Zanon Dal Bo, filosofi come Giovanni Tuni e Giovanni Holzhauser; allo scientifico insegnò Francesco Semi.
Come per la maggior parte dei Comuni d’Italia, la politica scolastica del Comune di Venezia era soprattutto impegnata nell’edilizia, sia con nuove edificazioni nella terraferma, sia con l’adattamento di edifici preesistenti soprattutto nel centro storico.
Ma a mano a mano che passava il tempo e le esigenze della società civile si trasformavano, sempre più si avvertiva l’insufficienza della realtà della scuola, e la sua inadeguatezza alle nuove esigenze della società civile diventava sempre meno sopportabile.
Fino all’anno 1968 «contestazione» era termine poco usato, una parola dotta, per significare la critica e il rifiuto di qualcosa. Nel mondo della scuola la parola era in uso da gran tempo solo nell’espressione «contestazione di addebito», il primo atto di un procedimento disciplinare, quando il capo servizio (direttore o preside) formula una serie di accuse a un dipendente e lo invita formalmente a discolparsi. Adesso, in quel marzo del Sessantotto erano gli studenti per lo più, ma a essi si associarono ben presto le famiglie e una certa opinione pubblica, a formulare le loro contestazioni alla istituzione scolastica in primo luogo e poi a tutte le altre istituzioni, ma soprattutto nei primi momenti anche agli uomini della scuola, e naturalmente soprattutto a coloro che a torto o a ragione ritenevano di dover difendere quella istituzione. La contestazione era sorta e si era rapidamente diffusa in tutta Italia nei primi mesi del Sessantotto, pur con tutte le suggestioni che poteva recepire da oltralpe e da oltreoceano, per l’opposizione al progetto di riforma universitaria nr. 314. Essa dilagò per tutte le scuole di ogni ordine e grado. La mattina del 7 marzo a Mestre gli studenti di tutte le scuole disertarono le lezioni e diedero luogo ad una grande manifestazione in piazza Ferretto. Lo sconcerto di insegnanti e presidi fu grande. I più intelligenti cercarono nei giorni successivi di giocare di anticipo. Al «Pacinotti» per esempio da tempo il preside Carlo Zuccante aveva cercato di istituire un organismo rappresentativo degli studenti, senza riuscirci. Fu lui a convocare un’assemblea degli studenti nel cortile della scuola qualche giorno dopo per cercare di dar vita a questo organismo che nella valutazione del momento ci si illudeva potesse contenere l’impetuoso moto di protesta. E «Il Gazzettino» del 31 luglio 1968 intitolava Riformano la scuola senza contestazioni. Ma il movimento era ormai dovunque incontenibile e incontrollabile. E gli insegnanti più giovani o quelli, che allora non erano molti, che si riconoscevano in posizioni politiche di sinistra, ben presto manifestarono pubblicamente il loro consenso col moto degli studenti, mentre non mancarono insegnanti e presidi fino a quei giorni di sinistra che cessarono di esserlo una volta che sul posto di lavoro vedevano compromessa la loro autorità e il loro prestigio (ma talvolta la loro dignità). I vecchi sindacati S.N.S.M. (Sindacato Nazionale Scuola Media) e S.A.S.M.I. (Sindacato Autonomo Scuola Media Italiana) entrarono in crisi: nacquero i Sindacati Scuola Confederali e altri sindacati autonomi (come lo S.N.A.F.R.I., Sindacato Nazionale Autonomo Fuori Ruolo Insegnanti) all’insegna di un certo spontaneismo. I grandi eventi della scuola veneziana sono ancora una volta, ma più di una volta, quelli di tutta la scuola italiana. La grande espansione scolastica conseguente all’istituzione della scuola media unica (legge 31 dicembre 1962, nr. 1859), che significò l’estensione dell’obbligo scolastico, in concomitanza col boom demografico: quella insomma che fu correttamente chiamata la scolarizzazione di massa, fu la premessa del Sessantotto, in quanto rese manifesta l’insostenibilità di una scuola che fino a quel momento aveva perseguito come obiettivo più o meno esplicito la formazione di élites, che poi tali alla fin fine non erano.
«Cambiare la scuola per cambiare la società». Questa scritta si leggeva sui muri di una scuola di Mestre. Essa riassumeva la grande illusione di quegli anni. I decreti delegati, che ne rappresentano la risposta legislativa, nella loro pochezza sono il segno più evidente del fallimento dell’impossibile obiettivo. La società non si è trasformata, non almeno nel senso voluto dai più in quegli anni, e la scuola non solo non ha saputo soddisfare le esigenze della società in trasformazione, ma non ha nemmeno garantito a se stessa un minimo di efficienza e di funzionalità. Però questa grande illusione era il segno e il prodotto dell’enorme disagio.
I frutti del Sessantotto, anzi dei decreti delegati, furono quindi piuttosto modesti, anche se non privi di valore. Non è da sottovalutare l’istituzione degli organi collegiali: soprattutto dei consigli d’istituto, perché invece i consigli scolastici distrettuali e provinciali sono organi pletorici, con competenze puramente consultive, che spesso finiscono col ritardare l’esecuzione delle iniziative; i consigli d’istituto, anche se provvisti di poteri estremamente limitati, consentono quanto meno un certo controllo dell’utenza sull’operato dalla scuola. A Venezia in quei mesi del 1975 ci fu un grande fervore in vista delle votazioni per gli organi collegiali: incontri nelle case, riunioni nelle scuole e in altri luoghi pubblici, animati dalla speranza, presto delusa, di poter cambiare qualcosa; qualcuno pensò anche di iniziare da questi organismi una carriera politica peraltro assai improbabile. Inoltre un altro dei decreti delegati, il d.p.r. 419/74, introdusse il concetto di sperimentazione, che consentiva, previa autorizzazione ministeriale, di realizzare delle forme di scuola che si configuravano come diverse e in un certo senso alternative rispetto alle istituzioni normali. All’Istituto per geometri «Massari» di Mestre furono introdotti insegnamenti nuovi come la sociologia e l’agraria, ma soprattutto fu collaudata una nuova forma di organizzazione del lavoro scolastico mutuata dalla strategia del Team teaching a moduli anziché a classi: un modulo corrispondeva a due classi e a seconda delle caratteristiche delle materie si faceva scuola ora al modulo intero ora alle singole classi o a gruppi minori. All’Istituto magistrale «Stefanini», sempre di Mestre, fu attuato a partire dal 1975 un progetto di scuola a biennio unitario con quattro indirizzi di triennio: a) linguistico-letterario moderno, b) socio-pedagogico, c) giuridico-economico-amministrativo, d) scientifico. E presso il Conservatorio di musica «Benedetto Marcello» di Venezia sorse, con l’espediente della sperimentazione, il liceo musicale, non previsto dagli ordinamenti, che si dimostrò di grande efficacia formativa per i giovani musicisti. Inoltre nel 1978 nasceva nel Veneto, come in tutte le altre regioni, l’I.R.R.S.A.E. (Istituto Regionale per la Ricerca, la Sperimentazione e l’Aggiornamento Educativi) previsto anch’esso dal d.p.r. 419, che suscitava notevoli speranze, eccessive, anche in questo caso, rispetto alle effettive competenze dell’istituto. Per quanto riguarda la ricerca essa fu piuttosto modesta, soprattutto nei primi anni di vita dell’istituto, e si esaurì sostanzialmente in un convegno sulla didattica dell’italiano nel dicembre del 1883. Per la sperimentazione gli I.R.R.S.A.E. furono ridotti dalle cautele del Ministero a essere un inutile strumento intermedio di istruttoria delle richieste avanzate dalle singole scuole per esprimere pareri obbligatori ma mai vincolanti di diritto e di fatto. Qualcosa di più fu fatto nel campo dell’aggiornamento degli insegnanti, dove però l’I.R.R.S.A.E. del Veneto (come — è probabile, anzi sicuro — gli I.R.R.S.A.E. delle altre regioni) si trovò esposto alla concorrenza di chiunque, perché chiunque può in Italia fare aggiornamento degli insegnanti purché trovi clienti. L’I.R.R.S.A.E. del Veneto promosse a Venezia corsi di informatica per insegnanti di lettere (un’audacia in quegli anni), corsi brevi di archivistica e diplomatica, cercando così di realizzare forme di intervento innovative e stimolanti.
1. Il senato aveva affidato lo studio del problema ai deputati ad pias causas che avevano competenza in materia di beni ecclesiastici confiscati (non ai riformatori dello Studio di Padova, la magistratura preposta all’istruzione) e che si diedero come consulente Gasparo Gozzi: il 29 aprile 1774 furono inaugurate nei locali che avevano ospitato le scuole dei Gesuiti. Dalle precedenti istituzioni scolastiche veneziane traevano i principi ispiratori, antitetici — secondo Gozzi — a quelli della scuola dei Gesuiti, «Maestri sommi dell’insegnare inutilità con pompose apparenze». Queste Pubbliche Scuole, gestite direttamente dallo Stato, miravano a rispondere a esigenze molto concrete, di efficacia pedagogica mediante la «conoscenza de’ suggetti», e di organizzazione sociale con la «congettura dell’impieghi ai quali probabilmente si volgeranno un giorno». Una scuola professionalizzante quindi, concepita soprattutto per il ceto medio. Cf. Gasparo Gozzi, Sulla riforma degli studi (1770), in Id., Scritti, a cura di Niccolò Tommaseo, I-III, Firenze 1849: II, pp. 297 ss.; Giuseppe Gullino, La politica scolastica veneziana nell’età delle riforme, Venezia 1973; Bruno Rosada, Un capitolo di storia dell’istruzione secondaria. Le ‘Pubbliche Scuole’ a Venezia (1774-1807), «Istruzione Tecnica e Professionale», 19, 1982, nr. 71, pp. 185-193; Id., Gasparo Gozzi tra morale e pedagogia, in Gasparo Gozzi. Il lavoro di un intellettuale nel Settecento veneziano. Atti del convegno, a cura di Ilaria Crotti-Ricciarda Ricorda, Padova 1989, pp. 79-93. Cf. inoltre Antonio Zardo, Gasparo Gozzi e le venete scuole nella seconda metà del Settecento, Firenze 1918; Giuseppe Gullino, Educazione, formazione, istruzione, in Storia di Venezia, VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di Piero Del Negro-Paolo Preto, Roma 1998, pp. 745-799.
2. L’intitolazione avverrà dopo l’annessione di Venezia al Regno d’Italia con r.d. 25 aprile 1867.
3. La continuità è resa manifesta dall’utilizzo di una gran parte dei vecchi insegnanti e dalla sede di S. Caterina situata a poca distanza dalla vecchia sede delle Pubbliche Scuole. La scelta della sede è dovuta al primo direttore del liceo-convitto, Anton Maria Traversi. Giacomo Franceschini, Un secolo di cultura nazionale nel Liceo-ginnasio M. Foscarini, Venezia 1907, p. 2.
4. Fu sistemato a S. Vidal e retto per sei anni dall’abate dott. Tommaso Chelli. La storia del «Marco Polo» nell’Ottocento è la storia dei suoi traslochi: nel 1819 si trasferiva a S. Giovanni Laterano, nel 1827 a S. Procolo (oggi S. Provolo) dove stette fino al 1845, quando tornò a S. Giovanni Laterano. Qui rimase fino al 1853, per ritornare ancora a S. Procolo. Finalmente il 21 luglio 1862 fu trasferito nel palazzo Bollani a S. Trovaso dove si trova ancor oggi. Nel 1818 sotto l’Austria il ginnasio era diventato regio imperiale: le quattro classi di grammatica venivano integrate con quelle di umanità e di retorica e in seguito nel 1861 il corso fu completato con la VII e VIII classe. Dopo l’annessione al Regno d’Italia con r.d. 1° gennaio 1867 il ginnasio liceale assumeva la denominazione di «Marco Polo». Carlo Grimaldo, Cenni intorno ai professori che insegnarono nel Ginnasio Liceo intitolato a ‘Marco Polo’ dalla fondazione dell’Istituto, sin verso la fine del secolo scorso, in Annuario del R. Liceo Ginnasio ‘Marco Polo’ per l’anno scolastico 1923-24, Venezia 1925, e Id., Un’ora fra le vecchie carte del ‘Marco Polo’, in Annuario del R. Liceo Ginnasio ‘Marco Polo’ per l’anno scolastico 1925-26, Venezia 1927.
5. Claudia Salmini, L’istruzione pubblica dal Regno italico all’Unità, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 59-79.
6. Francesco Saverio Zanon, I servi di Dio P. Antonangelo e P. Marcantonio conti Cavanis. Storia documentata della loro vita, I-II, Venezia 1925.
7. Trovò sede dapprima allo Spirito Santo, poi alle Eremite, dove pose stabile dimora. Fu intitolato alla principessa Mafalda di Savoia, e dopo la fine della monarchia a Maria Immacolata. Istituto magistrale dapprima parificato poi legalmente riconosciuto.
8. È da dire però che il liceo napoleonico «non fu prettamente classico. In esso occuparono, invero, il primo posto le materie filosofiche e letterarie, ma il greco vi fu bandito e si studiarono la storia naturale, la chimica, la botanica, l’agraria, il disegno; nelle scuole ad esso preparatorie, cui fu presto dato il nome di ginnasio, la calligrafia; facoltativi la musica, il ballo, ecc.» (Giuseppe Pavanello, Gli studi tecnici a Venezia e l’Istituto ‘Paolo Sarpi’, in Annuario del R. Istituto tecnico e nautico ‘Paolo Sarpi’ in Venezia. Anno scolastico 1930-31 (Anno I Serie III), Venezia 1932, p. 15 [pp. 7-68]).
9. Francesco Saverio Zanon, L’Istituto Cavanis, in Ordini e Congregazioni religiose, a cura di Mario Escobar, Torino 1953, pp. 1137-1144.
10. L’intitolazione è del 1882, su proposta di Pompeo Molmenti, cf. G. Pavanello, Gli studi, p. 47.
11. La scuola reale, pareggiata al politecnico di Vienna e alla scuola reale di Trieste, fu istituita «come scuola modello» (v. Prospetto dell’Imp. Reg. Scuola Superiore Reale e Nautica di Venezia per l’anno 1857-58. Anno IV, Venezia 1858, p. 31) nell’anno 1851 e si divideva in superiore (tre anni) e inferiore, e quest’ultima in completa (tre anni) e incompleta (due anni). «Il locale scelto [per la scuola tecnica] fu quello del Ginnasio Comunale di S. Provolo [S. Procolo]» (G. Pavanello, Gli studi, p. 19); cf. poi ibid., pp. 20-21.
12. G. Pavanello, Gli studi.
13. Cf. Giuseppe Bettanini, L’istruzione nautica a Venezia, in Annuario del R. Istituto tecnico e nautico ‘Paolo Sarpi’ in Venezia. Anno scolastico 1913-14 (Anno I Serie II), Venezia 1914, pp. 3-23.
14. Significativo che durante l’assedio del ’48-’49, presso la scuola tecnica «si attuava quella Sezione di studi nautici, che non era stata ancora concessa dall’Austria, nonostante il desiderio del Comune, il quale aveva comperato Ca’ Foscari per ciò».
15. Più tardi trasformata in scuola media.
16. L’intitolazione avvenne per entrambe nell’ottobre 1877.
17. Cf. Prospetto dell’Imp. Reg. Scuola Superiore Reale e Nautica per l’anno 1855-56. Anno II, Venezia 1856, pp. 39-46.
18. Il nome «Vendramin Corner» è quello di due nobili veneziani «che nel secolo XVII hanno lasciato un legato al Senato Veneto, perché fosse provvisto all’educazione di fanciulle appartenenti a famiglie patrizie decadute; il patrimonio, divenuto col tempo assai esiguo, passò dopo varie vicende, nel 1872, al Comune di Venezia che lo aumentò e, riconoscendo l’utilità pratica della nobile iniziativa, deliberò l’istituzione della Scuola» (Consorzio Provinciale per l’Istruzione tecnica, L’Istruzione tecnica professionale in Venezia e Provincia, Venezia 1936, p. 185). Più tardi diventerà magistero professionale per la donna pareggiato, quindi statale nel 1954, poi nel ’62 scuola tecnica, istituto professionale di Stato. Diventerà quindi, sempre nel 1962, istituto tecnico femminile e nel ’72 passerà dall’antica sede di S. Provolo a quella del palazzo Aliani all’Angelo Raffaele.
19. Annuario della R. Scuola Normale ‘Elena Corner Piscopia’ in Venezia per l’anno scolastico 1922-23 LVI dalla fondazione, Venezia 1923, p. 5.
20. Dal regolamento organico approvato con delibera del 4 marzo 1895.
21. La scuola aveva anche un convitto, che funzionò fino al 1903. Dopo una breve permanenza alle Eremite fu trasferita nel palazzo Flangini a S. Geremia e quindi, preso nel frattempo il nome di scuola normale, fu trasferita nel 1875 nel palazzo Nani in fondamenta Cannaregio e nel 1892 fu intitolata a «Elena Corner Piscopia» a ricordo della prima donna veneziana laureata: Elena Corner Piscopia infatti si laureò in Filosofia a Padova il 25 giugno 1678.
22. Elena Bassi, La Regia Accademia di Belle Arti di Venezia, Firenze 1941; Ead., L’Accademia di Belle Arti di Venezia nel suo Bicentenario 1750-1950, catalogo della mostra, Venezia 1950.
23. Antonio Casellati, Il Liceo Civico Musicale ‘Benedetto Marcello’, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 5, pp. 1-8.
24. Diversa era l’impostazione del governo italiano, e significativo documento ne è quanto scritto, sia pure con specifico riferimento alla istruzione classica, dal ministro Ferdinando Martini nella circolare ministeriale del 10 luglio 1892, nr. 97: «Per quanto si riferisce alle scienze matematiche e naturali, ben comprendono i professori l’opportunità che questi insegnamenti siano tenuti entro i limiti proporzionati alfine per cui nella scuola classica si trovano congiunti con le discipline letterarie […] per contribuire a maturare le menti dei giovani senza ingombrarle e senza togliere soverchio di tempo agli altri studi». Si confrontino queste affermazioni con quanto aveva sostenuto allo stesso proposito un secolo prima Gasparo Gozzi: «Una perpetua grammatica latina fa degli studi la base che consuma la maggior parte dell’età giovanile in un’applicazione di vocaboli e precetti, che non servono all’uso della vita comune per favellare né scrivere; e carica la memoria di regole, di vanità quando si potrebbe guernirla di cognizioni giovevoli ed importanti» (G. Gozzi, Sulla riforma, II, p. 300). Ma l’impostazione di Martini fu quella vincente che presiedette a tutto l’ordinamento scolastico nazionale e ne governò il graduale processo di trasformazione che poi si organizzerà e nazionalizzerà con la riforma Gentile. E diventa tanto più incisivo in quanto si colloca nel quadro di una politica della scuola che mira progressivamente a rendere uniforme la realtà scolastica nel paese sottraendo competenze alle autorità locali, il che accadrà dapprima in forma attenuata con la legge Nasi del 19 febbraio 1903, nr. 45, che nel quadro delle provvidenze a favore del personale docente della scuola elementare limitava le competenze dei Comuni nel settore, poi con la legge Daneo-Credaro del 1911, che peraltro lasciava ai Comuni la facoltà di scegliere se mantenere o meno l’amministrazione della scuola primaria, e infine col decreto 14 settembre 1931 sulle finanze locali, che la trasferirà ai provveditori regionali; resteranno ai Comuni gli oneri dell’edilizia scolastica e dell’arredamento.
25. Luigi Tramarollo, Cenni storici sulle scuole comunali di S. Samuele, Venezia s.a. [ma 1927].
26. Attilio Dusso, Edifici scolastici, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 5, pp. 18-26.
27. Nel 1883 fu aggregato a Venezia il comune di Malamocco e nel 1917 l’area di Marghera (Bottenighi), per cui col censimento del 1911 gli abitanti del comune di Venezia risultarono 161.518, e col censimento del 1921 erano saliti a 179.339.
28. Attilio Dusso, Le scuole elementari a Venezia nell’anno scolastico 1922-23, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 12, pp. 12-16.
29. I primi asili d’infanzia a Venezia erano sorti fin dal 1836 per opera della Pia fondazione degli asili di carità, eretta in ente morale nel 1878, altri il Comune ne aprì in proprio nei quartieri più popolari, a Cannaregio fin dal 1874, a Castello, al Lido, alla Giudecca. Nel 1915 erano accolti 387 alunni, che l’anno successivo salivano a 699, forse perché gli uomini erano partiti per il fronte e molte donne, costrette a trovarsi un lavoro, non erano in grado di accudire i figli.
30. All’anno 1900 risale l’istituzione di ricreatori comunali che dapprima funzionavano solo durante le vacanze estive e dal 1902 anche durante l’anno ogni giovedì. Essi perseguivano «lo scopo di sottrarre gli alunni ai pericoli e alle insidie della strada, di abituarli alla vita sociale, di correggerne le cattive abitudini di contegno e di linguaggio ed allontanarli dalle male compagnie; di rallegrarne l’anima con occupazioni divertenti, di fortificarne armonicamente il corpo, di guidarli costantemente verso il bene ed il bello, suscitando in loro nobili spiriti di emulazione, di colleganza e di solidarietà umana, ed insieme un saldo consapevole amore per il nostro Paese e per tutto quanto è italiano. Essi curano infine il fiorire del sentimento religioso secondo le tradizioni della nostra gente. I mezzi per raggiungere questi scopi vennero indicati fin dal principio dal compianto direttore centrale prof. Lorenzo Bettini, che impartì sagge istruzioni per il funzionamento e compilò programmi ed orari» (Gino Pignatti, Istituzioni scolastiche ed integrative, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 5, 1926, nr. 7, p. 307 [pp. 305-319]).
31. Un interessante esperimento, interrotto dalla guerra e ripreso nel 1920, fu compiuto nel 1912-1913 con l’istituzione di scuole all’aperto ai giardini pubblici e a S. Lorenzo in «un vasto terreno alberato [...]. Alle scuole all’aperto vengono destinati gli alunni delle scuole elementari che, a giudizio dell’Ufficio d’Igiene, risultano più bisognosi di moto e di aria libera. Gli alunni vi sono trattenuti il più possibile e sempre oltre l’orario scolastico normale; durante il periodo delle vacanze estive le scuole assumono carattere quasi esclusivo di ricreatorio. Il Patronato scolastico provvede a tutti gli alunni una sana ed abbondante refezione gratuita a mezzogiorno e prima dell’uscita» (ibid., p. 314). Il Patronato scolastico fu istituito a Venezia nel 1915 a seguito della legge Daneo-Credaro del 1911. Sulle scuole all’aperto v. anche Attilio Dusso, Le Scuole all’aperto del Comune di Venezia, ibid., 2, 1923, nr. 6, pp. 141-156.
32. Nell’Archivio Storico Comunale sono conservati i volumi degli anni 1903, 1905, 1907, 1909, 1912, 1915, 1926. Quest’ultimo numero contiene tra l’altro un pregevole saggio di Attilio Dusso dal significativo titolo L’atto educativo come atto estetico.
33. Giuseppe Dell’Oro, Le scuole professionali ed i laboratori scuola, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 4, p. 19 (pp. 19-23).
34. Emilio Ninni, La nave-scuola marinaretti ‘Scilla’, ibid., 6, 1927, nr. 8, p. 363 (pp. 363-380). Nel 1975 l’istituto «Scilla» diventerà convitto annesso all’istituto professionale di Stato per le attività marinare «Giorgio Cini» e il personale educativo verrà inquadrato nei ruoli dello Stato.
35. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 435 (pp. 381-482).
36. Con la legge 21 luglio 1911, nr. 860 furono istituite sezioni di ginnasio-liceo moderno, che modificavano solo parzialmente l’ordinamento del liceo classico. Il greco era sostituito da una seconda lingua straniera, veniva prolungato di un anno lo studio del francese, e venivano introdotti il disegno, il diritto, l’economia e la geografia fisica e astronomica.
37. Prolusioni e annuarii precedenti; appunti per la bibliografia del R. Liceo Ginnasio ‘Marco Foscarini’, in Annuario del R. Liceo Ginnasio Marco Foscarini, anno scolastico 1923-24, Venezia 1925, p. 18 (pp. 3-33).
38. Notizie storiche sull’Istituto (1812-1924), in Annuario del R. Liceo-Ginnasio ‘Marco Polo’ per l’anno scolastico 1923-24, Venezia 1925, pp. 4-5.
39. «A Venezia si possono contare almeno duecento scontri tra fascisti e guardie regie, cavalieri della morte e guardie regie, socialisti e fascisti e comunisti e fascisti. A causa degli scontri muoiono undici persone, dieci uomini e una donna. Tra loro ci sono dieci lavoratori (ferrovieri, avventizi del porto, operai...) e un solo studente. Quattro sono i fascisti morti (due di loro sono però ex comunisti), uno è socialista e gli altri sono ‘civili’ coinvolti casualmente negli scontri» (Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia. 1919-1922, Padova 2001; v. anche Luca Pes, Il fascismo urbano a Venezia. Origine e primi sviluppi. 1895-1922, «Italia Contemporanea», 38, 1987, nr. 169, pp. 63-84).
40. Armando Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Torino 1957, p. 79.
41. Bruno Rosada, Diego Valeri, in Profili veneziani del Novecento, a cura di Giovanni Distefano-Leopoldo Pietragnoli, Venezia 1999, p. 87.
42. Prolusioni e annuarii, p. 32.
43. Consorzio Provinciale per l’Istruzione tecnica, L’Istruzione tecnica professionale, p. 179.
44. G. Dell’Oro, Le scuole professionali, p. 19.
45. Cf. D.B., La scuola professionale marittima ‘Nazario Sauro’, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 9, pp. 20-24.
46. Istituto Artigianelli S. Gerolamo Emiliani, Venezia s.a. [ma 1929], p. 1.
47. A. Dusso, Le scuole elementari a Venezia.
48. Id., Edifici scolastici.
49. Resa esecutoria con d.l. 26 luglio 1917, nr. 1191.
50. «La convenzione stipulata nel 1917 tra lo Stato, il Comune di Venezia, e la Società Porto Industriale di Venezia, prescriveva, infatti, che in dipendenza della aggregazione del territorio del Comune di Mestre situato a sud della ferrovia Venezia-Mestre-Padova, al Comune di Venezia, questo, avesse ad assumere a propria cura e spese la costruzione, la manutenzione e l’illuminazione delle strade di carattere comunale e delle relative fognature, la distribuzione dell’acqua potabile e gli impianti tutti, concernenti i pubblici servizi nell’ambito della zona destinata alle industrie, ed inoltre che il Comune stesso provvedesse alla sistemazione del Quartiere Urbano annesso alla zona industriale» (Alberto Zaiotti, Lo sviluppo di Mestre nel Comune di Venezia, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 13, 1934, nr. 2, p. 58 [pp. 57-66]).
51. Antonio Rosso, Il nuovo edificio scolastico ‘Filippo Grimani’ a Marghera, ibid., 6, 1927, nr. 3, pp. 91-96.
52. «Quando già una parte del suo territorio naturale e cioè la frazione di Bottenighi, strappata alla palude e alla malaria e fatta il centro della sua nuova vita industriale veneziana, era già stata amministrativamente allegata al Municipio di Venezia», faceva notare A. Zaiotti, Lo sviluppo di Mestre, p. 57.
53. Cit. in Sergio Barizza, Storia di Mestre, Padova 1994, p. 80.
54. Cit. ibid., p. 95.
55. Ibid., p. 81.
56. Ibid., p. 98.
57. Ibid., p. 81.
58. Ibid., p. 88.
59. Ibid., p. 94.
60. Ibid., p. 99.
61. La riforma Gentile dell’ottobre 1923 separò il grado superiore di studi, cioè l’Accademia di Belle Arti propriamente detta, che aveva tre corsi di durata quadriennale di pittura, di scultura e di decorazione, dal grado inferiore, istituendo il liceo artistico, fin da allora di quattro anni, che comprendeva due sezioni, una che aveva lo scopo di preparare ai corsi dell’Accademia di Belle Arti e l’altro che preparava invece allo studio dell’architettura o all’insegnamento del disegno nelle scuole secondarie.
62. È trasparente l’amarezza della direttrice, prof. Laura Marani Argnani, nella stesura delle note della «lunga e gloriosa storia» di quella scuola (Annuario della R. Scuola Normale ‘Elena Corner Piscopia’). La nota Origine e sviluppo della scuola (1867-1913) contenuta nel volumetto, ricca di notizie preziose, si conclude con queste righe esemplari: «E se nella riforma attuale che deve portare una benefica rivoluzione nella Scuola italiana, la Scuola Normale ‘Corner’ fusa colla Scuola Normale ‘Tommaseo’ in un unico Istituto Magistrale, verrà a perdere la sua individualità, ebbene, essa, fiera della sua lunga vita gloriosa e del gran bene compiuto, che ha trovato consenso unanime nella cittadinanza, continuerà, anche nella nuova forma, la sua benefica azione». Non c’è niente di più altero di questa ostentata mitezza e trasparente dissimulazione con cui sottolinea i meriti della «benefica rivoluzione» ed enfatizza lo spirito di obbedienza con cui accetta l’atto autoritariamente arbitrario della chiusura della scuola.
63. Venezia 1926.
64. Di lui dice Mario Isnenghi (I luoghi della cultura, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, p. 250 [pp. 233-406]): «Chi appare più attivamente coinvolto in un sistema di reciproci incroci e rilanci fra attualità o — come potremmo dire — storia in atto e storiografia è il professor Carlo Contessa, capo d’istituto dall’ottobre ’23: fra tutti i presidi-funzionari succedutisi al Foscarini durante il Fascismo, ma più in generale, nel corso della sua lunga vicenda, quello cui meglio si attaglino le caratteristiche dell’intellettuale militante».
65. Discorso tenuto dal Preside Prof. Tullio Ortolani nelle inaugurazioni dell’anno scol. 1926-27, in Annuario del R. Liceo ‘Marco Polo’ per l’anno scolastico 1926-27, Venezia 1928, p. 8 (pp. 7-14).
66. C. Grimaldo, Un’ora fra le vecchie carte, pp. 61-68.
67. Consorzio Provinciale per l’Istruzione tecnica, L’Istruzione tecnica professionale, p. 14.
68. Attilio Dusso, Prime applicazioni dei nuovi programmi scolastici, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 4, 1925, nr. 9, p. 279.
69. «Nella riforma della scuola elementare, Gentile lasciò ampio spazio alle iniziative pedagogiche e didattiche del direttore generale dell’istruzione primaria Giuseppe Lombardo-Radice, che si dedicò al compito con la nobile ambizione che l’aveva sempre animato; grazie a lui l’Italia conobbe l’alba della ‘scuola serena’, fondata sui programmi del 1923, che cercavano di tradurre in atto i principi dell’idealismo educativo. Non tutto era però liberale nella scuola primaria italiana, caratterizzata da un nazionalismo molto spinto. D’altra parte, le speranze suscitate dai metodi e soprattutto dallo spirito che Lombardo-Radice impresse all’insegnamento primario, non potevano dissimulare l’incapacità della riforma di organizzare una vera e propria scuola popolare postelementare. L’introduzione della religione nei nuovi programmi fu infine vista dagli innovatori come un mezzo per rinvigorire nella scuola elementare quella fede che l’enciclopedismo e il decadente scientismo positivista avevano contribuito a spegnere. Ma la scuola si mostrò poco entusiasta di questa nuova materia» (Michel Ostenc, La scuola italiana durante il Fascismo, Bari 1981, p. 59).
70. «Rivista Mensile della Città di Venezia», 4, 1925, nr. 8, pp. 179-180.
71. L’insegnamento del dialetto scomparirà dai programmi nel 1934.
72. M. Ostenc, La scuola italiana, p. 211.
73. È un aspetto particolare del più generale problema «se sia esistita una cultura fascista; o solo afascista; o addirittura, sotterraneamente, e più o meno in pectore, antifascista», v. Mario Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, Torino 1979, p. 9.
74. Cit. in M. Ostenc, La scuola italiana, p. 234.
75. È noto che col r.d. 8 febbraio 1923, nr. 374, il primo in ordine cronologico dei decreti con cui si è realizzata la riforma Gentile, furono soppressi i Provveditorati Provinciali e i loro organi (consiglio scolastico, deputazione scolastica, ecc.) e furono invece istituiti i Provveditorati regionali.
76. Il Provveditorato passerà a Ca’ Tron a S. Stae nel 1935 e vi resterà fino al 1958, quando si trasferirà nel palazzo Papadopoli a S. Polo. Passerà nell’attuale sede di riva de Biasio nel 1985.
77. Scritto in occasione della Mostra didattica regionale che si tenne a Venezia, «voluta dalla genialità e dalla tenacia del R. Provveditore Gaetano Gasperoni»: un avvenimento indubbiamente interessante, al quale parteciparono tutti gli istituti scolastici della regione «con una larga documentazione della loro multiforme attività», e Attilio Dusso (Le scuole elementari di Venezia alla Mostra didattica regionale, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 6, 1927, nr. 3, pp. 75-90) ci dà un’ampia e minuziosa rassegna con riferimento alla presenza delle scuole elementari di Venezia, dopo un brevissimo cenno iniziale alla presenza anche delle scuole superiori.
78. «La Carta della Scuola prevedeva a livello inferiore la scuola primaria articolata in due cicli: la scuola elementare triennale e la scuola del lavoro biennale. Il secondo ciclo doveva essere infatti ‘sotto l’insegna del lavoro’ in modo da socializzare precocemente i futuri lavoratori manuali al loro ruolo impedendo il formarsi di aspirazioni poco realistiche. Al termine della scuola primaria vi erano tre possibilità: la scuola media, la scuola artigiana e la scuola professionale. La scuola media (triennale) era l’unica che permetteva l’accesso agli studi secondari e di qui a quelli superiori. La scuola artigiana (triennale) tipicamente rurale o adatta ai piccoli centri, che mirava alla preparazione degli operai, degli artigiani e dei contadini, doveva ‘radicare nei fanciulli l’attaccamento alle tradizioni di onestà e di lavoro della famiglia italiana’, far interiorizzare ‘l’attaccamento al mestiere’, abituando al lavoro manuale e instaurando il principio della ‘scuola come officina-bottega’. Queste scuole dovevano sorgere nello stesso plesso scolastico delle elementari e avere come insegnanti dei maestri. La scuola professionale (triennale), che poteva essere completata da una scuola tecnica biennale, doveva invece sorgere nei grossi centri urbani e mirava alla formazione di operai specializzati o di impiegati con un basso livello di qualificazione. Aveva come insegnanti non maestri ma professori laureati. Ciò che più conta comunque è che, pur rivolgendosi a due strati diversi all’interno delle classi subalterne e pur presentando di conseguenza una serie di caratteristiche diverse (si pensi solo al diverso status degli insegnanti), la scuola artigiana e quella professionale avevano in comune una cosa fondamentale: quella di essere entrambe scuole fine a se stesse, scuole di scarico» (Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna 1974, pp. 295-296).
79. G.I.L. sta per Gioventù Italiana del Littorio. Istituita nell’ottobre del 1937 riconduce tutte le organizzazioni giovanili alla diretta dipendenza del Partito Nazionale Fascista, per cui i federali provinciali ne assumevano la direzione. Nel 1940 se ne accentuò la finalità di preparazione militare e si determinarono le modalità per una completa fusione tra G.I.L. e scuola; di conseguenza anche l’Opera Nazionale Balilla, istituita ancora nel 1926 con l. nr. 2247, continuava la sua attività entro quest’ambito. Spiega Armando Michieli, Annuario dell’Istituto Magistrale ‘Niccolò Tommaseo’ dell’anno 1938-39. XVII° E.F., Venezia 1940, p. 23: «Nel 1923, istituito l’Ente Nazionale di Educazione Fisica, si iniziò il movimento per un insegnamento più completo dell’Educazione fisica nella scuola. Trasformato quest’Ente nell’Opera Nazionale Balilla, le organizzazioni del Partito e la scuola si avvicinarono sempre più».
80. Ibid., p. 24.
81. M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale, p. 296.
82. M. Isnenghi, I luoghi della cultura, p. 242.
83. Firenze 1941.
84. Alle pp. 118-121.
85. Giovanni Giavi [Gianni], Gli anni oscuri, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, p. 161 (pp. 151-167).
86. Era stato sottosegretario all’Interno nel governo Mussolini e finirà assassinato dai nazisti nell’eccidio delle Fosse Ardeatine (Angelo Ventura, L’atteggiamento degli ebrei italiani alla vigilia delle leggi razziali, in Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una comunità tra persecuzione e rinascita, a cura di Renata Segre, Venezia 1995, p. 21 [pp. 20-26]); rimane commissario governativo della comunità veneziana fino al 16 giugno 1940, quando viene eletto presidente della comunità il prof. Giuseppe Jona.
87. Gli ebrei a Venezia, pp. 51-52.
88. Ibid., p. 111.
89. Ibid., p. 114.
90. Ibid., p. 207.
91. Lucio Rubini, Prima del coprifuoco (ricordi del ‘Foscarini’ e del ‘Marco Polo’), in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 531-533.
92. Ugo Facco De Lagarda, Il morto che cammina. La notte del 7-8 luglio 1944, ibid., p. 219 (pp. 219-224).