Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel 1865 la vittoria nordista nella guerra di secessione chiude un capitolo oscuro nella storia degli Stati Uniti: con il XIII emendamento alla Costituzione la schiavitù viene definitivamente abolita in tutti i territori dell’Unione. La distruzione della società schiavistica e la soppressione internazionale della tratta, sancita già nel 1815, mettono fine al traffico secolare di schiavi e merci che aveva fatto la fortuna dell’Europa e delle Americhe depredando il continente africano dei suoi abitanti.
Una società e un’economia schiavistiche
“Istituzione peculiare”, così legislatori e politici americani definiscono la schiavitù, un istituto che condiziona profondamente l’economia, la vita politica e sociale, e la psicologia delle popolazioni del Sud.
Nella società rurale e tradizionalista della Virginia, dell’Alabama o della Georgia, dominata da ideologie anti-industriali e antiurbane, è il paternalismo a caratterizzare i rapporti di lavoro tra il padrone e i suoi schiavi. Sullo schiavo si regge la raccolta del cotone sia nella piccola azienda agricola, sia nelle grandi piantagioni; sul possesso di schiavi si fonda il potere politico ed economico dei ricchi agricoltori, il nucleo della classe dirigente sudista. Uno stile di vita, quello del Sud, in netto contrasto con il modello urbano e capitalista dominante nel nord del Paese.
Nel 1793 l’invenzione della cotton gin, la macchina sgranatrice del cotone, impone una svolta decisiva all’economia agraria schiavistica, favorendo l’estensione delle piantagioni.
Scomparsa o quasi la tratta, è l’incremento demografico senza precedenti della popolazione nera, favorito anche dai grandi proprietari che incoraggiano fortemente la natalità tra gli schiavi, ad accompagnare la messa a coltura di nuovi territori.
Nel giro di cinquant’anni il numero di schiavi si moltiplica e passa da 1,5 milioni nel 1815 a circa 4 milioni nel 1860. Gli schiavi neri costituiscono dunque l’elemento propulsore dell’economia sudista del XIX secolo, che va costruendosi secondo modelli di sviluppo sempre più contrastanti con quelli egemoni negli Stati industriali del Nord.
Per comprendere le ragioni dello scontro tra Nord e Sud vanno spiegate le caratteristiche economiche dell’organizzazione schiavistica del lavoro. In primo luogo un basso livello di accumulazione del capitale, investito quasi esclusivamente nell’acquisto di schiavi. Di conseguenza, in mancanza di forti somme di denaro liquido e a causa della fuga di capitali dalla regione, ogni attività finanziaria, commerciale e industriale resta subordinata al modello della piantagione che si delinea sempre più come unità di produzione e consumo chiusa e autosufficiente. Nei fatti questo significa che il cotone prodotto negli Stati meridionali, che negli anni Cinquanta costituisce i tre quarti della produzione mondiale, ha bisogno del Nord per venire commercializzato.
Il timore della classe dirigente sudista è proprio quello di venire strangolata dalla politica protezionistica voluta dalla potenza industriale e finanziaria del Nord. In un opuscolo sull’incombente crisi del Sud pubblicato nel 1857, Hinton Helper, l’unico sudista di una certa influenza che si opponga all’istituto della schiavitù, scrive: “Noi abbiamo bisogno di Bibbie, di scope, di secchi e di libri e andiamo nel Nord [...]. Invece di conservare il nostro denaro liquido, sostenendo i nostri operai, noi lo rimandiamo nel Nord e non lo rivediamo più. In un modo o nell’altro siamo subordinati al Nord ogni giorno della nostra vita [...]. E finalmente, quando moriamo, i nostri corpi vengono calati in una tomba scavata con una zappa fabbricata nel Nord e resi riconoscibili grazie a una lapide proveniente dal Nord”.
Inoltre, il Sud teme l’alleanza tra i grandi industriali nordisti e i liberi agricoltori che popolano i territori dell’Ovest, i freesoilers, ostacolando la diffusione delle piantagioni di cotone in terre vergini e più fertili. Il Sud ha bisogno di nuove terre dove vendere gli schiavi in eccedenza ed esportare il modello della piantagione; solo in questo modo può salvaguardare la sua posizione egemonica, estendendo il controllo politico al Congresso e difendendo gli interessi dei proprietari di schiavi, da più parti messi in discussione. La stessa schiavitù, che all’inizio del secolo sembrava destinata a scomparire, viene adesso sostenuta a voce alta come un’istituzione necessaria e positiva: difendendo questa istituzione si appoggia il potere dei piantatori arricchiti con il boom del cotone.
Vivere da schiavi
Nei secoli della schiavitù i neri sono costretti a subire il controllo sociale e il sistema di potere dei bianchi che li hanno comperati. La disciplina, il lavoro coatto e le punizioni corporali scandiscono l’esistenza quotidiana dei neri nelle piantagioni.
Va tuttavia notato che, per quanto terribili, le condizioni di vita degli schiavi non sono così diverse da quelle della classe operaia europea o americana. Ancora all’inizio del Novecento bambini, uomini e donne lavorano nelle fabbriche e nelle miniere in condizioni terribilmente disumane, per di più senza un’alimentazione adeguata. Nelle piantagioni, dove i proprietari hanno paura di subire i contraccolpi economici di un generale deperimento fisico degli schiavi, il cibo distribuito è più proteico e abbondante.
Nel corso dei secoli, benché ridotti in schiavitù, i neri riescono a creare una specifica cultura “afroamericana” che congiunge alcuni elementi tradizionali della loro cultura d’origine ai modelli religiosi e culturali imposti dai dominatori bianchi. La stessa forte connotazione rurale della vita nelle piantagioni, governata dal susseguirsi delle stagioni e dai cicli della natura, garantisce la sopravvivenza di alcune antiche abitudini della vita collettiva: il lavoro in gruppo nei campi, lo spirito comunitario che caratterizza la celebrazione dei riti religiosi, l’ostilità ai ritmi cadenzati del lavoro industriale.
Nell’aderire al cattolicesimo o alle diverse Chiese protestanti (soprattutto battismo e metodismo) i neri apportano elementi tradizionali del folklore africano e delle credenze dei loro avi; alcune radici della loro cultura sono rintracciabili nei gospels e nei blues che accompagnano le cerimonie religiose pubbliche della comunità (funerali, matrimoni, messe cantate).
Nel corso dell’Ottocento, dunque, nella cornice di una cultura prevalentemente anglosassone e protestante, prende forma un’autonoma etica del lavoro e della vita che è patrimonio esclusivo della comunità nera afroamericana, profondamente influenzata dalla cultura dominante ma in rapporto decisamente antitetico rispetto a questa.
L’abolizionismo
All’inizio degli anni Trenta, al Nord si diffonde il movimento abolizionista. Le parole d’ordine sono: proscrizione del commercio di schiavi, emancipazione immediata e annullamento della legislazione che proibisce a tutti coloro che vivono in schiavitù di ricevere un’istruzione.
Si moltiplicano così le organizzazioni antischiavistiche: nel 1831 a Boston nasce la New England Anti-Slavery Society (NEASS) e due anni più tardi a Filadelfia viene fondata la prima associazione a livello nazionale, l’American Anti-Slavery Society (AASS). I programmi costitutivi delle organizzazioni si appellano ai principi di eguaglianza contenuti nella Dichiarazione d’indipendenza e rigettano lo spirito della Costituzione che garantiva l’istituto della schiavitù (articolo 1 e articolo 4).
Nel 1831, a Boston, William Lloyd Garrison, un giovane americano del Massachusetts, fonda il “Liberator”, un giornale impegnato in prima linea nella propaganda antischiavista. “Non indietreggerò nemmeno di un pollice e mi farò sentire”, scrive Garrison sul primo numero del “Liberator” e il suo impegno militante in difesa dei neri d’America spinge lo Stato della Georgia a offrire una ricompensa in denaro a chiunque lo avesse rapito e portato nel Sud per sottoporlo a processo.
Riformisti, intellettuali, quaccheri e pastori protestanti sono i principali protagonisti del fronte abolizionista, un movimento fortemente minoritario nell’opinione pubblica dell’epoca, ma in grado di organizzare grandi campagne di sensibilizzazione.
Conferenzieri delle diverse organizzazioni girano il Paese per diffondere le idee del movimento, ricevendo spesso insulti e lanci di pietre. Le spedizioni postali di opuscoli e pubblicazioni antischiaviste intendono raggiungere un numero sempre maggiore di Americani. Anche il Congresso viene preso di mira nella battaglia, e molte migliaia di petizioni raggiungono i senatori degli Stati Uniti. Manifestazioni di protesta e azioni di disobbedienza civile si organizzano contro le leggi federali che ordinano l’arresto degli schiavi fuggitivi nascosti al Nord.
Rimane un gesto isolato quello compiuto nell’ottobre del 1859 da John Brown, un militante abolizionista del Connecticut, che attacca con un gruppo di uomini armati l’arsenale militare di Harpers Ferry in Virginia. Il suo tentativo di far scoppiare una rivolta tra gli schiavi fallisce e John Brown, arrestato dalle truppe federali, viene impiccato alcuni mesi dopo.
In quegli anni si organizza autonomamente anche il movimento dei neri che si batte contro la schiavitù, in difesa dei fuggiaschi e per l’affermazione dei diritti civili. Non va infatti dimenticato che anche al Nord, dove vivono numerosi neri liberi, molte occupazioni, scuole e università sono loro interdette, espropriandoli anche dei più fondamentali diritti civili. Frederick Douglass, nato in schiavitù nel Maryland e fuggito al Nord alla fine degli anni Trenta, è il più famoso tra i leader neri dell’Ottocento.
Anche molte donne sono coinvolte in prima persona nella battaglia abolizionista. Fanno sentire il loro peso girando il Paese come oratrici itineranti dell’AASS, gestendo piccole scuole per bambini neri e contribuendo alla stesura e alla circolazione delle petizioni. Il loro impegno a favore della causa dei neri si accompagna alle prime battaglie per i diritti e la libertà delle donne.
La guerra di secessione
Nel novembre del 1860 Abraham Lincoln, un avvocato noto per le sue posizioni moderatamente antischiavistiche, diventa presidente degli Stati Uniti. Il programma del suo partito, il Partito repubblicano, è molto chiaro: niente schiavitù nei territori dell’Ovest, destinati ai freesoilers; protezionismo doganale a favore delle industrie del Nord e condanna di ogni tentativo secessionista. La schiavitù al Sud è mantenuta e tollerata, ma se ne auspica a breve un naturale esaurimento o l’abolizione a opera degli stessi sudisti.
Un mese dopo l’elezione del presidente, nel timore di un’imminente abolizione totale della schiavitù, in verità non troppo probabile, la Carolina del Sud si distacca dall’Unione, seguita a ruota da Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Tennessee e Carolina del Nord. Il cosiddetto “vecchio e profondo Sud”, insomma, abbandona in blocco l’Unione e si riunisce negli Stati Confederati d’America, con capitale Richmond, sotto la presidenza di Jefferson Davis.
Nel gennaio del 1861 scoppia la guerra di secessione, più nota nella storiografia americana come civil war, guerra civile. Una guerra la cui motivazione non sta in realtà solo nel problema del mantenimento o meno della schiavitù, anche se negli Stati del Nord indigna la ferita inferta ai diritti dell’uomo dal sistema schiavistico e desta preoccupazione il rischio di un abbassamento del livello dei salari, ma più globalmente nella profonda diversità degli orientamenti economici e politici del Nord e del Sud del Paese. Il Nord vuole una politica protezionistica per difendere la sua produzione industriale e, di conseguenza, uno Stato federale forte in grado di imporla, mentre il Sud punta sul libero scambio per favorire le esportazioni di cotone e di tabacco e quindi sulla libertà di manovra di ciascuno Stato.
Una guerra cruenta
La guerra si rivela logorante e cruenta – muoiono più di 600 mila uomini – nonostante la superiorità degli armamenti e delle infrastrutture degli Stati dell’Unione e la loro maggiore consistenza demografica (22 milioni di abitanti contro i 9 del Sud, compresi i 4 milioni di schiavi), e tanto lunga che si avrà il tempo di allestire e utilizzare le prime corazzate. Dopo alcuni successi militari dovuti alla buona preparazione delle truppe e alla perizia dei comandanti militari della Confederazione, il più importante dei quali è la battaglia sul fiume Bull Run del luglio del 1861, il Sud è ancora in grado di opporre a lungo una valida resistenza, anche per l’incertezza nella conduzione delle operazioni da parte dei generali dell’Unione. Dal 1863, però, soprattutto per merito del generale Ulysses Grant, e in particolare dopo la capitolazione di Vicksburg, il 3 luglio, che dà al Nord il controllo del Mississippi, appare scontato l’esito del conflitto, che si conclude con la vittoria dell’Unione nella primavera del 1865. Da allora in poi la politica dell’Unione sarà decisa dagli Stati del Nord. Ma già nel gennaio del 1865 era stato approvato un emendamento alla Costituzione che aboliva la schiavitù in tutti gli Stati.