La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. La concezione agostiniana del sapere...
La concezione agostiniana del sapere e la tradizione neoplatonica latina
I primi Padri latini sembrano nutrire un atteggiamento di sospetto, se non proprio di aperta avversione, nei confronti del sapere profano. Paradigmatica in tal senso è la contrapposizione formulata da Tertulliano (155/160-230 ca.) nel De praescriptione haereticorum: "Che ha dunque a che fare Atene con Gerusalemme?". L'obiettivo polemico di Tertulliano è principalmente la curiositas, che deve ormai, dopo la rivelazione, cedere il passo alla fede; la venuta di Cristo ha reso superflua ogni ulteriore indagine (nobis curiositate opus non est post Christum). Questa diffidenza appare ben più marcata di quella mostrata dai Padri greci, che sembrano nel complesso mostrare una maggiore condiscendenza nei confronti della cultura pagana. Naturalmente, il contesto generale è nei due casi assai differente, dal momento che la tradizione degli studi filosofici e scientifici in Occidente aveva perso vigore a tal punto da legittimare in qualche modo l'impressione che si potesse anche rinunciare del tutto a quegli studi. Tuttavia, anche nel mondo latino a questa presa di distanza da un certo ideale di sapere non corrisponde una sfiducia assoluta nelle capacità della ragione. Lo stesso Tertulliano afferma, per esempio, che poiché nulla è stato disposto da Dio senza ragione, non vi è neppure nulla che Egli non voglia sia compreso ed esaminato con la ragione. È però soprattutto con Agostino d'Ippona (354-430) che questa tensione si manifesta in modo più esplicito, perché se da una parte egli condivide la condanna per la curiositas, vale a dire per ogni attività conoscitiva svincolata dalla fede, dall'altra parte ritiene comunque indispensabile porre il problema della formazione culturale del cristiano, di una formazione, cioè, che garantisca la possibilità di controbattere le affermazioni dei pagani, di difendere la fede contro le deviazioni degli eretici e di contribuire adeguatamente alla diffusione della fede stessa. S'incontrano così negli scritti agostiniani affermazioni almeno in apparenza difficili da conciliare. Rispondendo (tra il 388 e il 391) a una serie di questioni sollevate dall'amico Nebridio, Agostino omette volutamente quelle relative "a questo mondo": esse possono procurare certamente "qualche soddisfazione", ma rappresentano una perdita di tempo in vista della ricerca più essenziale, quella della vita beata (epistola 11). Più di un decennio più tardi, in una lettera a Dioscoro (epistola 118), Agostino ribadisce che è inutile "ricucinare con vana curiosità dispute già sopite" (olim sopitas lites inani curiositate recoquere), ossia dedicarsi alle questioni di filosofia naturale; occorre invece rivolgersi immediatamente alla conoscenza di quell'unico bene perfetto in grado di assicurarci la felicità. Analogamente, nell'Enchiridion (421 ca.) si legge che non bisogna temere più di tanto una scarsa conoscenza delle questioni naturali o dell'astronomia, giacché per un cristiano è sufficiente credere che la causa di tutte le creature, celesti e terrene, è la divina bontà del Creatore. Nel De Genesi ad litteram (composto tra il 401 e il 414), Agostino osserva invece che un cristiano che intenda attenersi alle Scritture, ma pronunci assurdità sulla Natura, diventa poco credibile e getta discredito sull'attendibilità delle Scritture stesse; è dunque necessario, per reggere il confronto con i pagani, non essere del tutto ignoranti di filosofia naturale. Questa oscillazione si scioglie proprio tenendo conto del fatto che ciò che più importa nella conoscenza è il fine; dunque risulta futile, se non addirittura dannosa, ogni conoscenza perseguita per sé stessa, ma ha una sua legittimità ogni esercizio intellettuale coltivato in vista dell'acquisizione di quell'unico sapere superiore che è in grado di assicurare la felicità, e che fin da giovane Agostino riferisce a due soli oggetti: l'anima e soprattutto ‒ attraverso quest'ultima ‒ Dio. Non si tratta così in nessun modo, per Agostino, di rinunciare alla ragione in quanto tale, perché ciò equivarrebbe a rinunciare a quel che vi è di più propriamente umano: "Lungi da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione, in virtù della quale ci ha creato superiori agli altri esseri animati. Lungi da noi credere che la fede c'impedisca di trovare o di cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, perché non potremmo neppure credere, se non avessimo un'anima razionale" (epistola 120). Fede e rivelazione, in questo senso, non si sostituiscono alla ragione ma le conferiscono una funzione diversa, quella appunto di portare alla comprensione ciò che la fede stessa propone. In questa stessa prospettiva deve essere collocata la distinzione che Agostino pone tra scientia e sapientia, anche se non sempre la sua terminologia mantiene la coerenza desiderata. Sapientia indica da una parte uno dei nomi divini (e più in particolare la seconda persona trinitaria); dall'altra, in riferimento all'uomo, "l'intelligenza propria delle realtà immutabili e spirituali", ossia la contemplazione delle verità eterne. Molto meno facile è definire con precisione in che cosa consista la scientia; in alcuni casi il termine indica la certezza fondata sulla sola ragione (De quantitate animae, 26, 49), in contrapposizione tanto alla fides, ovvero alla certezza introdotta dall'auctoritas, quanto alla conoscenza empirica di origine sensibile; talvolta invece esso racchiude insieme tutti questi ambiti (epistola 147: constat igitur nostra scientia ex visis rebus et creditis) e configura l'insieme delle conoscenze disponibili intorno a un determinato soggetto (in un senso simile a quello di disciplina). Anche nel suo primo significato, quello di conoscenza puramente razionale, la scientia definisce un uso inferiore della ragione rispetto alla sapientia; non la contemplatio aeternorum, ma "la conoscenza delle realtà temporali e mutevoli necessarie per svolgere le attività di questa vita" (De Trinitate, XII, 12, 17). Ciò non significa che essa abbia una connotazione immediatamente e irrimediabilmente negativa. Al contrario, la scienza ha anche una sua valenza positiva (habet enim et scientia modum suum bonum), che consiste appunto nell'insegnare a usare le cose temporali in conformità al bene, indirizzando la nostra stessa ricerca all'approfondimento e alla difesa dei contenuti della fede. In altri termini, la scientia è da condannare solamente quando assume ciò che è temporale e mutevole non come punto di partenza verso ciò che è eterno e immutabile, ma come proprio orizzonte esaustivo. È questa presunzione di autosufficienza che rappresenta ai suoi occhi una vera e propria perversione della finalità della ragione, il pericolo maggiore che Agostino scorge nell'attività scientifica; non a caso, egli cita volentieri a questo proposito il versetto paolino (I Corinzi, 8, 2) secondo cui "la scienza gonfia, la carità edifica". Il valore della scienza sta dunque tutto nel suo uso strumentale: adhibeatur scientia tamquam machina quaedam (epistola 55); la scienza è sempre e soltanto un mezzo, una machina appunto, da mettere al servizio della sapientia, della caritas e della fides.
Il sapere profano che Agostino ha come riferimento nel mondo romano si riduce ormai a un'erudizione generica conseguibile attraverso il ciclo delle artes liberales (così chiamate non soltanto perché ritenute degne dell'uomo libero, ma anche perché contribuiscono a renderlo libero). Di fatto, nelle scuole latine erano insegnate regolarmente soltanto retorica e grammatica, né esistevano, al di fuori dei manuali relativi a queste due discipline, testi cui fare riferimento per una formazione personale; tra i Disciplinarum libri IX di Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) e le opere di Macrobio e di Marziano Capella, che sono più o meno contemporanei di Agostino, non si segnala alcun contributo di rilievo sull'insieme delle arti liberali. A ciò si deve poi aggiungere la scarsa conoscenza del greco, che rendeva ormai quasi inutilizzabile anche la produzione scientifica classica ed ellenistica. Al di là di questi limiti, il ruolo che comunque Agostino attribuisce alle arti si può ricavare soprattutto dal De ordine, un dialogo giovanile composto nel periodo di Cassiciaco (e precisamente nel 386), dunque all'interno del doppio processo di conversione del retore Agostino alla filosofia da una parte e al cristianesimo dall'altra. Se il fine della filosofia (anche e soprattutto cristiana) è la vita beata, è vero anche che tale beatitudine non si può raggiungere direttamente; bisogna invece sottomettersi a una rigorosa disciplina che riguarda tanto la condotta di vita quanto l'ordine degli studi. Quest'ultimo s'ispira appunto allo schema ellenistico dell'enkìklios paideía, anche se nelle varie opere agostiniane si incontrano liste differenti, non sempre perfettamente sovrapponibili, delle artes che dovrebbero costituire tale 'ciclo'; al di là delle diverse denominazioni sono di norma presenti tanto le tradizionali discipline letterarie (grammatica, retorica, dialettica) quanto quelle matematiche (aritmetica, geometria, musica e astronomia, con qualche esitazione, come si vedrà, a proposito di quest'ultima). Lo stesso Agostino pensò di porre mano a un proprio progetto 'enciclopedico' (sempre nel senso tecnico dell'enkìklios paideía), destinato tuttavia a rimanere incompiuto; di esso furono effettivamente composti sei libri del De musica (che corrispondono alla metà di ciò che Agostino aveva in mente, vale a dire solamente alla parte de rhythmo, e non a quella de melo); un De grammatica (di cui ci sono giunte, come sembra, due presumibili epitomi) e i principia (che potremmo definire gli schemi di lavoro) relativi alle altre discipline (a eccezione dell'astronomia). Di questi ultimi ci sono pervenuti solamente un De dialectica (incompleto) e un'altra epitome, sulla cui autenticità ancora si discute, relativa alla retorica. Per quanto rimasto allo stato embrionale, il progetto lascia comunque trasparire l'intenzione di fondo di Agostino: delineare un percorso propedeutico nei confronti della sapientia, nel senso prima indicato. Tale propedeuticità va intesa in un duplice modo, ossia come acquisizione di una formazione di base, sotto il profilo propriamente contenutistico, e come affinamento delle capacità razionali, cioè una sorta di esercizio o allenamento della mente (exercitatio animi) in vista dei compiti ulteriori e più impegnativi. Quest'ultimo aspetto, che si ricollega evidentemente alla tradizione dell'áskesis così come era intesa nella filosofia greca e neoplatonica in particolare, è evidenziato, per esempio, nei Soliloquia (386-387) e nel De quantitate animae (387-388); al di là dei risultati specifici, le scienze esercitano la mente, la rendono capace di penetrare le realtà più sottili, purificano e preparano l'animo a contemplare le verità eterne. Lo scopo delle disciplinae letterarie e matematiche è dunque principalmente quello di consentire la transizione dagli enti corporei a quelli incorporei, puramente intelligibili, di cui si occuperà poi la sapientia. Questa finalità (per corporalia ad incorporalia) è facile da cogliere nell'unica opera più o meno completa (per la parte che fu effettivamente scritta) che ci sia pervenuta, e cioè nel De musica (388-390). Agostino è ovviamente interessato soltanto all'aspetto teorico della musica, e fondamentalmente soltanto alle implicazioni puramente razionali, cioè quelle matematiche. Il Libro VI, in questo senso, mette in opera un vero e proprio esercizio tassonomico sui vari tipi di numeri che corrispondono ai suoni: sonantes, recordabiles, occursores, progressores, iudiciales. Si tratta, nonostante qualche ambiguità di sistemazione da parte dello stesso Agostino, di una gradazione che rispetta sostanzialmente un ordine decrescente di corporeità e passività; dai suoni per così dire materiali si passa a quelli ritenuti nella memoria, quindi a quelli attualmente percepiti (ma in senso attivo, dall'anima), a quelli proferiti (ancora in senso attivo), per giungere infine a quelli presenti nella ragione e che permettono di esprimere un giudizio. Ogni giudizio razionale presuppone infine, a sua volta, un parametro immutabile, eterno, un numero che non è più neppure un numero: Dio, la verità eterna che ha disposto ogni cosa secondo "misura, numero e peso" (Sapienza, 11, 20). Già nei libri precedenti dello stesso De musica la ritmica è riportata fondamentalmente all'aritmologia; poiché i rapporti tra lunghezze di tempo diverse fra loro sono alla base delle leggi del ritmo, queste ultime possono essere analizzate considerando i corrispondenti generi di rapporti numerici. Così i motus (durate) sono suddivisi in rationabiles (durate che ammettono una misura comune, ovvero sono misurate da numeri interi) e irrationabiles (durate misurate tanto da numeri frazionari quanto da quelli irrazionali nel senso moderno); i rationabiles si dividono a loro volta in aequales e inaequales; questi ultimi possono poi essere connumerati (quando una durata è multiplo dell'altra, o entrambe sono multipli della differenza) o dinumerati (in tutti gli altri casi). I due gruppi raccolti sotto il titolo dei motus connumerati sono infine definiti rispettivamente complicati e sesquati. Né la terminologia adottata né soprattutto la connessione tra musica e aritmologia sono tratti originali di Agostino; ciò che è peculiare è invece l'immediata finalizzazione di tutto questo ambito disciplinare a un fine ben preciso, ossia l'ascesa verso l'intelligibile e la conoscenza di Dio. Ci sono però almeno due cose da notare a questo proposito. La prima è che, coerentemente con queste premesse, il ruolo più importante all'interno delle discipline liberali dovrebbe essere affidato a quelle matematiche, e in particolare all'aritmetica, che più di ogni altra, secondo una consolidata tradizione tanto (neo)platonica quanto (neo)pitagorica, astrae da ciò che è sensibile e corporeo e conduce a ciò che è intelligibile. In effetti, Agostino stesso ribadisce a più riprese tale convinzione, ma le sue competenze non gli permettono poi di andare molto più in là; in realtà, l'ambito in cui egli si muove, e in cui si è formato, è essenzialmente letterario, essendo fondato principalmente sulla grammatica e sulla retorica. L'altro aspetto degno forse di nota è che questa funzione preparatoria delle discipline liberali deve rimanere strettamente confinata nei propri limiti: è sufficiente una formazione "modesta e succinta" (De ordine, I, 8, 24), da usare con moderazione, perché "nulla è qui da temere come l'eccesso" (ibidem, II, 5, 14: nihil ibi quam nimium formidandum est). Poiché il fine è sempre la sapientia, si deve scongiurare fin dal principio un interesse troppo approfondito in qualcuna delle discipline propedeutiche. È curioso constatare come più tardi, prima sacerdote (dal 391) e poi vescovo (dal 395/396), Agostino modificherà questo programma più per quel che riguarda la definizione stessa della sapientia che per la parte propriamente preparatoria. Il manifesto che riassume il nuovo atteggiamento di Agostino nei confronti della cultura è rappresentato dal De doctrina christiana, iniziato nel 397 ma concluso pochi anni prima della morte, nel 427. Il Libro I, di carattere introduttivo, ripropone in modo ancora più radicale lo schema già noto, sintetizzabile come segue: ogni conoscenza scientifica ha per oggetto o cose o segni (omnis doctrina vel rerum vel signarum); le cose si dividono in quelle di cui godere (frui) e quelle di cui servirsi (uti); l'unico vero fine è quello supremo, perché se esiste un bene il cui possesso colma tutti i nostri desideri, non abbiamo il diritto di fermarci ad altro; dunque, così come tutte le res vanno ricondotte a Dio, tutte le nostre conoscenze vanno poste direttamente al servizio della rivelazione, e non ci può più essere spazio per indugiare neppure negli studi propriamente filosofici. Semplificando i termini della questione, si potrebbe dire che se per il giovane Agostino (come appunto nel De ordine) la scientia è propedeutica all'acquisizione della filosofia come sapientia (de anima et de Deo), per l'Agostino sacerdote e vescovo ogni sapere profano, inclusa la filosofia, è al servizio di una diversa e più alta sapientia, intrinsecamente cristiana: lo studio delle Scritture. Ciò che serve al cristiano non è una preparazione generica per poter accedere alla filosofia e all'intelligibile, ma sono gli strumenti necessari per leggere e interpretare le Scritture. Quali sono tali strumenti? In primo luogo, ancora quelli grammaticali (dallo studio delle lingue ‒ il latino, ma possibilmente anche l'ebraico e il greco ‒ a quello delle locuzioni e dei tropi e di tutti gli altri mezzi esegetici), ma anche alcune nozioni di geografia e di storia naturale, la dialettica, la numeri disciplina, e quella filosofia che concorda con la vera fede. Come si può vedere, a parte il diverso statuto che è assegnato alla filosofia, il corso di studi è soltanto leggermente modificato, se si tiene conto del fatto che geografia e storia naturale rientravano tradizionalmente nell'ambito degli studi grammaticali, che la retorica aveva poco spazio anche nella sistemazione precedente, e che le scienze matematiche possono essere comprese collettivamente sotto la numeri disciplina. Tutto è ancor più ridotto all'essenziale: la raccomandazione è sempre ne quid nimis, nulla di troppo. In definitiva, sarebbero sufficienti manuali specifici finalizzati all'esegesi biblica (sull'esempio di quello composto nel IV sec. da Epifanio di Salamina), tali da illustrare i nomi, i luoghi, le piante, gli animali, i fenomeni naturali, le figurazioni aritmologiche che ricorrono nelle Scritture o possono servire alla loro interpretazione allegorica. Non c'è più spazio, insomma, per interessi propriamente speculativi, ma solamente per un uso esegetico o apologetico di tutte le possibili conoscenze umane. La produzione agostiniana nel suo complesso riflette lo sviluppo di questo quadro programmatico. Agostino, come si è detto, si trova molto più a suo agio con le discipline letterarie che con quelle matematiche. In generale, la disciplina che egli padroneggia meglio è ovviamente la retorica, ma egli stesso è sempre più scettico sul suo reale valore scientifico, attribuendole un'efficacia soltanto di tipo pratico-performativo (quella di condurre alla verità le menti che non sono in grado di coglierla direttamente). Alla dialettica ‒ come si vedrà ‒ Agostino attribuisce un ruolo ben più importante, ma le sue competenze in campo logico non eccedono quelle di un letterato del periodo con un minimo di formazione filosofica. La grammatica ‒ nel senso ampio attribuitole nel mondo latino imperiale (come studio dei contenuti delle opere scritte, e non soltanto dei signa) ‒ rimane quindi, fino alla fine, il bagaglio principale che Agostino mutua dalla tradizionale formazione profana (non è un caso che i suoi contributi più significativi al di fuori della teologia e della filosofia riguardino principalmente la semiotica). Per quanto concerne le discipline matematiche i testi agostiniani non lasciano intravedere nulla di particolare; l'aritmetica figura principalmente come aritmologia (sul modello dei Theologumena arithmetica della tradizione neoplatonica e neopitagorica) o studio delle proprietà notevoli del numero, così come la geometria si riduce talvolta alla ricerca della figura ideale (o praestantior, come nel De quantitate animae). Della musica si è già detto; essa è oggetto di una duplice riduzione: all'aritmologia da una parte, e alla metrica dall'altra (anche quando scrive di musica, Agostino rimane fondamentalmente un grammatico). All'astronomia infine sono riservati pochi cenni, ed è significativo che quando Agostino fa riferimento, nelle Ritrattazioni, al progetto enciclopedico giovanile, essa non sia neppure menzionata. Certo Agostino non ne è del tutto a digiuno; sa, per esempio, che l'eclissi di Sole si determina alla fine del mese lunare o che la durata della rivoluzione di Saturno è di 30 anni; conosce quanto meno i nomi di Eudosso (408 ca.-355 ca.) e Arato (315 ca.-dopo il 240 a.C.), e in almeno un'occasione si spinge a riconoscere una possibile funzione positiva all'astronomia (Confessiones, V, 3, 4), a condizione di tenere ben lontano i rischi del determinismo astrale e della superstizione (De civitate Dei, V, 1, 6-7). Già la questione della sfericità della Terra gli appare quasi irrilevante, così come buona parte delle altre questioni naturali. Un buon esempio è dato dal problema degli 'antipodi', cioè degli uomini che potrebbero abitare nella parte opposta della Terra (ibidem, XVI, 9). Secondo Agostino non c'è alcun principio razionale e alcuna informazione storica a favore di questa tesi, in quanto per lui si tratta di una pura congettura mentale. Ammesso quindi che si possa provare in qualche modo che la Terra sia sferica, rimane da dimostrare che la parte inferiore sia libera dalle acque e, anche in quest'ultima ipotesi, nulla ci dice che le eventuali terre emerse siano abitate. Per contro, è più facile credere alle Scritture, che affermano la discendenza del genere umano da un solo uomo, e presumere dunque che nessuno sia stato in grado di attraversare l'Oceano che circonda le terre emerse conosciute (Europa, Asia, Africa). Finché quindi non ci sono argomenti razionali da opporre al racconto scritturale, questo può essere letto e interpretato così com'è; soltanto in presenza di evidenze diverse che contraddicano la lettera delle Scritture occorre fare ricorso all'esegesi allegorica.
La sproporzione evidente in Agostino tra cultura letteraria e cultura scientifica (che ha portato a parlare di una vera e propria 'grammaticalizzazione della scienza') ha però un risvolto singolare, poiché molti temi scientifici sono affrontati da Agostino in quanto questioni di curiosità erudita. Come si è detto, nella tradizione latina la grammatica si era progressivamente dilatata fino a occuparsi non solamente dei signa ma anche delle res; uno degli esiti più noti di questa tendenza si avrà, tra la fine del IV sec. e gli inizi del V, nel celebre commentario a Virgilio composto da Marco Servio Onorato, in cui l'autore si preoccupa non soltanto di evidenziare le locuzioni poetiche o le figure retoriche, ma anche d'illustrare i diversi oggetti (perlomeno, quelli meno consueti) e i numerosi fenomeni a cui lo stesso Virgilio allude, ricorrendo a spiegazioni etimologiche o eziologiche, così come a elementi di storia naturale, di geografia e di cronologia (un altro buon esempio, cronologicamente più vicino ad Agostino, è rappresentato dai Saturnalia di Macrobio). Quest'orientamento puramente erudito portava a isolare esempi curiosi, mirabilia, che potevano attirare maggiormente l'attenzione del lettore colto, contribuendo così alla formazione di un pubblico avido di curiositates, tanto letterarie (per es., ingegnose spiegazioni etimologiche) quanto naturali (raccolte di prodigia); da qui il successo di manuali come i Collectanea rerum memorabilium di Gaio Giulio Solino, redatti intorno alla metà del III secolo. Anche Agostino, in virtù della sua formazione, cede spesso a questa tendenza; le sue opere, anche e forse soprattutto quelle più tarde, sono piene di riferimenti a mirabilia. Qualche esempio potrà forse contribuire a delineare un'immagine meno astratta dell'universo di pensiero agostiniano: il diamante non può essere né spezzato né fuso, ma è 'vinto' dal sangue di caprone; la bianchezza della selenite si adegua alle fasi lunari; i frutti di alcuni alberi di Sodoma sono pieni di cenere; il legno del fico di Egitto prima va a fondo poi galleggia; l'acqua di una fonte sahariana è ghiacciata di giorno e ardente di notte; in Epiro e a Grenoble esistono altre fonti in cui una torcia accesa si spegne (e fin qui non c'è nulla di strano) ma una spenta si accende. Allo stesso modo, s'incontrano tranquillamente in Agostino riferimenti ad animali fantastici come dragoni, unicorni, ircocervi, congiunti ad aneddoti che prefigurano le rappresentazioni allegorico-moralistiche dei bestiari medievali; particolarmente gustosa è la descrizione di come l'aspide cerchi di tapparsi gli orecchi per resistere ai richiami dell'incantatore, schiacciando uno di essi al suolo e infilando la punta della coda nell'altro. C'è qui una paradossale rivincita della curiositas, che pure ‒ come si è detto ‒ è uno dei bersagli preferiti dello stesso Agostino nella sua polemica contro l'autosufficienza del sapere profano. Questi riferimenti non sono tuttavia soltanto espressione del gusto dell'epoca, ma svolgono anche una funzione teorica ben precisa, quella di legittimare tutti i fatti inconsueti o poco verosimili citati nelle Scritture, evitando fin da principio possibili conflitti tra ratio e auctoritas. Il meccanismo è semplice; poiché lo scopo di fondo è sempre quello di mostrare che il racconto delle Scritture non è mai contraddittorio o assurdo, quando esse introducono eventi in sé poco credibili si possono sempre citare mirabilia in qualche modo analoghi descritti nella letteratura pagana, o esperiti di persona, o anche soltanto semplicemente riferiti per sentito dire. Formazione essenzialmente erudita e grammaticale e interessi apologetici qui si sovrappongono fino a fondersi, e sanciscono il trionfo di un approccio al mondo naturale in cui l'aneddotica prende in qualche modo il sopravvento sull'indagine speculativa; i mirabilia, in questo senso, sono gli exempla di cui Dio si è servito nel libro del mondo e che risultano accessibili anche ai semplici e agli incolti. Ciò non significa, d'altra parte, che Agostino non riconosca l'esistenza di un corso ordinario della Natura; al contrario, una delle sue preoccupazioni più sentite è proprio quella di dimostrare come l'intero Creato, apparentemente disordinato e intrinsecamente mutevole, sia comunque sottoposto alle leggi immutabili stabilite da Dio (v. oltre, par. 7).
Quasi negli stessi anni di Agostino, una descrizione di tutt'altro segno (e di matrice pagana) del ruolo delle arti liberali è proposta da un altro autore di origini africane, Marziano Capella, nato a Cartagine e attivo tra il 410 e il 440 circa. Certamente anteriore a quest'ultima data è la sua opera in prosa e versi, il De nuptiis Philologiae et Mercurii, che avrà una straordinaria diffusione nel corso di tutto il Medioevo (e anche oltre) e costituirà uno dei principali canali di trasmissione dello schema settenario delle artes liberales (proprio a Marziano si deve fondamentalmente la latinizzazione corrente di buona parte del lessico specifico delle singole discipline). L'opera si compone di 9 libri; i primi due delineano la cornice allegorica della trattazione, mentre ciascuno dei sette seguenti è dedicato alla considerazione di ogni singola arte. La fortuna dell'opera è legata proprio alla sua costruzione allegorica, che ne assicurerà un vastissimo impiego a scopi didattici. Mercurio cerca una sposa, e su suggerimento di Virtù consulta Apollo che gli propone Filologia. In compagnia di Virtù e Apollo, Mercurio muove quindi alla volta di Giove, per ottenerne il consenso alle nozze. Durante questo viaggio celeste ‒ sia detto incidentalmente ‒ accade una cosa curiosa, e cioè un doppio attraversamento delle orbite planetarie (al di sopra e al di sotto del Sole), che lascia già in qualche modo intendere come l'Universo di Marziano Capella sia quanto meno compatibile con un sistema epiciclico; in effetti, nell'ottavo libro, Marziano mostra di conoscere il sistema eraclideo, concedendo che i pianeti Mercurio e Venere ruotino non intorno alla Terra ma intorno al Sole, e guadagnandosi così un futuro elogio da parte di Copernico. Tuttavia, per tornare all'allegoria, rimane un problema da risolvere: Filologia è mortale. Giove e gli dèi in consesso decidono quindi di elevare la promessa sposa al rango divino e promettono per di più un simile onore a tutti gli uomini che sapranno allo stesso modo rendersene degni. Questo è senza dubbio il fulcro dell'intera allegoria: la deificazione dell'anima umana attraverso l'esercizio del proprio intelletto. Già qui si può percepire la distanza da Agostino, in quanto le arti non sono subordinate al raggiungimento di una beatitudine che si colloca ben al di là di esse, ma costituiscono di per sé il fine ultimo che l'uomo deve proporsi. Filologia può così intraprendere a sua volta il viaggio verso lo sposo, nel corso del quale riceve in regalo proprio le sette arti, rappresentate da sette donne che presentano sé stesse e la tipologia del proprio impegno. Alle tradizionali discipline letterarie (nell'ordine, dal terzo al quinto libro, grammatica, dialettica e retorica) seguono quelle matematiche rappresentate come due coppie di sorelle gemelle: geometria e aritmetica da una parte (Libri VI-VII), astronomia e armonia dall'altra (Libri VIII-IX). Anche in Marziano, tuttavia, gli interessi letterari prevalgono di gran lunga su quelli matematici o scientifici. Come in Agostino, per esempio, la grammatica è scienza anche e soprattutto reale, e procede per via dimostrativa; essa non insegna soltanto a "scrivere e leggere come si conviene", ma anche "a comprendere e provare con cognizione di causa". Vale forse la pena di notare come questo privilegio della grammatica (o, più in generale, della filologia) non sia soltanto un indice di decadenza, come spesso è interpretato, ma veicoli la convinzione profonda che la scienza (ogni scienza) possa essere praticata solamente attraverso l'essenziale mediazione dei testi. Da questa tendenza generale trarrà origine, nel Medioevo, uno dei tratti più caratteristici della scienza occidentale, e cioè lo strettissimo legame tra scienza e testi (non è un caso che le varie discipline prenderanno il nome dei libri in cui sono tramandate), che suggerisce non soltanto l'idea di un sapere pubblico e cumulabile, ma anche la convinzione, per nulla ingenua, di vivere in un mondo già interpretato, già teoreticamente mediato. La comprensione del testo del mondo passa ormai indissolubilmente attraverso la comprensione dei testi sul mondo. Il tentativo più serio di controbilanciare il peso delle discipline letterarie nell'ambito del 'ciclo' del sapere è probabilmente quello intrapreso da Severino Boezio (480 ca.-524/525). Il rimedio proposto per supplire alla carenza di testi scientifici nel mondo latino è quello di tornare ad attingere al patrimonio greco, così come ormai sembrava inevitabile fare per la filosofia in generale; a Boezio si deve in effetti, com'è noto, la traduzione delle opere logiche di Aristotele che andranno a costituire il corpus della Logica vetus, ma anche il progetto, rimasto tale, di procedere a una versione completa delle opere tanto di Platone quanto di Aristotele, per mostrarne la concordanza di fondo. Presumibilmente l'intento boeziano era quello di offrire ai Latini un testo di base per ognuna delle quattro discipline matematiche; anzi, è proprio a Boezio che si deve l'introduzione del termine quadrivium (o, come esso compare nell'Institutio arithmetica, quadruvium) per designare l'insieme di aritmetica, geometria, astronomia e musica come quadruplice via privilegiata verso la sapienza. La scelta terminologica si rivelerà vincente, e porterà più tardi (a quanto sembra, soltanto in età carolingia) alla creazione del corrispondente antonimo trivium per designare le discipline letterarie. D'altra parte, all'interno dello stesso quadrivio la suddivisione delle discipline risponde per Boezio a un criterio preciso, che trae origine dalla distinzione aristotelica tra quantità continue (grandezze) e quantità discrete (realtà numeriche); le grandezze possono a loro volta essere immobili oppure mobili, mentre i numeri possono essere considerati o in sé o in rapporto ad altro. L'aritmetica si occupa dunque dei numeri in sé, la musica dei numeri in rapporto ad altro; la geometria delle grandezze immobili, l'astronomia delle grandezze mobili. Il piano di Boezio si è però fermato alle prime due discipline; ci sono infatti giunte una Institutio arithmetica e una Institutio musica. Il termine institutio non è casuale e rivela la finalità principalmente didattica degli scritti, destinati a un pubblico non specialistico. Il loro contenuto non è pertanto particolarmente originale; si tratta anzi fondamentalmente di una rielaborazione delle fonti greche disponibili. L'Institutio arithmetica, in particolare, è poco più di un adattamento di un manuale di Nicomaco di Gerasa (I-II sec. d.C.; Gerasa sta per Jerash, nella Giordania settentrionale); Boezio stesso ammette per di più di avere spesso sintetizzato le argomentazioni troppo ampie di Nicomaco e di avere reso più accessibili quelle troppo complesse. L'opera consta di 2 libri; il primo, in 32 capitoli, tratta dell'unità, del numero e delle sue divisioni; il secondo, in 54 capitoli, considera in primo luogo i concetti di eguaglianza e disuguaglianza, poi i numeri lineari, quadrati, cubici e poligonali, e infine, dopo, una breve analisi della dualità intesa genericamente come principio di alterità, le medie e le proporzioni, a cui sono di fatto dedicati gli ultimi 15 capitoli. L'Institutio musica si compone invece di 5 libri, l'ultimo dei quali è mancante della conclusione. Anche qui la fonte principale è rappresentata da Nicomaco, a cui si aggiungono però, in misura determinante, gli Harmonica di Claudio Tolomeo (100 ca.-178 ca.). La parte più importante è naturalmente rappresentata dai principî matematici e dallo studio delle consonanze del numero e degli intervalli, per quanto non manchino digressioni sulle concezioni filosofiche relative alla musica (Libro I), sul monocordo (l'intero Libro IV) e sulle dottrine musicali degli Antichi (Libro V). La funzione principale che Boezio assegna alla musica è quella di condurre l'intelletto a riconoscere l'armonia del mondo, e dunque l'ordine provvidenziale che sussiste nelle cose al di là della loro apparente discordanza, secondo lo stesso schema neoplatonico adottato nella Consolazione della filosofia (e in particolare nel celebre carme O qui perpetua, III, 9). Da un punto di vista strettamente storico, particolare interesse riveste il tentativo di assegnare una lettera dell'alfabeto latino a ogni variazione di altezza, a partire da A per il suono più basso sulla cetra, nonché la preoccupazione di fornire gli elenchi dei segni di notazione precedentemente utilizzati. Per quanto riguarda le altre due discipline è verosimile che Boezio abbia scritto anche un'opera di geometria; sotto il suo nome ci sono giunte due versioni, che rappresentano con ogni probabilità rimaneggiamenti più tardi e assai poco affidabili. Ci sono però pervenuti excerpta di una traduzione degli Elementi di Euclide (III sec. a.C.); è lecito quindi supporre che Boezio avesse intenzione di servirsi di Euclide allo stesso modo in cui, per l'aritmetica, si era avvalso di Nicomaco. Di un'eventuale opera astronomica non ci sono invece né tracce né menzioni, se si eccettua la testimonianza isolata, e relativamente tarda, di Gerberto di Aurillac (940/950-1003; papa con il nome di Silvestro II), il quale dichiara di averne visto una copia, in otto libri, in un manoscritto conservato a Bobbio. Più o meno contemporaneamente a Boezio, Cassiodoro (490 ca.-580 ca.) sancisce la definitiva integrazione delle discipline liberali all'interno del sapere cristiano. Le sue Institutiones, composte poco dopo il 550, si articolano in due libri; il primo traccia il quadro delle scienze sacre, mentre il secondo definisce gli elementi essenziali della formazione profana, suddivisa appunto nelle sette arti, che forniscono i requisiti generali per poter affrontare lo studio della Bibbia. La connessione non è però puramente estrinseca o accidentale, in quanto anche le arti appartengono originariamente alla storia sacra; esse furono infatti inventate dal popolo ebraico e soltanto in seguito trasmesse agli autori pagani. Se i contenuti rimangono piuttosto schematici, ciò che è caratteristico di Cassiodoro è l'attenzione prestata all'aspetto bibliografico; per ciascuna disciplina è in pratica fornito un elenco degli autori (anche greci, se accessibili in latino) e dei testi indispensabili per approfondire la formazione. Per quanto lo studio delle arti sia fondamentalmente finalizzato alla pratica esegetica, un ruolo importante, almeno in linea teorica, è attribuito alle discipline matematiche per la loro capacità di affinare l'intelligenza e di condurre gradualmente dal sensibile all'intelligibile. Così, per esempio, la musica conduce (come in Boezio) al riconoscimento dell'armonia dell'Universo; la geometria guida all'identificazione delle forme che la Trinità ha fornito a tutte le cose; l'astronomia, infine, ci permette di prendere congedo dalla "palude terrena" per passare alla considerazione del mondo celeste. Rispetto agli altri tentativi enciclopedici tardo-antichi la peculiarità delle Institutiones è così quella di porsi un problema concreto (quello dell'alfabetizzazione dei monaci) all'interno di un contesto istituzionale determinato (il monastero, e segnatamente Vivarium, quello fondato dallo stesso Cassiodoro); l'effetto importante, ai fini dei meccanismi di trasmissione del sapere, è la connessione che qui è esplicitamente operata tra scuola e biblioteca, ossia tra l'attività di insegnamento e la disponibilità del materiale bibliografico (si deve a Cassiodoro, in effetti, il primo tentativo di riscattare il ruolo dell'amanuense, trasformandolo in una vera e propria missione culturale). A questa linea 'enciclopedica' può infine essere accomunato anche Isidoro di Siviglia (560-636 ca.), per quanto lo schema adottato in questo caso non sia più quello delle discipline liberali, ma quello della raccolta etimologica. Sotto il titolo di Etymologiae ci è in effetti giunta un'opera in 20 libri che, iniziata intorno al 615, ha in pratica impegnato gli ultimi 20 anni di vita di Isidoro; la forma attuale sembra tuttavia dovuta alla risistemazione di Braulione di Saragozza (m. 651). Il materiale raccolto copre uno spettro assai ampio (anche se i singoli lemmi sono poi affrontati in modo piuttosto sintetico): grammatica (I); retorica e dialettica (II); aritmetica, musica, geometria, astronomia (III); medicina (IV); diritto e cronologia (V); Sacra Scrittura, biblioteche, temi liturgici (VI); Dio, gli angeli, i Padri e le gerarchie ecclesiastiche (VII); chiese, sinagoghe ed eresie (VIII); lingue, popoli, uffici (IX); alcuni nomi (X); l'uomo e le sue parti, anomalie e imperfezioni (XI); gli animali (XII); gli elementi, i mari e i fiumi (XIII); geografia (XIV); città, costruzioni, mezzi di comunicazione (XV); minerali, metalli, pesi e misure (XVI); agricoltura (XVII); guerra, spettacoli, giochi (XVIII); navi, pesca, mestieri, edifici, vesti (XIX); cibi, bevande, mobili (XX). Non si tratta tuttavia di una raccolta puramente erudita; l'etimologia serve in questo caso direttamente come criterio di organizzazione dello scibile. La curvatura grammaticale del sapere a cui abbiamo già fatto riferimento raggiunge qui la sua punta più ambiziosa; l'ideale è infatti quello di conoscere le cose attraverso le parole che le designano. Isidoro distingue a questo proposito (anche se non sempre in modo ferreo) tra origo ed etymologia: la prima indica la provenienza di un termine, la seconda la ragione per cui è stato istituito (ma talvolta Isidoro si avvale anche delle espressioni etymologia ex origine ed etymologia ex causa). L'etimologia consente, sotto questo duplice aspetto, di cogliere l'intima realtà di una cosa perché, se si conoscono l'origine e la causa di un nome, si accede più facilmente alla comprensione della cosa a cui esso si riferisce. L'eredità della tradizione (neo)platonica si sovrappone a quella biblica, poiché fu Adamo a imporre alle cose un nome in grado di esprimerne l'essenza. La successiva confusione babelica ha reso impossibile una ricostruzione genealogica perfetta dei nomi originari, tuttavia si può ancora cercare di capire come e perché le varie lingue abbiano dato determinati nomi alle cose, cercando comunque di cogliere l'essenza di queste ultime. L'etimologia si configura così come una chiave universale di accesso alla realtà, secondo un modello che aspira a spiegare il mondo attraverso il linguaggio, e il linguaggio attraverso la grammatica (Díaz y Díaz 1999).
Accanto al lavoro di organizzazione del sapere profano il mondo latino sviluppa anche una certa attenzione a quello che ‒ se si concede l'anacronismo ‒ potrebbe essere definito 'il metodo del discorso scientifico'. Tale attenzione ruota intorno a una disciplina in particolare: la dialettica. Già in Agostino, in effetti (soprattutto nel De ordine), la dialettica figura non solamente come arte della discussione, ma come una sorta di metascienza, come arte delle arti o scienza delle scienze (disciplina disciplinarum). Non si tratta qui soltanto del riconoscimento della sua funzione pedagogica (haec docet docere, haec docet discere), ma del fatto che essa soltanto permette di conoscere scientificamente (sola scientes facere non solum vult sed etiam potest); solamente grazie alla dialettica, in altri termini, è possibile distinguere ciò che è vero e ciò che è falso in un discorso, e soltanto servendosi dei suoi insegnamenti il sapiente può difendere la sua verità e denunciare gli errori o le falsità degli avversari. Perché si dia una veritiera conoscenza scientifica non è infatti sufficiente la sola realtà dell'oggetto, ma serve anche l'ordine della discussione, e questo può essere garantito soltanto dalla dialettica. La perfecta dialectica è così scientia veritatis, fondamento e garanzia del discorso scientifico. In concreto, la dialettica fornisce alle altre artes la possibilità di separare, ordinare e difendere il vero, secondo una sorta di circolo che parte dalla definitio, cioè dalla definizione del valore semantico di un termine e giunge, attraverso i procedimenti di divisione e distribuzione, alla ricomposizione (collectio) di quel significato con gli altri che possono esservi connessi. È senz'altro vero che Agostino sembra riservare talvolta all'aritmetica una funzione metodologica analoga a quella della dialettica, fino al punto di spingersi a dire che queste due discipline ‒ quella relativa alla bona disputatio e quella relativa alla potentia numerorum ‒ in qualche modo racchiudono tutte le altre, e quasi esauriscono l'ambito del discorso scientifico; tuttavia, come si è detto, le sue personali competenze lo portano di fatto a servirsi più della prima che della seconda. Una simile dualità si ritrova peraltro anche in Boezio, per il quale la scientia è essenzialmente la corrispondenza assoluta tra forme del discorso e natura delle cose: scientia enim est rerum quae sunt comprehensio veritatis (In Categorias Aristotelis, II). Questa definizione funziona immediatamente nel caso della matematica, perché si dà qui una corrispondenza naturale tra le operazioni di calcolo e le realtà quantificate (la dimensione quantitativa è la prima con cui si manifesta la natura di ogni cosa); per tutti gli altri ambiti è invece necessario verificare se tale corrispondenza tra ordine linguistico e ordine reale esista e quanto sia certa. Questa verifica spetta a quella scienza che è appunto la scientia disputandi, la quale, come in Agostino, non è soltanto l'arte di saper sostenere le dispute, ma anche quella che si occupa dell'organizzazione delle forme del discorso mentale. La dialectica in questo senso più ampio insegna le forme del ragionamento che permettono di pervenire a conclusioni certe, venendo di fatto a coincidere con la logica intera. Quest'ultima è quindi a un tempo scienza a sé e principio delle altre scienze, nella misura in cui offre la propria garanzia epistemologica alle altre discipline, organizzandone il discorso. Il primo momento in questo senso è sempre quello della significatio, cioè dell'attribuzione convenzionale a una vox della capacità di esprimere un significato, di rinviare a una realtà; il secondo passo è quello della delimitazione e definizione (definitio) della capacità semantica di una parola, per evitare il rischio della significazione infinita, ma soprattutto per fissare, al di là delle sensazioni e delle immagini sensibili, l'esatta corrispondenza o adaequatio del termine in questione con la cosa significata; tale processo, secondo il classico schema dell'albero porfiriano, parte dal genere per arrivare alla species specialissima (degli individui non può darsi scienza). Soltanto a questo punto, servendosi dei termini così definiti, si può procedere alle vere e proprie dimostrazioni. Va tuttavia detto che, al di là di questa impostazione assai generale, non esiste secondo Boezio un modo di procedere unico per tutte le scienze. Nel secondo capitolo del De Trinitate ‒ testo capitale, utilizzato poi nel XIII sec. da Tommaso d'Aquino (1225/1226-1274) proprio per distinguere tra loro le diverse scienze ‒ Boezio caratterizza, per esempio, in questo modo le tre parti della scienza o filosofia speculativa: la naturalis è in motu inabstracta e inseparabile (Boezio usa qui il termine greco anypexairétōs), cioè si occupa di ciò che è in movimento, e non è né astratto (secondo la considerazione) né separabile (nella realtà) dalla materia; la mathematica è sine motu inabstracta, cioè si occupa di ciò che è nella materia, ma senza movimento; la theologica è sine motu abstracta atque separabilis, cioè si occupa di ciò che è privo di movimento, ed è insieme astratto (nella considerazione) e separato (nella realtà) dalla materia. In ciascuno di tali ambiti conviene procedere in un modo diverso: rationabiliter (cioè per via di definizione e determinazione logica) nella filosofia naturale, disciplinaliter (cioè, come sembra, per via di deduzione assiomatica) nella matematica e intellectualiter (per via di pure intuizioni noetiche, senza neppure l'ausilio di immagini sensibili) nella teologia. Può essere interessante notare come questa partizione non sia incentrata tanto o soltanto sugli oggetti, ma anche sul progressivo affinamento della facoltà conoscitiva; nella filosofia naturale, la ragione considera le forme, ma pur sempre a partire dalla materia (e cioè astraendo solamente dalla materia individuale, come dirà in seguito Tommaso, e non dalla materia in generale); al contrario, nella teologia, l'intelletto coglie quasi intuitivamente le forme pure, senza più alcuna commistione con la materia (ciò che per altro verso si ricollega alla distinzione peculiarmente boeziana tra gli intelligibilia, e cioè le forme intelligibili legate alla materia, e gli intellictibilia, le forme pure completamente svincolate dalla materia).
Al di là dei modelli di organizzazione del sapere, ci si può chiedere quale fosse la visione complessiva del Cosmo che si afferma nel mondo latino nella transizione dal periodo tardo-antico a quello propriamente medievale. Bisogna distinguere due nuclei differenti, destinati poi a sovrapporsi in buona parte nel corso dello stesso Alto Medioevo: quello dipendente dalle Scritture, e in particolare dall'esegesi della Genesi, e quello dipendente invece dalle fonti cosmologiche pagane, in particolare Platone e Cicerone (106-43 a.C.), reinterpretate alla luce della tradizione neoplatonica. I contributi più importanti in quest'ultimo ambito si devono senz'altro a Calcidio e a Macrobio. Il nome di Calcidio (la cui attività si colloca fra il IV e il V sec.) è legato alla traduzione latina (parziale) del Timeo platonico, destinata a soppiantare quella ciceroniana, e al relativo commento, resosi necessario, come l'autore stesso spiega, per chiarire la difficile terminologia tecnica adoperata da Platone. L'intento di fondo è quello di comprendere i principî (initia) dell'Universo; per essere realmente originari, tali principî devono essere semplici, privi di determinazioni ed eterni: essi possono pertanto essere individuati in Dio, nell'esemplare e nella materia primordiale (silva). Ma come si può pervenire argomentativamente a tali principî? La discussione metodologica che Calcidio solleva a questo riguardo è particolarmente significativa, perché introduce nel lessico latino una coppia di termini (resolutio/compositio) destinata a riscuotere grande fortuna nelle discussioni medievali. In realtà, Calcidio sembra inizialmente far riferimento a due modi di procedere: il sillogismo, che procede da ciò che è anteriore a ciò che è posteriore, e la risoluzione, che procede dal posteriore all'anteriore. Questa sembra evidentemente la via da percorrere per giungere ai principî, ma a questo punto Calcidio introduce come antonimo di resolutio il termine compositio, che indica qualcosa di diverso dal sillogismo, e cioè, più precisamente, il procedimento con cui si ricompone ciò che la resolutio separa. Resolutio e compositio permettono così di ricostruire dinamicamente la struttura del mondo tanto nell'ordine reale (progressione delle cause negli effetti e conversione dagli effetti alle cause) quanto in quello intelligibile (scomposizione dei concetti complessi in quelli semplici, ricostruzione dei primi a partire dai secondi). Se per quel che riguarda Dio, Calcidio riprende gli elementi più caratteristici dell'Uno neoplatonico (e cioè soprattutto la duplice trascendenza rispetto alla sostanza e rispetto all'intelletto), la parte più complessa ed estesa del commento riguarda lo statuto della materia. Nella sua interpretazione, la materia primordiale platonica non è di per sé né sensibile (perché in tal caso avrebbe già forma e qualità) né intelligibile (perché in tal caso non potrebbe dare origine ai corpi); essa pertanto non è percepibile in sé, ma può essere soltanto oggetto di congettura (suspicio); ovvero, non può essere oggetto di sensazione, ma di co-sensazione (consensus) a partire dagli oggetti che si originano da essa. Analogamente, per quanto non possa essere direttamente oggetto di intellezione, la materia può essere compresa intellettualmente soltanto attraverso l'astrazione delle forme. La materia è così in un certo senso sia corporea che incorporea, sia immutabile (in quanto sostrato del cambiamento) che mutevole e passiva (in quanto è ciò che fonda la possibilità di ogni mutamento); in quanto non è soggetta a limiti di spazio o tempo, la materia è comunque infinita ed eterna. Di conseguenza, l'origine del mondo non va intesa in senso temporale, ma puramente causale (origoque eius casuativa est, non temporaria), come dire che il mondo è factus, ma è comunque aeternus e indissolubilis. Quanto al terzo initium, esso designa collettivamente le species o ideae che costituiscono il mundus intelligibilis e sono dotate di causalità paradigmatica o archetipica. Nella costituzione dell'Universo, Calcidio distingue così il livello della materia e delle forme in quanto initia, considerandolo anteriore a quello delle forme e della materia dei quattro elementi. Il processo di generazione degli elementi avviene in effetti in due fasi: la forma più elevata (l'esemplare) si combina con la materia per produrre la forma dei quattro elementi, poi queste forme si combinano a loro volta con la materia per produrre i quattro elementi intesi come sostanze fisiche. Riguardo ai corpi composti, essi necessitano di un'ulteriore mediazione: il paradigma imprime nel ricettacolo (la materia) una forma sensibile, garantendo a quest'ultima sostanzialità (la forma sensibile ‒ chiamata anche imago o simulacrum ‒ non può esistere di per sé e ha bisogno della materia). Si tratta di un processo triadico che Calcidio, sulle orme del Timeo, descrive utilizzando i termini pater, mater e proles: la forma generata è intermedia tra ciò che è vere existens (il paradigma) e ciò che non esiste affatto. Tutti questi processi hanno luogo entro l'ambito della provvidenza divina, che ha disposto atemporalmente lo sviluppo delle cause che si esplicano nel tempo. La Natura funge così da causa secondaria che agisce per disposizione della causa prima, e che è a sua volta imitata dall'uomo: omnia enim quae sunt vel dei opera sunt vel naturae vel naturam imitantis hominis artificis (Timaeus a Calcidio translatus, I, 23). Questa tripartizione tra le opere di Dio, quelle della Natura e quelle dell'uomo supera la bipartizione aristotelica tra enti di Natura ed enti tecnici, e si allinea alla concezione neoplatonica della phìsis come livello di realtà immediatamente al di sotto delle ipostasi principali (Dio, intelletto, anima). Così come il testo commentato impone, il mondo di Calcidio è una creatura vivente, provvista di un'anima creata (sempre atemporalmente) da Dio, che funge da elemento di mediazione tra l'intelligibile e il sensibile. Essa è sottoposta a un processo di divisione per opera del demiurgo, non certo in senso fisico, ma perché possa, moltiplicandosi in proporzione geometrica, costituire la tridimensionalità che è chiamata ad animare; tale progressione geometrica ha anche un preciso risvolto cosmologico perché, secondo un modello che si ritroverà in Macrobio, corrisponde alle distanze planetarie. Il tema dell'anima del mondo permette infine a Calcidio di postulare un preciso parallelismo tra macrocosmo e microcosmo, destinato anch'esso a una lunga e fortunata persistenza nel mondo latino. Va però detto che non è la Terra, che pure rappresenta il centro fisico dell'Universo, a costituirne anche il nucleo della forza vitale, ma è invece il Sole a svolgere tale funzione. Già quest'ultimo tema permette di accostare immediatamente alla figura di Calcidio quella di Ambrogio Teodosio Macrobio, intorno a cui si continua a disporre di informazioni assai scarne; difficilmente tuttavia i suoi scritti possono essere anteriori al 408-410. Sotto il suo nome ci sono pervenuti i Saturnalia, dialogo fittizio in cui vari intellettuali romani si ritrovano per celebrare una delle festività più importanti del calendario, e che ruota fondamentalmente sull'interpretazione (tanto stilistica quanto contenutistica) di Virgilio, e soprattutto i Commentarii in Somnium Scipionis, e cioè un commento al sogno di Scipione Emiliano descritto nel Libro VI del De republica di Cicerone. Nell'introduzione di quest'ultima opera, Macrobio dichiara la sua intenzione di procedere fondamentalmente a un confronto tra lo Stato ideale di Platone e quello di Cicerone, anche se nel corso del commento stesso sono trattati anche molti altri temi quali la natura del numero, l'ambiguità della profezia, la classificazione delle virtù, la natura dell'anima umana e la sua relazione con l'Universo, alcune questioni di cosmografia e di geografia, l'eternità del mondo, i cicli della storia, la suddivisione della filosofia. L'interesse è prevalentemente psicologico, ma la struttura metafisica di fondo è tipicamente neoplatonica, con le tre classiche ipostasi principali accanto alle quali si colloca una figura demiurgica (opifex deus, deus mundanae molis artifex conditorque) che probabilmente coincide con la fase più elevata ‒ quella intellettiva ‒ della terza ipostasi, e cioè con l'anima del mondo. Si deve qui in effetti tenere conto di una sorta di gerarchia discendente: l'intelletto come seconda ipostasi costituisce l'anima del mondo (fase più elevata della terza ipostasi) e quest'ultima trasmette un elemento intellettivo ai corpi celesti, che a loro volta lo trasmettono agli esseri umani. Un ruolo particolare in questa serie sembra essere riservato appunto al Sole, che è anche chiamato mens mundi. Non si tratta soltanto di una metafora; il Sole svolge tanto un ruolo fisico (come causa dei processi di cambiamento nel mondo sublunare) quanto uno intelligibile, come fonte delle intellezioni umane (tema che trova corrispondenza nella teologia solare sviluppata nei Saturnalia, in cui si cerca di mostrare che tutte le divinità greche, romane ed egizie non esprimono altro se non i diversi aspetti, fisici ed intelligibili, dell'attività solare). L'anima del mondo ha, d'altra parte, una fase inferiore che Macrobio descrive sovrapponendo al testo ciceroniano la tesi del Timeo secondo cui l'anima è composta da diversi numeri e proporzioni; più precisamente, l'anima è costituita dalle due serie geometriche del primo numero pari e del primo numero dispari fino ai rispettivi cubi (cioè 2, 4 e 8 da una parte; 3, 9, 27 dall'altra) disposte simmetricamente ai due lati dell'unità a formare una specie di lettera greca lambda. Tale progressione sta proprio a indicare il passaggio dall'unità alla superficie (quadrati) e ai corpi solidi (cubi). Ma i rapporti tra i numeri corrispondono anche, come già accennato, alle distanze tra le sfere planetarie: la distanza tra la Terra e il Sole è due volte quella tra la Terra e la Luna, tra la Terra e Venere è due volte quella tra la Terra e il Sole, tra la Terra e Mercurio è quattro volte quella tra la Terra e Venere, tra la Terra e Marte è nove volte quella tra la Terra e Mercurio, tra la Terra e Giove è otto volte quella tra la Terra e Marte, tra la Terra e Saturno è ventisette volte quella tra la Terra e Giove. Questi intervalli nel corpo del mondo riproducono la tessitura (contextio) dell'anima e danno luogo a un'armonia che è effettivamente percepibile, secondo un tema che era già presente in Platone (non tanto nel Timeo, quanto nella Repubblica e nel Cratilo), negato poi da Aristotele nel De caelo e generalmente ammesso dai neopitagorici, ma di cui proprio Macrobio (insieme a Marziano Capella) consacrerà la fortuna secolare, pur conservando un sano scetticismo di fronte ai tentativi di riportare tale musica celeste a un preciso sistema di notazione.
Per quanto riguarda l'interpretazione cristiana della Natura, è ancora Agostino a svolgere un ruolo determinante. Occorre tuttavia precisare che il termine 'natura' conserva prevalentemente nella produzione agostiniana il suo significato tradizionale di ciò che permette di collocare qualcosa in un genere (secondo una valenza simile a quella di essentia o substantia): ipsa natura nihil est aliud, quam id quod intelligitur in suo genere aliquid esse (De moribus ecclesiae catholicae, II, 2). Da questo punta di vista, esiste per Agostino una tripartizione originaria tra le nature: ciò che muta nello spazio e nel tempo (tutti i corpi fisici), ciò che muta solamente nel tempo (le creature spirituali), ciò che è assolutamente immutabile (Dio). L'idea di Natura come totalità dei fenomeni che costituiscono il mondo sensibile occupa molto meno spazio, ma non è del tutto assente. Peculiare a questo proposito è il parallelismo, destinato a diventare classico, tra Libro (il Libro per eccellenza: la Bibbia) e Natura, che è anche in questo caso qualcosa di più di una semplice metafora; si tratta di due strumenti della rivelazione che vanno esaminati con le stesse tecniche. Ciò naturalmente presuppone una positività strutturale della Natura e soprattutto, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la mancanza di una vera e propria distinzione tra ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale (distinzione che riacquisterà senso soltanto più tardi, quando 'natura' riprenderà principalmente il senso della phìsis aristotelica). La saldatura tra agire divino e corso della Natura si fa evidente nella dottrina agostiniana delle rationes seminales, che, attraverso la rielaborazione di motivi plotiniani e stoici, serve a riconciliare il concetto biblico della Creazione con l'esperienza, accessibile a tutti, di uno sviluppo progressivo delle forme naturali, specie di quelle viventi. In effetti, Dio inserisce fin dall'inizio nel Creato, come in una specie di tessitura, le ragioni causali di tutti gli enti che compariranno successivamente, assicurandone la successione ordinata (connexio praecedentium sequentiumque causarum); sono esse dunque a fungere da elemento mediatore tra i due momenti della Creazione ‒ quella iniziale, che ebbe luogo simultaneamente (prima conditio) e quella sviluppata, con cui Dio conserva e amministra il mondo (administratio). Non soltanto: queste stesse rationes, in quanto dipendono a loro volta dalle ragioni immutabili ed eterne (rationes incommutabiles o principales formae) contenute nel Verbo divino, rappresentano anche i principî di esistenza e intelligibilità di tutti gli enti creati. Non tutte le rationes causales, tuttavia, furono effettivamente inserite nel mondo al momento della creazione simultanea; alcune sono state riservate da Dio nella sua prescienza e nella sua volontà, per produrre i loro effetti soltanto a un dato momento. Queste cause 'riservate' servono, a differenza delle altre, a spiegare gli eventi che sembrano interrompere il corso ordinario della Natura, come, per esempio, i miracoli. In realtà, nessun prodigio o nessun miracolo accade contro natura, poiché tutto accade sempre per volontà di Dio, il quale stabilisce la natura di tutte le cose. Ogni evento portentoso, dunque, accade non contro natura, ma contro quella parte della Natura che conosciamo (De civitate Dei, XXI, 8, 2). Ciò porta implicitamente a una delle prime formulazioni del concetto di 'legge di Natura': naturae usitatissimus cursus habet quasdam naturales leges suas (De Genesi ad litteram, IX, 18, 32), come dire che il corso della Natura ha le sue determinate leggi, le 'leggi naturali'. Certo Dio potrebbe in linea di principio mutare tale corso, ma poiché la caratteristica principale dell'essenza divina è la sua immutabilità, è assai più facile pensare che tutto sia già predisposto, e che Dio non agisca mai contra naturam ‒ cioè contro l'ordine che Egli stesso ha stabilito. Come già anticipato, il parallelismo tra Natura e Scrittura diventa uno dei nuclei di fondo della cultura dell'Alto Medioevo. Nel De natura rerum di Isidoro di Siviglia, per non citare che uno degli esempi più significativi, si afferma esplicitamente la necessità d'interpretare la Natura secundum mysticum sensum, al fine di ritrovare in essa i simboli e le figure della storia della salvezza; questa stessa tendenza si ritrova, in misura diversa, in Beda il Venerabile (672 ca.-735) e soprattutto in Rabano Mauro (776 ca.-856). È però in Giovanni Scoto Eriugena (810-877 ca.) che questo schema raggiunge forse le sue più estreme conseguenze, finendo in qualche modo per ribaltarsi; l'equivalenza tra Scrittura e Natura procura una dignità quasi sacra allo studio di quest'ultima, e depotenzia lo statuto della prima come fonte unica o privilegiata di conoscenza. È in quanto tale che il grande libro della Natura richiede un'attenta esegesi dei suoi significati intelligibili: nihil enim visibilium rerum corporaliumque est […] quod non incorporale quid et intelligibile significet (Periphyseon, V). Ciò comporta uno slittamento in qualche modo decisivo all'interno del rapporto tradizionale tra auctoritas e ratio; la guida divina della ratio (ancora una volta, il metodo dialettico) è l'unica a poter condurre alla verità, anche quando l'auctoritas sembra suggerire il contrario. Poiché, come si legge nel Libro I del Periphyseon, la ragione ha la priorità nell'ordine della Natura e l'autorità in quello temporale, è quest'ultima a dover trovare il suo fondamento nella vera ragione, e non il contrario. Di fatto, ogni autorità che non sia approvata dalla vera ragione appare debole, mentre la vera ragione permane immutabile, e non ha bisogno del sostegno di alcuna autorità. L'unica autorità ammissibile è la verità scoperta con la ragione e affidata agli scritti per utilità degli altri. Non è forse un caso, in questo senso, che l'intera costruzione del Periphyseon poggi sul concetto di Natura intesa come categoria suprema e onnicomprensiva, tale da includere tanto le cose che sono quanto quelle che non sono. 'Natura' designa qui al tempo stesso l'insieme delle cose e la totalità di ciò che può essere detto, secondo un perfetto parallelismo tra realtà e linguaggio che trae origine da una precisa opzione insieme teologica e cosmologica; allo stesso modo in cui il nostro intelletto, pur essendo invisibile e incomprensibile, si manifesta attraverso i segni linguistici, diventando in qualche modo fisico, così l'intelletto divino, in sé assolutamente trascendente, si manifesta attraverso tutto il Creato. Tutto il reale pertanto, come apparizione del 'non apparente', non è che un insieme di teofanie, cioè di manifestazioni del divino; perfino il tempo e la storia non sono che rappresentazioni di un ordine immutabile. Scoto Eriugena può così suddividere l'intera realtà in quattro gradi fondamentali: la Natura che crea e non è creata, la Natura che crea ed è creata (ossia il primo stadio della manifestazione teofanica, costituito dai paradigmi o causae primordiales contenute nel Verbo), la Natura che non crea ed è creata (il nostro mondo sensibile), la Natura che non crea e non è creata (l'unità che si ricomporrà dopo il ritorno o la conversione di tutte le cose). Lo scarto più importante rispetto alla tradizione precedente si ha qui soprattutto nel secondo momento; sotto l'influsso della teologia bizantina (a Scoto Eriugena si deve una fondamentale versione latina del Corpus Dionysiacum), le causae primordiales di Agostino sono fatte coincidere con le nozioni divine corrispondenti, e cioè con gli atti di conoscenza e volizione (predestinazioni) contenuti nel Verbo divino. Tali nozioni sono coeterne a Dio e divine in sé; sono 'create' in quanto pensate da Dio e 'creatrici' in quanto tutto ciò che è altro da Dio è prodotto a partire da esse; una conseguenza di tale impostazione è che le stesse cose che appaiono temporalmente agli uomini in quanto effetti, sussistono eternamente nella mente di Dio in quanto cause, ed è esattamente da questa identità di fondo che la considerazione della Natura creata trae la sua legittimità e in qualche modo, come già si diceva, la sua sacralità. Scoto Eriugena è anche il punto in cui la tradizione della letteratura esameronale e dei commenti alla Genesi viene a saldarsi con la cosmologia neoplatonica latina elaborata da Calcidio e da Macrobio, dando vita a un modello che rimarrà dominante fino a buona parte del XII sec., e in particolare nella Scuola di Chartres. Almeno alcuni degli esiti di questa confluenza meritano forse di essere ricordati: il meccanismo di costituzione dei corpi fisici che, a partire dalla polarità originaria di causae primordiales e materia informe, ripropone non soltanto la dialettica calcidiana tra exemplar e silva, ma anche quella tra le forme intelligibili dei quattro elementi e i corpi elementari; la negazione, in base agli stessi principî della cosmologia neoplatonica, dell'esistenza fisica delle acque sopracelesti menzionate nella Genesi (caso quasi isolato fino al XII sec.); il ruolo particolare attribuito al Sole nella complessione dell'Universo, che ha anche suggerito l'ipotesi di una possibile accettazione, da parte dello stesso Scoto Eriugena, del sistema eraclideo. In realtà, nel Periphyseon si osserva che Giove, Marte, Venere e Mercurio cambiano colore e luminosità nei loro movimenti al di sopra e al di sotto dell'orbita solare; essi appaiono di colore chiaro nell'attraversare la metà dell'Universo compresa tra il Sole e le stelle, e rossi quando sono osservati al di sotto del Sole. Ciò dipende appunto dal fatto che Scoto Eriugena concepisce l'Universo fisico come una grande sfera il cui raggio è diviso in due segmenti uguali dall'orbita del Sole, che separa così due regioni ben diverse: una costituita dall'etere o fuoco puro, che tuttavia non arde perché si dà combustione soltanto quando il fuoco stesso incontra corpi densi, e l'altra occupata da elementi sensibili al fuoco e agli stessi raggi solari. I quattro pianeti indicati cambiano pertanto colore rispetto al Sole non perché quest'ultimo rappresenti il centro di loro possibili orbite epicicliche mobili, ma perché ‒ come sembra ‒ esso definisce il limite intermedio dell'Universo rispetto al quale i pianeti oscillano in altezza. Pur prevedendo orbite eccentriche, il Cosmo di Scoto Eriugena rimane così, nel suo complesso, fondamentalmente geocentrico; tuttavia, sotto la probabile influenza congiunta di Calcidio, Macrobio e Marziano Capella, è di fatto il Sole, in quanto termine intermedio dell'intero spazio cosmico, a svolgere in esso la funzione di centro vitale più importante.