La Scuola Superiore di Commercio
Venezia austriaca, Venezia italiana. Era il 7 novembre 1866 quando re Vittorio Emanuele II giungeva in città dopo che un plebiscito pressoché unanime aveva sanzionato l’unione del Veneto all’Italia sotto la monarchia costituzionale dei Savoia. Il sovrano fu accolto dalle riverenze ossequiose dei notabili, dalle ovazioni del popolo, dal suono delle campane. Un’immagine emblematica dell’evento: la fastosa serata di gala al Teatro la Fenice finalmente riaperto dopo la chiusura attuata contro gli austriaci nel ’59. Re Vittorio ripartiva il 14 novembre dopo aver decorato la città con la medaglia d’oro al valor militare in memoria dell’assedio del ’49 e aver nominato alcuni senatori. Restavano i veneziani in compagnia dei loro problemi che non erano né pochi né nuovi.
Adesso Venezia è soltanto un capoluogo della provincia italiana. L’eredità del glorioso e celebrato passato repubblicano è sempre nostalgicamente viva ed è pietra di paragone nelle discussioni intorno alla decadenza politica ed economica della città. Ma se quella politica era irreversibile, la decadenza economica, si affermava, poteva essere vinta. Lo stato delle cose era di fatto precario e reclamava iniziative incisive, non effimere. La smobilitazione dell’Arsenale compiuta dagli austriaci per favorire Trieste, la fragilità della struttura produttiva e commerciale, l’insufficienza dei servizi pubblici, le mediocri condizioni dei lavoratori, le migliaia di poveri riconosciuti ufficialmente come tali; tutto questo costituiva un nodo robusto di aspettative migliorative che chiedevano di essere appagate con urgenza.
Dall’unificazione al ’99 il governo cittadino fu diretto dai moderati e rappresentato da uomini provenienti dall’aristocrazia e dall’alta borghesia, mentre ai margini restava la media borghesia, tra l’altro esclusa dal voto sino alla riforma dell’88. Questa maggioranza esprimerà una linea politica di stampo insulare, il che significava la concentrazione in città delle attività economiche principali per recuperare, almeno sotto questo profilo, la grandezza del passato. Su questo indirizzo generale le minoranze in consiglio comunale sostanzialmente convenivano.
Polo del rilancio produttivo doveva essere il porto — ed era opinione universalmente condivisa. Questo stava allora vivendo, come si è già accennato, una grave crisi da imputare in via principale allo spostamento dei traffici austriaci verso Trieste dopo la perdita della Lombardia. A fronte di questa devianza negativa la portualità veneziana era avvantaggiata dall’avere alle sue spalle un’ampia rete ferroviaria: si pensi soltanto all’importanza, e non meramente economica, della linea che dal ’57 collegava Venezia con Milano. Un porto rivitalizzato avrebbe potuto profittare di queste infrastrutture che costituivano anche possibilità di relazioni commerciali nuove con centri dell’entroterra prima separati da barriere politiche e doganali. Pensare al porto come volano di crescita era un pensiero concreto che ben si sposava con l’immaginario storico della Dominante intermediatrice di scambi mercantili tra l’Europa e il Levante. Iniziano così nel ’69 i lavori per la portualità tra il canale della Giudecca e il canale della Scomenzera (la cosiddetta marittima); è l’anno dell’apertura del canale di Suez, un evento dal quale anche Venezia, tra gli altri, si aspettava molto, anzi troppo come risulterà più tardi.
Come si sperava il volano portuale creò in effetti un indotto di altre attività come il Cotonificio Veneziano a S. Marta, la Manifattura Tabacchi a S. Croce, i cantieri navali a S. Elena, il Mulino Stucky e la fabbrica di orologi Junghans alla Giudecca, ecc. Nel settore dei servizi ci fu l’impegno della giunta comunale per dotare la città, sino ad allora (1844) approvvigionata dai pozzi, di un acquedotto; si allargò anche la rete di illuminazione a gas che sarà elettrificata nel 1901.
Quelli che cominciano con l’unificazione sono anni che a tutti si mostrano nuovi e in quanto tali generano progetti, muovono intenzioni, disegnano sogni e qualche nostalgia rétro. L’atmosfera vissuta negli ambienti politici, culturali ed economici è caricata di aspettative ottimistiche che figliano una volontà operativa di modernizzazione della città(1).
Sul piano nazionale l’età della destra storica si andava configurando come un periodo durante il quale venivano poste le premesse necessarie per il decollo economico, uscendo dalla condizione di periferia arretrata dell’Europa. Tali premesse consistevano nell’organizzazione di una macchina statale omogenea per tutto il territorio e, inoltre, nella creazione di una trama di infrastrutture comprendenti la rete nazionale delle ferrovie, la viabilità ordinaria e il servizio postale(2).
A Venezia il clima di novazione cui si è accennato illumina sulle ragioni del progetto di fondazione di una Scuola Superiore di Commercio — la prima del genere in Italia —, destinata a diventare la facoltà di Economia e commercio di Ca’ Foscari, l’università veneziana cui si approderà dopo un percorso centenario.
Tuttavia l’elemento politico-economico, locale e nazionale, non appare da solo sufficiente per spiegare la genesi del progetto: bisogna mettere nel conto anche le componenti scientifiche ed accademiche proprie del tempo, non ultima la crescente dignità e presenza che le discipline economiche, teoriche e applicate, andavano acquisendo in Italia come risposta, tra le altre, al divenire dell’universo economico che richiedeva nuove competenze professionali oltre quelle tradizionali di natura giuridica.
Nel 1758 appare in Francia il Tableau économique di François Quesnay, nel 1776 si pubblica in Inghilterra la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith: a principiare da queste date la scienza economica cresce su se stessa e soprattutto segue il tracciato indicato da Smith centrato sullo studio dei fattori produttivi dello sviluppo, un tema consonante con la coeva rivoluzione industriale. Difatti è l’industrializzazione avviata in Inghilterra, e auspicata nel continente, che spiega l’allargarsi dell’interesse per la materia oltre l’ambito dei cultori professionali e l’ingresso della stessa nei programmi universitari. A questo proposito merita rammentare che, prima ancora dell’affermazione generale della disciplina, si assiste a Napoli — promossa dal mecenatismo di Bartolomeo Intieri — alla precoce erezione di una cattedra di Commercio e meccanica affidata nel 1754 ad Antonio Genovesi. È in assoluto la prima cattedra di Economia politica(3). Comincia da qui l’iter universitario non sempre lineare della disciplina e delle materie applicative legate ad essa.
L’economia politica aveva trovato nel pieno illuminismo, oltre che a Napoli con Genovesi, in Lombardia con Cesare Beccaria, a Modena con Agostino Paradisi, a Catania con Vincenzo Emanuele Sergio, un suo spazio negli studi superiori, ancorché limitato rispetto alle discipline tradizionali da tempo radicate nelle università(4). Tuttavia, quando lo spirito della rivoluzione francese cominciò ad alzarsi in Europa, quasi tutte le cattedre vennero soppresse per timore di agitazioni studentesche (la materia era nuova e ‘sospetta’). Si ricomincerà daccapo con le prime riforme napoleoniche (1802-1806), ed anzi sarà proprio la legislazione napoleonica a dare uno statuto omogeneo alla materia che sarà definitivamente collocata nelle facoltà di Giurisprudenza.
Difficoltà grosse incontrò l’insegnamento con la Restaurazione: furono disattivate molte cattedre, altre furono ridimensionate, in ogni caso assegnate a docenti graditi al regime. Il vento cominciò a cambiare direzione con gli anni Quaranta dell’Ottocento quando anche in Italia le idee liberiste in politica economica iniziarono a trovare dei portavoce autorevoli. La prima apertura in questo senso è testimoniata a Torino con l’affidamento della docenza prima ad Antonio Scialoja e quindi a Francesco Ferrara, due economisti liberali in sintonia col programma governativo di Cavour.
Giunta l’Unità d’Italia fiorirono gli entusiasmi per l’avvenire del paese, entusiasmi che coinvolsero naturalmente anche l’istruzione, compresa quella superiore. S’allargò l’interesse generale per l’economia reale, tant’è vero che un economista accreditato come Angelo Messedaglia ritenne fosse il momento propizio per chiedere al governo che nelle sedici facoltà giuridiche del Regno si ampliassero gli insegnamenti economici, tra i quali comprendeva la statistica(5). In effetti il momento era tale che da più parti si premeva perché si aprissero scuole di specializzazione che affiancassero o integrassero quanto insegnato nelle università per fornire conoscenze aggiornate di ordine tecnico-amministrativo agli imprenditori, ai dirigenti pubblici e privati, agli insegnanti. È a causa di questo bisogno, avvertito dalla sensibilità della borghesia colta e innovatrice, che a Firenze viene fondato l’Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento (1859), voluto da Ricasoli, Capponi e Ridolfi, e che a Venezia (1868), Bari (1886) e Genova (1886) sono inaugurate le Scuole superiori di commercio. Con queste istituzioni nuove le discipline economiche — teoriche e pratiche — diventano la finalità specifica e ultima di un corso di studi superiori, corso che poi si rivelerà essere stato il momento preparatorio della futura facoltà di Economia e commercio (1934) dove saranno altre materie ad essere sussidiarie dell’economia e non viceversa.
A conclusione di questa breve ricognizione sulle circostanze politiche ed economiche che hanno preceduto e accompagnato la formazione delle Scuole di commercio è forse il caso di menzionare che l’idea di creare delle Scuole superiori di tipo politecnico era già presente nelle proposte di alcuni intellettuali del nostro risorgimento. Sull’argomento si possono citare i nomi di Vincenzo Cuoco, Gian Domenico Romagnosi, Melchiorre Gioia, e poi Cavour e Cattaneo. Essi avevano percepito con chiarezza la relazione stretta tra istruzione e sviluppo economico; erano persuasi che la scuola fosse la pietra angolare dell’edificio sociale e che l’istruzione dei cittadini fosse per lo Stato un dovere ma anche un vantaggio collettivo.
Per brevità diciamo solo di Carlo Cattaneo che, nel saggio Del pensiero come principio dell’economia pubblica (1859), ai tradizionali fattori produttivi dell’economia politica dei classici (terra, capitale e lavoro) aggiungeva l’«intelligenza» che riteneva ingiustamente trascurata quale fattore di sviluppo. E allo specifico dell’istruzione Cattaneo dedicò un altro scritto, Sul riordinamento degli studi scientifici in Italia, apparso sulla rivista da lui fondata «Il Politecnico» (vol. XII, 1862, fasc. LXVII), un nome che sarà ripreso emblematicamente da Luigi Luzzatti quando, nella fase costitutiva della Scuola veneziana, proporrà di chiamarla «politecnico del commercio»(6).
Della maturazione ambientale — politica, culturale, economica — si è detto, ma non ancora dello spunto seminale di una proposta che non aveva precedenti in Italia. Dopo l’Inghilterra anche nel continente avanzava gradualmente l’industrializzazione e con essa l’esigenza di conoscenze tecniche; per acquisirle si creò in Europa una gerarchia di istituti tecnici: per esempio, la Francia al livello più alto istituì l’École polytechnique associandovi l’École des mines e l’École des ponts et chaussées; a livello medio aprì le Écoles des arts et métiers e più sotto corsi eterogenei di carattere locale pubblici o privati.
Per la prima Scuola di commercio — quella veneziana che servirà poi di modello alle altre due che seguiranno nell’86, cioè Bari e Genova — l’idea seminale l’ebbe Luigi Luzzatti che l’aveva mutuata dalle Scuole di Anversa e di Mulhouse. Per l’Italia era un’esperienza inedita per cui la si doveva modellare ex novo; naturalmente tenendo conto di una situazione data in cui esistevano professioni tradizionali come l’avvocatura e la medicina con le relative facoltà universitarie, mentre le nuove professionalità ingegneresche si formavano nei politecnici. In realtà uno spazio professionale libero ed occupabile sussisteva, ed era quello tecnico-commerciale che poteva porsi ad un livello più alto, perciò universitario, rispetto a quello medio soddisfatto dagli istituti tecnici secondari. Questi ultimi dovevano preparare i quadri intermedi, mentre le Scuole superiori avrebbero potuto dedicarsi alla formazione dei quadri dirigenti.
Coll’individuazione di un’area peculiare e di un ruolo nell’ambito dell’istruzione superiore, le progettate Scuole avrebbero potuto giustificatamente operare senza provocare reazioni negative nel mondo universitario e, nel contempo, avrebbero offerto agli iscritti un ragionevole sbocco d’impiego. Quindi, in maniera conseguente agli obiettivi generali, furono fissati gli indirizzi di studio in numero di tre: un indirizzo commerciale per la preparazione di dirigenti amministrativi pubblici e privati; un indirizzo magistrale per insegnanti di materie tecnico-scientifiche e linguistiche (economia, ragioneria, diritto, merceologia, geografia, lingue straniere); ed infine un indirizzo consolare per gli addetti agli affari economici e commerciali nelle sedi diplomatiche all’estero. Su questi indirizzi il consenso dei promotori non fu unanime, ma alla fine queste furono le sezioni attivate.
Dibattiti, schermaglie, costituzioni di maggioranze e minoranze, dimissioni: è questa la vivace atmosfera dentro la quale matura la gestazione delle Scuole per l’intrecciarsi e lo scontrarsi di idealità e di interessi parrocchiali di politici, intellettuali ed operatori economici. Fa eccezione Genova dove si registra una proficua convergenza sia sulla costituzione della Scuola sia sulle sue finalità. Di Venezia si dirà tra breve, di Bari si può ricordare che l’istituzione fu promossa interamente dalla Camera di commercio e fu diretta, dalla fondazione nell’86 sino al ’92, da Maffeo Pantaleoni, illustre economista già docente a Ca’ Foscari, il quale caldeggiò sempre un tono alto dell’insegnamento, privilegiando le materie teoriche e scontrandosi, così, col ceto mercantile locale, concreto per natura e più vicino al mercato, che si batteva nel consiglio direttivo per la prevalenza di una didattica orientata verso le materie applicative(7).
All’origine della Scuola superiore di commercio di Venezia(8) c’è la scelta pubblica tra il potenziamento dell’esistente Istituto tecnico fondato in città dagli austriaci e la creazione di un nuovo organismo di grado scientifico e didattico più elevato. L’occasione da cui prese l’avvio il processo di scelta fu un’erogazione di 20.000 lire che la Provincia di Venezia avrebbe dovuto destinare ad un prospettato ampliamento dell’Istituto tecnico. La proposta di spesa era all’ordine del giorno del consiglio provinciale del 12 luglio 1867, ma il vicepresidente Deodati ottenne che la delibera fosse rinviata giustificandola con l’opportunità di studiare la possibile fondazione di «una grande scuola superiore di commercio e navigazione»(9). Così sarà alla fine e l’iter per l’approvazione sarà sostanzialmente breve: appena un anno per acquisire tutti i consensi e i finanziamenti necessari(10).
Gli attori primari dell’azione di fondazione sono tre: il citato Eduardo Deodati, il giovane Luigi Luzzatti e il futuro direttore della Scuola, l’economista Francesco Ferrara. Deodati, nato a Portogruaro nel ’21 da modesta famiglia, laureato in Giurisprudenza a Padova nel ’43 con una tesi che cerca paradossalmente di dimostrare l’inutilità del diritto romano, esercita l’avvocatura dapprima a Chioggia poi a Venezia. Benché dispiaciuto di non essere diventato un uomo di scienza, egli fa una brillante carriera politica: consigliere provinciale, vice e poi presidente della Provincia di Venezia, diventa senatore nel ’76. Uomo che si è fatto da solo, ha intuito i tempi nuovi che Venezia ha davanti a sé (la Scuola ne è un buon esempio) e li interpreta con vocazione alla mediazione e all’organizzazione. Il suo spirito d’iniziativa, nonché le sue relazioni politiche, anche governative, saranno particolarmente utili alla causa della progettata istituzione della Scuola di commercio(11).
Il secondo attore è Luigi Luzzatti (Venezia 1841-Roma 1927), anch’egli laureato in Giurisprudenza, economista ed uomo politico di rilievo nazionale, insegnante a Milano, Padova e Roma. Deputato alla Camera nel ’71, ricopre per lunghi e alternati periodi vari incarichi pubblici: ministro del Tesoro, dell’Agricoltura, presidente del Consiglio nel 1911, nel ’21 è nominato senatore. È persona attenta ai problemi sociali; infatti a lui si devono leggi sugli infortuni nei luoghi di lavoro, sulla previdenza sociale e la scolarità obbligatoria. Fu anche attivo nel mondo della cooperazione e favorì la nascita delle banche popolari. Sul piano più strettamente politico progettò le riforme doganali del ’78 e dell’87 e sostenne l’unione monetaria latina.
Luzzatti mostrò indubbie capacità progettuali e politiche nel disegno di costituzione della Scuola insieme con Deodati nel quale egli trovò un sodale altrettanto deciso nel puntare al successo dell’operazione. Della sua densa biografia intellettuale e politica è qui opportuno accennare alla sua posizione di economista perché questo fa luce sui rapporti tormentati con Francesco Ferrara e sulle scelte programmatiche della Scuola (programmi e docenti). Luzzatti, e la sua lunga carriera pubblica lo testimonia, seppe sempre conciliare accortamente e sinergicamente il lavoro di economista con l’iniziativa politica, ponendo entrambe al servizio dei suoi obiettivi prammatici(12). Carattere del tutto opposto quello di Ferrara: rigido nelle sue idee teoriche, testardo nelle scelte, spesso ruvido nei rapporti personali.
Luzzatti compartecipò alla scuola lombardo-veneta di economia, altrimenti detta dei socialisti della cattedra, la quale era formata da accademici che saldavano lo studio con la politica. Ne facevano parte, oltre a figure minori, il veronese Angelo Messedaglia, il milanese Luigi Cossa, il vicentino Fedele Lampertico. La scuola si caratterizzò per la sua critica alla teoria economica dominante accusata di procedimenti astratti, di costruire modelli deduttivi, di aderire ad un atomismo utilitaristico. All’incontro i lombardo-veneti proponevano un metodo sperimentale che utilizzasse la storia e la statistica e, quindi, cercasse di capire la realtà per via induttiva. L’ispirazione metodologica veniva dalla scuola storica tedesca la quale, rifiutando la formalizzazione astratta dell’esperienza, produceva studi di storia economica servendosi del contributo del diritto, della sociologia, della geografia. Altrettanto produssero gli economisti nostrani, cioè elaborarono numerose ricerche sulle condizioni socio-economiche del Regno e sulla storia dei fatti e delle idee economiche. Furono ricerche molto utili, ma occorre riconoscere che assai scarso fu il contributo teoretico mancando loro la vocazione e l’originalità(13).
I lombardo-veneti, e con essi Luzzatti, ebbero coscienza della debolezza economica del paese e dell’urgenza di una svolta modernizzatrice. Erano liberali, ma liberali impuri perché, date le condizioni reali del momento storico, erano persuasi che l’Italia per decollare industrialmente avesse bisogno dell’intervento dello Stato. È questo il nodo maggiore dell’insanabile divisione tra lombardo-veneti e liberisti integrali che avevano in Francesco Ferrara il loro più autorevole esponente.
Terzo attore della storia cafoscarina è, appunto, Francesco Ferrara (Palermo 1810-Venezia 1900). Egli studia dai gesuiti ed è avviato alla carriera ecclesiastica che abbandona dopo gli ordini minori. Professionalmente inizia la sua carriera presso la direzione centrale di statistica della città natale di cui in seguito diventerà responsabile. Nel ’48, per le sue convinzioni liberali e antiborboniche, si stabilisce a Torino dove si guadagna la fiducia di Cavour e succede ad Antonio Scialoja nella cattedra di Economia politica dell’Ateneo locale. Per l’editore Pomba idea la «Biblioteca dell’economista», collana per la quale redige delle famose prefazioni con le quali introduce in Italia il miglior pensiero economico d’Oltralpe, oltre a presentare il proprio personale giudizio critico.
Nel ’58 Ferrara viene sospeso dalla docenza per contrasti col governo sabaudo, nel 1860-1861 insegna a Pisa, nel ’62 è nominato consigliere della Corte dei conti e nel ’67 è ministro delle Finanze del gabinetto Rattazzi. Da questo incarico si dimetterà per l’opposizione al suo progetto di alienazione dell’asse ecclesiastico come cespite per ripianare il disavanzo di bilancio. Nel ’68, come sappiamo già, torna all’insegnamento assumendo la direzione della neonata Scuola superiore di commercio di Venezia. È eletto parlamentare nel ’74, ma nell’80 i suoi elettori palermitani non gli rinnovano il mandato; tuttavia nell’81 è nominato senatore, ma per contrasti politici e amarezze personali partecipa poco ai lavori parlamentari. Muore a Venezia e con lui scompare il maggior economista italiano del secolo, un animo fiero e una coscienza politica che intese l’economia anche come arma per memorabili battaglie civili.
Francesco Ferrara era un conservatore che s’ispirava al liberalismo britannico e intendeva lo Stato come un produttore di servizi-utilità per i cittadini. Libertà politica, libertà economica e Stato neutrale: questi i suoi fermissimi principi. Da qui il profondo contrasto con i «vincolisti» della scuola lombardo-veneta e la polemica contro l’industriale Alessandro Rossi partigiano della protezione doganale(14). Personalità umana, politica e scientifica radicalmente diversa da quella di Luzzatti, con questi Ferrara non poteva che avere rapporti inquieti mediati soltanto dalla necessità della Scuola, ma i suoi giudizi su Luzzatti come economista sono sarcasticamente negativi. Screzi, contrasti, polemiche tra i due, in quanto erano dottrinali e politici, fuoriuscivano dalla Scuola cafoscarina e dilagavano negli uffici ministeriali, in Parlamento, nelle riviste(15).
Il 6 agosto 1868 Vittorio Emanuele II firma il decreto di approvazione dello statuto organico della Regia Scuola superiore di commercio di Venezia(16). Lo scopo della nuova istituzione è enunciato dal primo articolo: «È istituita dalla Provincia, dal Comune, e dalla Camera di commercio di Venezia la R. Scuola superiore di commercio, che avrà per iscopo: a) di perfezionare i giovani negli studi opportuni per l’esercizio delle professioni mercantili; b) d’insegnare oltre le principali lingue moderne europee, le orientali viventi, l’arabo, il turco e il persiano, per facilitare le nostre relazioni e i nostri scambi coi popoli d’oriente; c) di preparare i giovani che in conformità alle condizioni prescritte dalle leggi e dai regolamenti, intendono dedicarsi alla carriera dei consolati; d) d’istruire con ammaestramento speciale coloro che vorranno dedicarsi all’insegnamento delle discipline commerciali negli Istituti tecnici ed in altre Scuole dello Stato».
Il secondo e il terzo articolo si occupano del finanziamento annuale che prevede un assegno di 40.000 lire da parte della Provincia, più «la suppellettile scientifica» di 10.000 lire da parte del Comune e di 5.000 dalla Camera di commercio; il governo è impegnato per non meno di 10.000 lire. È poi previsto che la Scuola sia amministrata e diretta da un consiglio di sei membri eletti in numero di due per ciascun ente fondatore; a sua volta il consiglio nomina a maggioranza assoluta il direttore tra i suoi componenti.
Tab. 1. Direttori della Scuola superiore di commercio
Francesco Ferrara dal 1868 Alessandro Pascolato facente funzione dal 21 novembre 1893
effettivo dal 24 maggio 1900 Enrico Castelnuovo dal 1° luglio 1905 Fabio Besta facente funzione dal 12 febbraio 1914
effettivo dal 15 marzo 1914 Pietro Rigobon dal 16 marzo 1917 Luigi Armanni dal 1° aprile 1919
Due anni dopo, il 15 maggio 1870, con decreto reale giunge l’approvazione del regolamento che riconosce la Scuola nella serie degli istituti tecnico-professionali superiori e come tale è sottoposta alla sorveglianza del Ministero dell’Agricoltura, industria e commercio. Oltre gli assegni annui garantiti dallo statuto, si concede l’uso «del palazzo detto Ca’ Foscari, escluse le tre stanze al primo piano, che guardano sul canal grande, rimaste a disposizione del Municipio di Venezia»; questi lo aveva concesso in comodato alla Scuola e dal nome del palazzo stesso sarà poi denominata la futura Università (oggi ufficialmente Università Ca’ Foscari di Venezia).
Ai docenti è dedicato il sesto capitolo il quale statuisce che essi possano essere nominati mediante esami o concorso e siano distinti in tre classi: professori titolari (gli attuali ordinari), professori reggenti (oggi straordinari) e incaricati. Il professore di prima nomina è reggente e diventa titolare dopo tre anni di servizio; gli incaricati sono nominati annualmente e riconfermabili. Le retribuzioni non sono però fissate per classe di docenza bensì individualmente e «il loro ammontare [si legge nel regolamento] si determina dal Consiglio direttivo secondo le circostanze», in ogni caso il massimo pagabile è previsto in 7.000 lire annue (art. 62).
Per quanto riguarda gli studenti (denominati «alunni») l’età minima per l’ammissione è di sedici anni e avviene previo esame da cui sono dispensati i diplomati degli istituti tecnici industriali e professionali. La frequenza ai corsi è obbligatoria e la presenza, nonché la condotta di ciascun studente, è annotata dal professore in un registro. Una figura oggi non più viva è quella dell’«uditore» il quale s’iscrive per seguire qualche corso speciale; ha gli stessi obblighi dello studente ordinario (frequenza, disciplina, ecc.), ma paga 15 lire di tasse anziché 150 e alla fine del corso può ottenere un semplice attestato di frequenza oppure, superando l’esame della disciplina, avere un certificato con menzione del risultato. Per gli iscritti ordinari al termine c’è l’esame di licenza per conseguire il diploma rilasciato dal governo in nome del re. In proposito l’art. 10 recita: «Il diploma stabilisce che il titolare del medesimo ha ricevuto una completa educazione superiore commerciale, e che l’allievo è atto a sostenere i più importanti uffici commerciali, come direttore di banche, di istituti di credito, di case di commercio; che può essere impiegato in spedizioni e viaggi lontani, così per conto del Governo, come di società e privati». Qui sono confermati gli scopi formativi della Scuola che offre una preparazione e un titolo di studio che può potenzialmente aprire l’accesso a incarichi dirigenziali nel settore commerciale e finanziario; ma come si poneva questo titolo di studio nei confronti di una laurea universitaria? Al numero successivo del regolamento si legge che il diploma cafoscarino «sarà tenuto come equivalente agli ordinari superiori gradi accademici per tutti gli effetti di legge» (art. 108). Che cosa significa? La dizione appare molto ambigua, tant’è vero che si sentì la necessità col r.d. del 26 novembre 1903 di decretare che, «ritenuta la convenienza di determinare il valore di detto diploma e gli uffici, oltre quelli liberi del commercio e delle industrie, all’esercizio dei quali abilita il diploma stesso», le Scuole superiori di commercio di Bari, Genova e Venezia «rilasciano un diploma speciale di laurea agli alunni che hanno compiuto il corso degli studi nelle sezioni commerciale, consolare e in quelle magistrali». È il tanto atteso riconoscimento di legge alla parificazione con le altre lauree. Ma questi laureati non potranno dirsi «dottori»: bisognerà pazientare ancora qualche anno.
Successivamente col r.d. del 15 gennaio 1905 viene data soluzione alla questione degli iscritti alla Scuola che erano privi della licenza di istruzione secondaria, obbligatoriamente richiesta ai laureati delle università. Ora viene imposta per l’accesso quella liceale o tecnica e una disposizione transitoria sana la posizione degli studenti in corso o già diplomati.
In appendice il provvedimento in questione detta un’altra norma transitoria relativa al corso consolare; questa è giustificata dal fatto che la legge consolare del 28 gennaio 1866 per l’incarico di console chiedeva la laurea in Diritto. Occorreva pertanto trovare una conciliazione col curriculum consolare della Scuola, conciliazione che a livello curricolare era già stata fatta col r.d. del 21 agosto 1870 il quale integrava il regolamento cafoscarino e stabiliva che il corso di studi della sezione consolare diventava quinquennale incrementando le materie giuridiche.
Un ulteriore regolamento approvato con r.d. 24 giugno 1883, regnante Umberto I, disciplina particolarmente i diplomi di abilitazione all’insegnamento nelle scuole di secondo grado per economia politica e statistica, ragioneria e computisteria, lingua francese, inglese e tedesca. Nel corso degli anni altre disposizioni normative accompagneranno la vita della Scuola e dietro ad esse si colgono i problemi di crescita e di organizzazione che intendevano risolvere. Si vedano, per esempio, i decreti del 1903 e del 1905 che sanzionano il titolo di dottore per i laureati della Scuola: un traguardo che gratifica un’ambizione primitiva e forte di Ca’ Foscari e che la tonifica nel momento in cui nasce la concorrente Università commerciale Bocconi di Milano (1902) il cui statuto prevedeva il dottorato per i suoi allievi(17).
Ad un riordinamento organico provvide il nuovo statuto del 1909 e il conseguente nuovo regolamento del 1910, norme con le quali gli istituti superiori di commercio assumevano una definitiva configurazione di stampo universitario. Tra queste sono da segnalare in particolare l’impegno del governo di elevare il sussidio annuale a 50.000 lire, i criteri di nomina dei professori, la definizione degli stipendi e dei decimi quinquennali di aumento. Altre disposizioni importanti per gli istituti superiori di istruzione commerciale furono la legge del 20 marzo 1913 che pareggiò gli stipendi dei docenti con quelli degli universitari, pose le pensioni a carico dello Stato, facilitò il passaggio da un istituto all’altro. Questa legge trovò poi applicazione col regolamento approvato dal r.d. 1° agosto 1913.
I docenti erano assunti dal consiglio direttivo mediante esami o concorsi di selezione. Aspirando a creare un buon nome alla Scuola quale condizione necessaria per guadagnare una presenza autorevole in campo nazionale, si cercava di attrarre studiosi di fama o, comunque, qualificati professionalmente. Questo obiettivo era però contrastato dai vincoli di bilancio; infatti, guardando ai consuntivi dei primi dieci anni di attività, entrate e uscite si pareggiano più o meno intorno alle 100.000 lire e le retribuzioni ne assorbono circa l’80%. Troppo, evidentemente, e questo affannava la gestione in una continua ricerca di finanziamenti. Questo dato di fatto non disanimava però i docenti — specie i più accreditati — dal sollecitare aumenti di stipendio lamentando la differenza negativa rispetto ai colleghi universitari. Esemplare è il caso di Fabio Besta — professore di Computisteria e ragioneria il cui magistero lascerà un segno duraturo nella storia di queste discipline — il quale nel 1880, trovando inadeguate le 3.500 lire annue che riceveva (il direttore Ferrara ne percepiva 8.000, più l’appartamento e la gondola), avanza una richiesta di aumento. Il consiglio direttivo gli concede per un biennio una gratifica di 500 lire annue; ma alla scadenza nell’82 Besta ripresenta l’istanza di aumento che viene accolta e la stessa somma diventa stabile come assegno ad personam. È facile immaginare che questo personalismo abbia causato più di qualche mugugno tra gli altri docenti, ma esso era conforme allo statuto che consentiva le differenze retributive anche tra docenti della stessa classe. Naturalmente questa deliberazione consiliare — oltre a trattenere uno studioso e un tecnico che qualificava la Scuola — tendeva a non provocare disavanzi di bilancio con aumenti generalizzati. Questa preoccupazione fu costante negli amministratori che, in tempi diversi, si videro costretti a cancellare alcune cattedre, specie di lingue: questo forse perché, dopo anni dall’apertura del canale di Suez (1869), erano scemati di molto i sogni di opulenti flussi di traffico tra Venezia e l’Oriente(18).
Come in ogni epoca, sotto la cupola dell’università anche tra Otto e Novecento la
Tab. 2. Distribuzione per classi del corpo docente (1870-1910) anni 1870 1880 1890 1900 1910 Titolari 13 7 10 12 12 Reggenti 1 5 1 2 2 Incaricati 1 6 9 9 7 Fonti: Verbali del consiglio direttivo; Annuari della Scuola superiore di commercio.
chiamata dei cattedratici era influenzata dalla discendenza scientifica, talvolta coniugata con l’appartenenza politica; così, sin dall’inizio, si possono riconoscere dei «ferrariani» come Tullio Martello, e dei «luzzattiani» come Luigi Bodio(19). Occorre però ammettere che il sistema funzionava positivamente dato che la qualità media della docenza era di buon livello e, talvolta, anche alta come manifestano i nomi sin qui citati. Tra quelli menzionabili per meriti storici verso la scienza economica non si può sottacere il nome di Maffeo Pantaleoni (1857-1924), uno studioso tra i migliori del suo tempo per originalità e rigore. Egli giunse a Venezia nell’85 come successore di Tullio Martello trasferitosi all’Università di Bologna. Vi giungeva preceduto da buona fama avendo già pubblicato due opere di rilievo come la Teoria della traslazione dei tributi (1882) e il Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche (1883). Nonostante i rapporti ruvidi con Ferrara(20), Pantaleoni resisterà due anni a Ca’ Foscari; diventerà quindi direttore della neonata Scuola superiore di commercio di Bari. Fondamentali sono giudicati i suoi Principi di economia pura (1889), quasi certamente maturati durante il periodo cafoscarino; si tratta di una ricerca sul paradigma neoclassico quando questo non era ancora pienamente definito e affermato: l’autore studia sia le implicazioni dell’impiego ottimale delle risorse attraverso la concorrenza sia la distribuzione ottimale del reddito attraverso il sistema dei prezzi di mercato. Pantaleoni dette altresì contributi significanti all’economia applicata discutendo questioni di statistica, di sociologia, di storia economica(21).
Per quanto riguarda gli studenti essi si potevano immatricolare se provenienti dall’istituto tecnico, per naturale prosecuzione dei loro studi, oppure se licenziati dai licei. Quanto alle iscrizioni dai primi venne una risposta positiva, al contrario assai scarsa fu per decenni l’adesione dei liceali, e non è difficile capirne la ragione. I licei erano frequentati dai figli della buona borghesia la quale preferiva orientarli verso le libere professioni tradizionali che assicuravano dignità sociale e redditi stabilizzati, piuttosto che abbracciare nuove professionalità dal futuro non garantito, oppure seguire la via dell’insegnamento che appariva più indicata per i figli della piccola borghesia alla ricerca di una dignitosa collocazione sociale, ancorché moderatamente retribuita(22).
Per queste ragioni l’avvio delle iscrizioni alla Scuola fu lento sino alla fine del secolo iniziando poi a seguire la tendenza generale delle facoltà universitarie. L’avviamento misurato è probabilmente da imputare alla novità dell’indirizzo degli studi, all’incertezza sugli sbocchi professionali, al difetto del titolo dottorale e, a partire dall’86, all’apertura delle Scuole di Bari e di Genova.
Ca’ Foscari inizia il primo anno accademico con 112 studenti e — con flessioni negli anni tra il 1871-1872 e il 1877-1878 e poi tra il 1885-1886 e il 1888-1889 — il numero degli iscritti mostra una curva crescente a partire dal 1893-1894 sino ad arrivare a 997 nel 1920-1921.
È da tener presente che, doppiato il secolo, nel 1902 principia la secolare rivalità con la
Tab. 3. Immatricolazioni dal 1868-1869 al 1918-1919 Anni accademici Anni accademici Anni accademici 1868-1869 112 1885-1886 82 1902-1903 179 1869-1870 135 1886-1887 88 1903-1904 195 1870-1871 103 1887-1888 91 1904-1905 186 1871-1872 97 1888-1889 97 1905-1906 173 1872-1873 72 1889-1890 109 1906-1907 177 1873-1874 72 1890-1891 122 1907-1908 177 1874-1875 71 1891-1892 115 1908-1909 188 1875-1876 76 1892-1893 111 1909-1910 196 1876-1877 75 1893-1894 129 1910-1911 201 1877-1878 92 1894-1895 134 1911-1912 222 1878-1879 135 1895-1896 152 1912-1913 267 1879-1880 130 1896-1897 158 1913-1914 285 1880-1881 126 1897-1898 133 1914-1915 360 1881-1882 132 1898-1899 158 1915-1916 306 1882-1883 135 1899-1900 167 1916-1917 331 1883-1884 110 1900-1901 169 1917-1918 423 1884-1885 102 1901-1902 174 1918-1919 553
Bocconi di Milano(23); a questo proposito può essere di qualche interesse confrontare il numero degli iscritti e dei laureati delle due istituzioni:
Tab. 4. Iscritti e laureati della Scuola Superiore di Commercio e dell’Università Bocconi
Anni accademici Venezia
Iscritti-laureati Milano
Iscritti-laureati 1902-1903 179- 65- 1903-1904 195- 114- 1904-1905 186-19 131- 1905-1906 173-33 173-38 1906-1907 177-15 196-37 1907-1908 177-33 244-25 1908-1909 188-20 274-38 1909-1910 196-38 289-41 1910-1911 201-31 308-44 1911-1912 222-36 305-42 1912-1913 267-45 333-49 1913-1914 285-45 304-48 1914-1915 360-13 351-58 1915-1916 306-15 310-27 1916-1917 331-13 327-18 1917-1918 423-18 413-13 1918-1919 553-77 763-73 1919-1920 882-196 962-94 Fonti: Annuari della Scuola superiore di commercio; Annuari della Università Bocconi.
Tornando in Ca’ Foscari per osservare le immatricolazioni secondo le tre sezioni che gli studenti possono scegliere si dà la seguente distribuzione per decennio che tiene conto anche degli iscritti ai corsi propedeutici:
Tab. 5. Immatricolazioni divise per sezione
Decennio Totale
iscritti Corsi
propedeutici Sezione
commerciale Sezione
magistrale Sezione
consolare 1868-1877 905 656 128 108 13 1878-1887 1.131 401 236 362 132 1888-1897 1.260 393 177 591 99 1898-1907 1.755 704 359 597 95 1908-1917 2.779 55 1.112 1.476 136 1918-1927 7.328 21 4.559 2.245 503 Fonti: Verbali del consiglio direttivo; Annuari della Scuola superiore di commercio.
Come si vede la sezione magistrale, nello specifico il magistero di ragioneria, il più seguito dai provenienti dall’istituto tecnico, è quasi permanentemente la più frequentata, salvo due decenni durante i quali è superata dalla commerciale.
I corsi erano distinti in obbligatori e liberi. Nel primo biennio iniziale fu sperimentato un ciclo preparatorio che fu poi abbandonato perché giudicato inutile e contrario all’immagine che si voleva affermare di una scuola di studi superiori. Diede invece buoni risultati una propedeutica ‘classe indistinta’, comune a tutte le sezioni, la quale durò sino allo statuto del 1909 che riorganizzava la didattica.
Secondo la sezione frequentata le materie obbligatorie differivano alquanto, salvo l’italiano e le lingue presenti in tutti i piani di studio. Per la sezione commerciale erano d’obbligo gli esami di merceologia, geografia economica, computisteria e ragioneria, statistica, calcolo mercantile, banco (cioè pratica commerciale), economia politica, storia del commercio, diritto commerciale e marittimo. Coloro che seguivano il corso consolare dovevano aggiungere una lingua orientale, la storia politica e diplomatica, il diritto civile e penale con le relative procedure, il diritto costituzionale e quello pubblico internazionale. Le classi di magistero accentuavano o escludevano insegnamenti specifici secondo l’indirizzo.
Tentiamo ora qualche riflessione conclusiva intorno a questo primo mezzo secolo di vita cafoscarina narrata per eventi significanti. Una domanda, per cominciare: la fondazione della Scuola fu un accadimento pleonastico per l’istruzione universitaria italiana, oppure fu un atto aurorale avveduto che coglieva il vento innovativo che avrebbe a breve investito l’economia nazionale la quale, di conseguenza, avrebbe reclamato uomini con un sapere tecnico-economico adeguato? Il tempo trascorso consente di affermare senz’altro che l’inaugurazione della Scuola rappresentò un’iniziativa positiva di modernizzazione; infatti per questa via si estese l’istruzione universitaria all’area economico-commerciale dianzi trascurata in quanto il paese, fermo ad una tradizionale economia agraria, non ne avvertiva il bisogno. La Scuola intendeva modellare competenze professionali nuove che si sarebbero mostrate proficue per l’incipiente accelerazione in senso industriale che l’Italia avrebbe sperimentato prima della svolta del secolo. Una volenterosa miscela di intellettuali, politici, professionisti e commercianti, con un orizzonte culturale largo perché guardava all’Europa avanzata e industrializzata, sentì precocemente la necessità di organizzare una struttura formativa aggiornata che si ponesse ad un livello scientificamente e didatticamente più alto degli esistenti istituti tecnici.
Relativamente ai contenuti dell’insegnamento si osserva sin dall’inizio che dentro la Scuola si manifestò una controversia di fondo — in comune con le Scuole di Bari e di Genova — intorno all’alternativa se riconoscere maggiore rilevanza alle discipline teoriche oppure a quelle applicate nella formazione degli allievi. Controversia davvero annosa perché i due ‘partiti’ hanno continuato a fronteggiarsi sino a quando i ‘pratici’, a cent’anni e passa dalla fondazione, ottennero nel 1971 il riconoscimento della loro autonomia con la costituzione del corso di laurea in Economia aziendale all’interno della facoltà di Economia e commercio. A guardare ai fatti si osserva che l’indirizzo applicativo ebbe più peso in tutte e tre le Scuole superiori, mentre al contrario quello teorico prevalse nell’Università Bocconi. Come spiegare questa inclinazione differente: perché la linea ‘pratica’ si affermò nelle Scuole di commercio e quella teorica alla Bocconi?
Serve ricordare che quest’ultima nacque da un progetto pensato dagli industriali i quali, consci all’inizio del nuovo secolo del potere acquisito, erano decisi a sostituirsi ai possidenti e ai finanzieri nella direzione politico-economica di Milano. Il loro era un progetto ambizioso dentro il quale la creazione di un’Università privata e controllata aveva il ruolo di preparare un’aristocrazia di comando, comando per il quale le conoscenze tecniche erano necessarie ma non decisive per il governo del potere, mentre pareva adatta in maggior misura una preparazione più generale e astratta.
Il progetto veneziano si inverava un trentennio prima di quello milanese in un contesto nazionale economicamente differente e in un contesto locale di crisi dove era assente un ceto industriale autoctono. Non c’era nei fondatori, né ci fu successivamente, un disegno di egemonia politica. Dietro la Bocconi c’era la Milano della grande industria, una volontà unica e privata; dietro Ca’ Foscari c’erano le volontà pubbliche della Provincia, del Comune, della Camera di commercio cui si aggiungerà poi anche la volontà del governo. La Scuola veneziana fu impostata per creare dei professionisti che avessero competenze e pari dignità con i professionisti degli altri settori tradizionalmente più accreditati nella società. Essa conservò sempre l’obiettivo primitivo: i licenziati da Ca’ Foscari dovevano essere in via principale dei tecnici dell’area economico-aziendale e per questa finalità le discipline applicative erano naturalmente le più appropriate (così la pensava persino Francesco Ferrara che di suo era un economista teorico). Perciò quello cafoscarino fu un obiettivo originariamente diretto alla formazione professionale, mentre quello bocconiano andava oltre in quanto mirava a collocare i propri allievi nei posti eminenti di governo dell’economia e della società. In ogni caso dal vivaio veneziano uscirono senz’altro buoni professionisti e insegnanti, ma anche uomini pubblici, economisti teorici e aziendalisti, e non mancarono i letterati e i linguisti di cui non si è persa la memoria(24).
Tab. 6. I discorsi inaugurali (1875-1919) 1875 Giovanni Bizio La scienza nelle sue attinenze col commercio 1876 Giuseppe Carraro La geografia fisica nelle sue relazioni col commercio 1877 Enrico Castelnuovo Alcune osservazioni sul commercio moderno 1878 Tito Martini La matematica nei suoi rapporti col commercio 1879 Costantino Triantafilis Cenni intorno all’origine del commercio e ai suoi rapporti con la civiltà dell’antica Grecia 1880 Fabio Besta La ragioneria 1895 Luigi Armanni L’insegnamento superiore e l’educazione morale 1896 Primo Lanzoni Venezia nelle Indie 1897 Alessandro Pascolato Dell’insegnamento commerciale 1899 Tommaso Fornari La politica commerciale 1901 Ferruccio Truffi La chimica e la merceologia nelle Scuole di commercio 1902 Enrico Tur Il Rinascimento artistico in Francia e in Italia 1904 Antonio Fradeletto La volontà come forza sociale 1906 Tito Martini Le origini e i progressi dell’elettrochimica 1907 Prospero Ascoli L’influenza del telegrafo sul commercio e sul diritto marittimo 1908 Fabio Besta Sulle riforme proposte ai nostri istituti di contabilità di Stato 1909 Pietro Rigobon Di Nicolò e Francesco Donà veneziani del Settecento e dei loro studi storici e politici 1910 Prospero Ascoli La responsabilità civile derivante dai sinistri marittimi 1911 E. Cesare Longobardi La filosofia di Shelley 1912 Giacomo Luzzatti Il normale nella vita dell’individuo e dell’umana società 1914 Adriano Belli Pensiero e Atto in Giorgio Herwegh 1915 Roberto Montessori Il contratto d’impiego 1918 Pietro Orsi Da Bismarck a Wilson 1919 Alfredo Galletti Cultura e civiltà
1. Per le condizioni economiche di Venezia in questo periodo cf. Maurizio Reberschak, L’economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 227-298.
2. Cf. Vera Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861- 1990), Bologna 1993.
3. Cf. Francesco Di Battista, Per la storia della prima cattedra universitaria d’economia. Napoli 1754-1866, in Le cattedre di economia politica in Italia. La diffusione di una disciplina ‘sospetta’ (1750-1900), a cura di Massimo M. Augello-Marco Bianchini-Gabriella Gioli, Milano 1988, pp. 31-46.
4. Sull’opera di Agostino Paradisi cf. Franco Venturi, Ritratto di Agostino Paradisi, «Rivista Storica Italiana», 84, 1972, pp. 717-738; Margherita Laura Alfieri, Aspetti della cultura economica negli Stati Estensi nella seconda metà del XVIII secolo: Agostino Paradisi, in Economisti emiliani fra il XVI e il XVIII secolo, Modena 1988, pp. 117-170; Franco Tamassia, Le idee di filosofia politica e giuridica di Agostino Paradisi, ibid., pp. 171-259. Su Vincenzo Emanuele Sergio cf. Anna Li Donni, Profili di economisti siciliani, Palermo 1983, pp. 21-47.
5. «L’economista non può prescindere da una base di fatto; una statistica è il naturale riscontro di fatto di tutte le istituzioni dello Stato; il retto criterio statistico è condizione fondamentale di tutta la cultura politica ed amministrativa». Angelo Messedaglia, L’insegnamento della giurisprudenza nelle università del Regno, «Nuova Antologia», 20, 1869, p. 589 (pp. 376-593).
6. Sul pensiero in generale di Cattaneo cf. Norberto Bobbio, Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Torino 1970; Id., Carlo Cattaneo e le riforme, in L’opera e l’eredità di Carlo Cattaneo, a cura di Carlo G. Lacaita, I, Bologna 1975, pp. 11-35; su Cattaneo economista cf. Luigi Einaudi, Introduzione a Carlo Cattaneo, Saggi di economia rurale, Torino 1975, pp. VII-XL.
7. Sulla storia della Scuola di Bari hanno scritto Luigi Dal Pane, Le origini dell’Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Bari (1873-1881), in Scritti in onore di Giordano Dell’Amore, I, Milano 1969, pp. 267-281; Cento anni di studi nella Facoltà di economia di Bari (1886-1986), a cura di Antonio Di Vittorio, Bari 1987. Per la Scuola di Genova cf. Dalla scuola superiore di commercio alla Facoltà di economia. Un secolo di elaborazione scientifica e di attività didattica al servizio dell’economia genovese (1884-1996), a cura di Paola Massa Piergiovanni, Genova s.a. [ma 1994].
8. Essenziale per la conoscenza dei fatti precedenti e seguenti la costituzione della Scuola è l’ottima prolusione di Marino Berengo, La fondazione della Scuola superiore di commercio di Venezia, Venezia 1989; fonti primarie per informazioni e statistiche sono le pubblicazioni predisposte dalla Scuola per le esposizioni di Napoli 1871, Milano 1881, Palermo 1891, Torino 1911, apparse col titolo di Notizie e documenti presentati dal consiglio direttivo della scuola alla esposizione di [...]; gli Annuari della Scuola iniziano dall’anno scolastico 1897-1898.
9. La Scuola Superiore di commercio in Venezia. Notizie e dati raccolti dalla Commissione organizzatrice [...], Venezia 1871.
10. Si confrontino i tempi di Venezia con quelli della Scuola superiore di Bari — figlia della riformata «R. scuola di commercio con Banco-modello» — la quale, pur avendo davanti a sé l’esperienza veneziana, mostra segnali di gestazione sin dal 1873 ma arriverà alla fondazione solo nel 1886.
11. Notizie biografiche su Eduardo Deodati si possono leggere nella Commemorazione di Eduardo Deodati, letta all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti nell’adunanza del 20 giugno 1897 dal s.c. Alessandro Pascolato, deputato al parlamento, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 7-8, 1896-1897, pp. 1189-1219; stampata anche da Ferrari, in Venezia 1897; cf. inoltre la Commemorazione del senatore Eduardo Deodati letta alla R. Scuola superiore di commercio dal prof. Renato Manzato il 9 novembre 1898, «Annuario della R. Scuola Superiore di Commercio di Venezia per l’Anno Scolastico 1898-99», 1898, pp. 43-80 (a p. 73 sono segnalate sei pubblicazioni del commemorato).
12. Dell’ampia letteratura su Luzzatti segnaliamo: Attualità di Luigi Luzzatti, a cura di Francesco Parrillo, Milano 1964 (con scritti di F. Caffè, G. Carli, F. Colitto, O. Fantini, S. Siglienti e altri); Franco Catalano, Luigi Luzzatti: la figura e l’opera, Roma 1965; Giuliano Petrovich, Luigi Luzzatti, in I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, a cura di Alberto Mortara, Milano 1984, pp. 39-71; Luigi Luzzatti e il suo tempo, a cura di Pier Luigi Ballini-Paolo Pecorari, Venezia 1994.
13. Angelo Messedaglia, Opere scelte di economia e altri scritti, I-II, Verona 1920, con bibl.; Michele Lecce, Il pensiero economico di Angelo Messedaglia, Verona 1953; Antonio De Viti De Marco, Angelo Messedaglia, in Massimo Finoia, Il pensiero economico italiano 1850-1950, Bologna 1980, pp. 277-291; su Lampertico cf. Silvio Chiecchi, Stato moderno e società civile nella dottrina del Lampertico, «Economia e Storia», 23, 1976, pp. 221-235; La scienza moderata. Fedele Lampertico e l’Italia liberale, a cura di Renato Camurri, Milano 1992; su Cossa: Luigi Dal Pane, Luigi Cossa, in Massimo Finoia, Il pensiero economico italiano 1850-1950, Bologna 1980, pp. 293-308; Riccardo Faucci, Cossa, Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXX, Roma 1984, pp. 94-97.
14. Lucio Avagliano, Alessandro Rossi e le origini dell’Italia industriale, Napoli 1970; Silvio Lanaro, Mercantilismo agrario e formazione del capitale nel pensiero di Alessandro Rossi, «Quaderni Storici», 1971, nr. 16, pp. 48-156; sull’intensa attività pubblicistica di Rossi come controinformazione cf. Mario Isnenghi, Rossi giornalista: come si amministra una ‘pubblica opinione’, in Schio e Alessandro Rossi. Imprenditorialità, politica, cultura e paesaggi sociali del secondo Ottocento, I, a cura di Giovanni Luigi Fontana, Roma 1985, pp. 623-638.
15. Vasta la letteratura su Ferrara, per tutti citiamo una monografia recente ed esauriente, anche sotto l’aspetto bibliografico: Riccardo Faucci, L’economista scomodo. Vita e opere di Francesco Ferrara, Palermo 1995.
16. Lo statuto era stato concordato tra i delegati del Ministero dell’Agricoltura, industria e commercio (Betti e Ferrara) e la commissione locale incaricata di trattare col governo la costituzione definitiva della Scuola. Essa comprendeva tre delegati del consiglio provinciale (Deodati, Luzzatti, Collotta), un rappresentante della deputazione provinciale (Franceschi), tre delegati del consiglio comunale (Berti, Fornoni, Ricco) e tre della Camera di commercio (Colletti, De Manzoni, Palazzi).
17. Cf. le considerazioni sull’argomento del direttore Enrico Castelnuovo nella relazione sull’andamento della Scuola veneziana pubblicata nell’Annuario dell’anno scolastico 1905-1906.
18. Queste le date di attivazione e di soppressione delle singole cattedre di lingue: greco moderno (1868-1890), turco (1869-1877), arabo (1869-1889), giapponese (1873-1888), spagnolo (1885-1891). Soltanto verso la fine del primo decennio del Novecento furono riattivati i corsi di Spagnolo, Turco e Giapponese.
19. Franco Bonelli, Bodio, Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani, XI, Roma 1969, pp. 103-107; Marco Soresina, Luigi Bodio: carriera e relazioni personali, in Colletti bianchi. Ricerche su impiegati, funzionari e tecnici in Italia fra ’800 e ’900, Milano 1998, pp. 247-303.
20. Scrive Pantaleoni in una lettera indirizzata ad Achille Loria datata 10 febbraio 1885: «[...] Ah se tu vedessi che tipo è Ferrara! Stiamo nei medesimi rapporti in cui può stare un gatto con un cane e ci vuole tutta la vernice delle abitudini sociali per impedire che ci bastoniamo!», cit. da R. Faucci, L’economista scomodo, p. 285 n. 99.
21. A.A., Maffeo Pantaleoni: alle radici della scuola italiana di economia e finanza, «Rivista di Politica Economica», marzo 1995 (numero monografico); Nicolò Bellanca-Nicola Giocoli, Maffeo Pantaleoni. Il principe degli economisti italiani, Firenze 1998; Massimo Augello-Luca Michelini, Maffeo Pantaleoni (1857-1924). Biografia scientifica, storiografia e bibliografia, «Il Pensiero Economico Italiano», 5, 1997, pp. 119-206.
22. Sull’argomento cf. Adolfo Scotto Di Luzio, Il liceo classico, Bologna 1999; in partic. per Venezia: Mario Isnenghi, Un liceo veneziano: dal ‘Santa Caterina’ al ‘Marco Foscarini’, in Id., I luoghi della cultura, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 233-262 (pp. 233-406).
23. Tullio Bagiotti, Storia dell’Università Bocconi 1902-1952, Milano 1952; Marco Cattini-Enrico Decleva-Aldo De Maddalena-Marzio Anco Romani, Storia di una libera università, I, L’Università commerciale L. Bocconi dalle origini al 1914, Milano 1992; Didier Musiedlak, Université privée et formation de la classe dirigeante. L’Université L. Bocconi de Milan, Rome 1990.
24. Cf. Saggio di bibliografia della R. Scuola Superiore di Commercio di Venezia, Venezia 1911; Bibliografia di ‘Ca’ Foscari’, cioè saggio della produzione intellettuale di quanti furono studenti o professori nella R. Scuola superiore di commercio di Venezia, Venezia 1911; Professori e antichi studenti di Ca’ Foscari, Venezia 1915; Economisti e letterati in un secolo di storia, «Bollettino dell’Associazione Primo Lanzoni tra gli antichi studenti di Ca’ Foscari», 1969, pp. 73-89.